Provo anch’io una certa vergogna come
il collega Grimaldi (Medico e Bambino
2006;25:627-8) ad inviarvi queste mie banali
riflessioni, scritte d’impulso venerdì sera
dopo una dura giornata (
vedi Box), in cui
credo di aver svolto con coscienza il mio lavoro
di pediatra di famiglia dalle 8 alle 20, e
che spero possano esprimere (a volte le parole
sciupano le sensazioni) quel senso di
smarrimento, di “crisi di identità, di rapporti,
di ruoli”, di cui si parla nel Forum di Pisa
(Medico e Bambino 2006;25:483-4).
Sento anch’io l’esigenza di cambiamenti.
Inizierò dalla domanda: quale pediatria?
La risposta, a mio avviso, sta negli obiettivi
che propone il prof. Biasini nella sua
bellissima lettera (Medico e Bambino
2006;25:83): una pediatria che si trasformi
in “una comunità di pediatri senza distinzioni
tra ospedalieri, territoriali, universitari.
Una comunità di professionisti che recuperino
l’abitudine a lavorare insieme, ma
non nel vuoto, bensì in un sistema organizzato
come il SSN, con comuni obiettivi e
comuni metodi di lavoro.”
Individuati gli obiettivi, quale pediatra?
Essere un buon pediatra è tanto difficile
quanto essere un buon genitore: forse
non esistono ricettari pronti né comportamenti
al riparo da fraintendimenti o ricadute
negative. In questi anni di professione,
come pediatra di base, ho cercato di individuare
alcuni punti essenziali.
Un buon pediatra deve essere consapevole
delle sue responsabilità, esercitare
una buona vigilanza sulle patologie, mettersi
possibilmente in armonia con se stesso
e con gli altri (utenti, medici ospedalieri
e infermieri, colleghi), tenere sempre vivo
il desiderio di imparare da chi ha più esperienza
nello specifico campo, non abusare
del suo potere, verificare la qualità del suo
lavoro, collaborare con l’ospedale, condividere
le emozioni e le paure di genitori
sempre più fragili e disorientati, visitare a
volte il bambino a domicilio perché, se
non vedi, almeno una volta, la casa dove
vive un bambino, non puoi dire di conoscere
pienamente la sua storia.
Io, personalmente, non mi sono mai associata
perché credo che un associazionismo
vero al servizio del bambino possa essere
utile solo attraverso un progetto che
impegni profondamente ospedale, continuità
assistenziale e pediatri del territorio
in una comune condivisione dell’ideale
che la sanità pubblica per la quale lavoriamo
deve e può essere di qualità (anche qui
ritorna l’obiettivo “essere comunità” del
prof. Biasini). Credo invece profondamente
nella pediatria di gruppo, una realtà attualmente
inattuabile dove io opero.
Negli ultimi mesi, alla fine della giornata
lavorativa, mi ritrovo dentro un senso di
smarrimento indicibile: percepisco uno
scollamento sempre più imperante tra
ospedale e territorio, con i medici del
Pronto Soccorso, giustamente stanchi di
occuparsi di ciò che competerebbe al pediatra
di famiglia, ma con noi pediatri di famiglia,
impossibilitati a volte a conciliare
con l’appropriatezza i risparmi e le continue
pretese dell’utenza che ci vengono richieste.
Forse solo riuniti in “comunità”,
con un progetto etico e obiettivi e metodi
comuni, possiamo veramente diventare
una forza e cambiare le cose, perché gli
obiettivi non si realizzano da soli, ma bisogna
dirigerli e fare in modo di realizzarli,
producendoli e rivedendoli giorno dopo
giorno.
Cajani
Pediatra di famiglia, Erba (Como)