gioved�, 7 Dicembre 2006, ore 12:00
Vorrei inserirmi nel dibattito, aperto alla
fine dello scorso anno dall’editoriale di
Federico Marchetti (2005;24,8:499), sui
cambiamenti (necessari) della pediatria
nel mondo occidentale, e soprattutto in Italia
dove esiste la pediatria di famiglia, certamente
la più coinvolta nel processo di
cambiamento, anche se ho il timore di fare
una brutta figura…, ma pazienza…
Sono un pediatra “semplice”, di base.
Partirei dalla affermazione che “i bisogni
dei bambini” debbano costituire la
priorità negli interessi del pediatra. Non
condivido. Troppo semplice, apparentemente
scontato, ma non corrisponde al vero
e fa riferimento a un mondo ideale, lontano
dalle questioni terrene.
Un pediatra semplice con qualche anno
in più e qualche ideale in meno rispetto a
quando ha cominciato a lavorare, vuole
guadagnare qualche soldo, possibilmente
per fare le cose che gli piacerebbe fare e
che, forse, non è riuscito ancora a fare; se
è onesto, vorrebbe anche lavorare bene:
per ottenere le gratificazioni che magari
non ha sinora ottenuto, sotto il profilo economico
e del prestigio, ma soprattutto per
sentirsi tranquillo con la sua coscienza.
Ancora, vuole, vorrebbe, che il suo lavoro
scorra snello, con la possibilità di
cliccare in caso di bisogno...
Un pediatra semplice probabilmente
non vuole partecipare, accetta di essere
parte, ma non vuole rotture di scatole.
Quindi, nel suo pensiero esistenziale, prevalgono
o sono comunque presenti le questioni
egoistiche. E corporative.
Molto bello e affascinante quello che
scrive il prof. Biasini (2006;25,2:83) quando
parla del villaggio pediatrico, del villaggio
culturale e assistenziale costruito dai
pediatri, all’interno del quale la cultura e la
prassi dell’assistenza pediatrica dovrebbero
naturalmente svilupparsi; ma, di fatto,
ancora, ritengo utopistica l’ipotesi di questi
professionisti che, all’unisono, abbraccino
una missione e in essa si identifichino.
Ho anche difficoltà a condividere quell’immagine
di pediatria mobilitata, coesa,
riorganizzata, concorde, consapevole, che
ci propone (utopisticamente?) Giuseppe
Cirillo (2006;25,5:284); in altri termini
(ahimè) sono (quasi) convinto che, per
avere i pediatri coesi (e quindi utilizzabili
ai fini di un progetto), bisogna rispondere
prima di tutto ai loro bisogni e magari solo
dopo a quelli dei bambini.
Sposterei l’asse del ragionamento su
due diverse questioni pratiche: la necessità
di una regia (la strategia organizzativa
o la “agenda”, come dice Marchetti), e la
necessità di una formazione mirata (per
cercare di garantire che le cose che servono
siano fatte bene…). Per quanto riguarda
la regia, sono in linea con Marchetti e
penso sia indispensabile un tavolo di coordinamento
che, recepiti i bisogni (i registi
sì! che devono avere il polso costante dei
bisogni) e tenuto conto delle risorse, dopo
un confronto con la base, presente ai vari
livelli (sentinella degli umori propri e della
utenza, forum), interloquisca con chi ha il
potere di prendere decisioni operative e
fornisca la rete nella quale tutte le azioni e
i percorsi vanno a incastrarsi.
Proprio come un alveare con mille api
operaie, ognuna delle quali, pur nella sua
autonomia, ha un compito da eseguire e
un clic da poter pigiare per chiedere, ottenere
e allinearsi sul percorso già tracciato.
Quindi, niente grande scienza e singoli
scienziati, ma percorsi codificati che identifichino
chi fa cosa, e dove, ne standardizzino
la qualità e, sfruttando la informatica,
rendano operativa la rete del servizio.
D’accordo che è difficile e, spesso, non
c’è la reale volontà, ma i leader sì! che devono
avere l’entusiasmo e la capacità di far
comprendere la bontà del progetto. Tutto
questo però è roba dei leader, a noi pediatri
lasciateci tranquilli a visitare (o a chiacchierare)
perché siamo troppo distratti dai
nostri interessi per poter partecipare. E
neanche dei leader di gruppi, perché si
creerebbero gruppi di eccellenza in funzione
di leader di eccellenza, mentre occorrerebbero
leader centrali, dedicati e ben illuminati.
Per quanto riguarda la formazione, non
sono un esperto, ma vorrei far presenti tre
stati d’animo (personali e quindi assolutamente
non generalizzabili):
1. Una gran rottura, la formazione aziendale
e quella del sabato... obbligatoria (o
pseudo tale), non sentita e non condivisa.
2. Eccellente, la newsletter ACP e tutto
ciò che può essere digerito (letto) con calma,
nei ritagli di tempo, per scelta e con la
dovuta attenzione. Inclusi i percorsi formativi
che caratterizzano il NEJM o il BMJ.
Semmai con la periodica verifica “istituzionale”
della propria adeguatezza.
3. Fondamentale la scuola, che ti insegni i
segreti del mestiere ma anche che ti inculchi
la giusta sensibilità (Vi racconto un fatto:
parlando con una laureanda del corso
di scienze infermieristiche, che frequenta
il mio ambulatorio per tirocinio, le ho detto
di non pigiare quella mano sulla pancia
del lattantino ma di accarezzarne prima i
piedi o le gambette, poi di cercarne gli occhi
e sorridergli, così che il piccolo possa
scegliere se fidarsi o meno e se lasciarsi
visitare… lei mi ha guardato meravigliata
e mi ha ringraziato… Grazie, nessuno me
lo aveva detto).
Tutto questo per dire che è bello che
qualcuno scelga (senta il bisogno) di occuparsi
di queste cose, ma deve parimenti
scegliere di portarle avanti con coraggio,
anche in solitudine, senza aspettare che
una platea distratta applauda, anzi dando
per scontato che la platea sia distratta; e
che alcuni di noi, pediatri semplici, ci stiamo
maledettamente demotivando verso i
bisogni della comunità perché siamo troppo
presi dall’esigenza di difendere i nostri
bisogni. Dichiararlo è onesto, tenerne conto
è importante, perché questa disaffezione
potrebbe star già diventando una nuova
priorità.
Massimo Grimaldi
Pediatra di base, Napoli