IL FUTURO DELLA PEDIATRIA IN ITALIA

Il contributo della dott.ssa Cajani
gioved�, 1 Febbraio 2007, ore 12:00
Provo anch’io una certa vergogna come il collega Grimaldi (Medico e Bambino 2006;25:627-8) ad inviarvi queste mie banali riflessioni, scritte d’impulso venerdì sera dopo una dura giornata ( vedi Box), in cui credo di aver svolto con coscienza il mio lavoro di pediatra di famiglia dalle 8 alle 20, e che spero possano esprimere (a volte le parole sciupano le sensazioni) quel senso di smarrimento, di “crisi di identità, di rapporti, di ruoli”, di cui si parla nel Forum di Pisa (Medico e Bambino 2006;25:483-4). Sento anch’io l’esigenza di cambiamenti. Inizierò dalla domanda: quale pediatria? La risposta, a mio avviso, sta negli obiettivi che propone il prof. Biasini nella sua bellissima lettera (Medico e Bambino 2006;25:83): una pediatria che si trasformi in “una comunità di pediatri senza distinzioni tra ospedalieri, territoriali, universitari. Una comunità di professionisti che recuperino l’abitudine a lavorare insieme, ma non nel vuoto, bensì in un sistema organizzato come il SSN, con comuni obiettivi e comuni metodi di lavoro.”
Individuati gli obiettivi, quale pediatra? Essere un buon pediatra è tanto difficile quanto essere un buon genitore: forse non esistono ricettari pronti né comportamenti al riparo da fraintendimenti o ricadute negative. In questi anni di professione, come pediatra di base, ho cercato di individuare alcuni punti essenziali.
Un buon pediatra deve essere consapevole delle sue responsabilità, esercitare una buona vigilanza sulle patologie, mettersi possibilmente in armonia con se stesso e con gli altri (utenti, medici ospedalieri e infermieri, colleghi), tenere sempre vivo il desiderio di imparare da chi ha più esperienza nello specifico campo, non abusare del suo potere, verificare la qualità del suo lavoro, collaborare con l’ospedale, condividere le emozioni e le paure di genitori sempre più fragili e disorientati, visitare a volte il bambino a domicilio perché, se non vedi, almeno una volta, la casa dove vive un bambino, non puoi dire di conoscere pienamente la sua storia.
Io, personalmente, non mi sono mai associata perché credo che un associazionismo vero al servizio del bambino possa essere utile solo attraverso un progetto che impegni profondamente ospedale, continuità assistenziale e pediatri del territorio in una comune condivisione dell’ideale che la sanità pubblica per la quale lavoriamo deve e può essere di qualità (anche qui ritorna l’obiettivo “essere comunità” del prof. Biasini). Credo invece profondamente nella pediatria di gruppo, una realtà attualmente inattuabile dove io opero.
Negli ultimi mesi, alla fine della giornata lavorativa, mi ritrovo dentro un senso di smarrimento indicibile: percepisco uno scollamento sempre più imperante tra ospedale e territorio, con i medici del Pronto Soccorso, giustamente stanchi di occuparsi di ciò che competerebbe al pediatra di famiglia, ma con noi pediatri di famiglia, impossibilitati a volte a conciliare con l’appropriatezza i risparmi e le continue pretese dell’utenza che ci vengono richieste.
Forse solo riuniti in “comunità”, con un progetto etico e obiettivi e metodi comuni, possiamo veramente diventare una forza e cambiare le cose, perché gli obiettivi non si realizzano da soli, ma bisogna dirigerli e fare in modo di realizzarli, producendoli e rivedendoli giorno dopo giorno.

Cajani
Pediatra di famiglia, Erba (Como)
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