*Questa lettera arriva in coda, ma forse
nemmeno tanto, a un dibattito aperto da
un editoriale di Marchetti (2005;24,8:499), cui hanno fatto seguito gli interventi
dei Presidenti della SIP, della ACP e della
FIMP (2006;25,2:82-84), poi del prof.
Biasini (2006;25,2:83)e del dott. Cirillo
(2006;25,5:284) e successivamente il grande
Forum della SIP a Pisa con gli interventi
successivi (2006;25,8:483). La questione
ha una valenza italiana molto particolare,
perché solo in Italia c’è il pediatra di famiglia,
ma è una questione mondiale (vedi
anche le dichiarazioni della AIP, anche
queste pubblicate sulla rivista).
Il dibattito sui cambiamenti che si prospettano
per la nostra pediatria ha ricevuto
un grande impulso dalla strepitosa sincerità
con cui
Massimo Grimaldi esprime
una verità finora inconfessata: a noi pediatri
(ovviamente il giudizio si riferisce a
una valutazione complessiva e non ai casi
singoli) non importa più nulla; che tutto
sia delegato ai leaders che devono impegnarsi
in un piano d’azione che dia le direttive
a noi pediatri “semplici”, api operaie
che legittimamente (legittimamente?)
siamo distratti dal nostro interesse piuttosto
che da quello prioritario dei “bisogni
del bambino”.
In qualche modo, seppure con spirito
diverso, c’è un richiamo ai “leaders entusiasti”
auspicati anche da
Federico Marchetti
con l’editoriale che ha dato avvio al
dibattito.
A mio modo di vedere c’è un grosso
problema di fondo: quali garanzie ci possono
essere sulla “bontà” delle azioni di
questi leaders, a maggior ragione quando
il popolo dei “pediatri semplici” rinuncia a
far sentire la pressione del proprio impegno
etico a favore dei bambini?
Io credo che oggigiorno la situazione
sia nei fatti proprio quella che il collega
Grimaldi auspica: il popolo dei pediatri
sonnacchiosamente segue la corrente dei
comportamenti dettati da un ristretto
gruppo di politici, manager, esperti delle
società scientifiche, leaders locali o nazionali
che però spesso hanno seguito una
logica per cui la disponibilità di un servizio,
di un farmaco, di un vaccino, di una
competenza professionale specifica ha reso
necessaria l’individuazione di un bisogno
e il conseguente consumo di una prestazione;
in altre parole la logica del proprio
interesse anteposto a quello del bambino.
Il risultato si è tradotto in un tasso di
ospedalizzazione altissimo con un coefficiente
di appropriatezza non brillante, un
uso “discutibile” del Pronto Soccorso, una
accuratezza prescrittiva ben fotografata
dallo studio ARNO, una politica vaccinale
“disinvolta” ecc.
In pratica si è gonfiata a dismisura l’offerta
fino all’attuale rischio di collasso perché
il Sistema non è più capace di sostenersi;
una grande inappropriatezza degli
interventi che ha in più anche prodotto un
senso di insicurezza sempre più diffuso
tra i genitori che ri-alimenta il circolo vizioso
della sempre maggiore richiesta di
prestazioni.
Sicuramente entrano in gioco anche
molti altri fattori indipendenti dal nostro
modo di agire. Ma, così come siamo stati
corresponsabili di questo stato di cose,
possiamo ora fare qualcosa per venirne
fuori? Potrei dire: solo tornando alla diffusa
coscienza della necessità di rimettere
al primo posto l’interesse del bambino, interesse
analizzato col metro dell’appropriatezza
degli interventi, a loro volta graduati
secondo i riscontri epidemiologici
dei bisogni della popolazione intera e non
solo di quella parte che chiede a voce più
alta.
Sento già le accuse di idealismo ipocrita.
Provo allora a dirlo in modo “pragmatico”.
Comunque lo vogliamo giudicare, il nostro
lavoro è un servizio destinato a soddisfare
la domanda di salute della popolazione:
solo se forniamo un servizio soddisfacente
e allo stesso tempo sostenibile, possiamo
sperare di “sopravvivere”; se invece
il Sistema giunge al collasso, ci sarà anche
la nostra estinzione. È quindi nostro interesse
prioritario invertire la rotta.
Solo dopo verrà il momento (politicosindacale)
della riorganizzazione tecnica,
anch’essa improcrastinabile e, quella sì,
per forza di cose, affidata ai leaders: più
territorio con maggior filtro prima dell’accesso
in ospedale; maggiore attenzione alla
educazione sanitaria per restituire ai genitori
un perduto senso di responsabilità insieme
però alla contestuale restituzione di
competenze usurpate impropriamente (da
gran parte della puericultura all’uso dei farmaci
sintomatici); più adeguata presenza
nelle comunità dove è possibile intercettare
le fasce deboli di popolazione che non
accedono negli ambulatori; maggiore incisività
degli interventi sociali (Nati per Leggere,
città a misura di bambino ecc.).
Ma è importante che questi leaders impegnati
a dare corpo concreto (strutture
organizzative) a questi indirizzi programmatici
sentano “sul collo” il fiato del popolo
dei pediatri semplici e del loro consenso (o
dissenso) etico; cominciando a manifestarlo
magari dalle cose (apparentemente) più
banali, come un’attenta (e autocritica) lettura
dell’editoriale sulla prescrizione dei
corticosteroidi inalatori, seguito da un
comportamento prescrittivo finalmente
coerente con le premesse fisiopatologiche.
Bene, l’ho detto; anche a me suona un
po’ utopistico, ma si può fare questo per
scelta etica o lo si può fare per puro pragmatismo
prima che il sistema scoppi come
un pallone gonfiato troppo; forse nel
primo caso ne ricaveremmo un pizzico di
soddisfazione in più.
Se invece non lo volessimo fare, temo
che dovremo prepararci a raccogliere i
cocci (parlo dei pediatri “semplici”, i leaders
se la caveranno comunque!).
Bibliografia
1. Marchetti F, Longo G. L’uso razionale dei
corticosteroidi inalatori: il caso Italia (Editoriale).
Medico e Bambino 2006;25(10):619.
Rosario Cavallo
Pediatra di famiglia, Lecce