POSSONO I PEDIATRI ACCETTARE UN CAMBIAMENTO
NELLA LORO PRATICA?

Risposta del prof. Giancarlo Biasini
luned�, 4 Dicembre 2006, ore 12:00
Caro direttore, l'editoriale del numero di ottobre mette il dito nella piaga quando ritiene necessaria una "agenda di lavoro per la comunità dei pediatri".
Già Giorgio Tamburlini, qualche tempo fa, in un editoriale di M&;B, sottolineava questa necessità. In verità quello che manca nel mondo dell'assistenza ai bambini/ragazzi è proprio una "comunità" dei professionisti che si occupano della loro salute e forse più ampiamente dei professionisti che si occupano della vita dei bambini, perché è difficile parlare della loro salute senza parlare con la famiglia, con la scuola, con gli amministratori delle città.
In verità non mi sembra che esistano diversità di opinioni sulle priorità dei problemi della salute. Quelli indicati dal Rapporto 2005 del Centro per la Salute del Bambino (CSB) mi pare siano largamente accettati:
1. le cure perinatali nelle regioni del Sud;
2. gli incidenti nei ragazzi e giovani adulti;
3. la salute mentale specialmente nell'età della preadolescenza;
4. le malattie croniche, il sovrappeso e l'obesità;
5. il sistema informativo;
6. la salute ambientale e il problema delle disuguaglianze che attraversa gran parte dei problemi di cui sopra.
E allora che cosa impedisce ai pediatri di essere comunità? A me pare che sia soprattutto la non abitudine a lavorare insieme. Oggi, prima che pediatri, si è ospedalieri, universitari, territoriali e ci si è affezionati ad esserlo. Si vedano le difficoltà di collaborazione e addirittura di comunicazione che si verificano perfino all'interno di chi lavora nello stesso territorio sugli stessi bambini: spesso pediatri di famiglia e pediatri di comunità (dove esistono) non riescono a trovare comuni obiettivi e comuni metodi di lavoro. Del resto tutti sappiamo che il bambino dimesso e incolpevole ha qualche difficoltà a passare da una cura ospedaliera a una cura territoriale (si veda l'esempio della vitamina K).
C'è stata, a mio parere, una occasione perduta per creare la comunità dei pediatri: il DM 24 aprile 2000 che istituiva il Dipartimento materno-infantile transmurale ospedale-territorio poteva essere l'inizio di un metodo per lavorare insieme in quell'area pediatrica tanto spesso declamata più che cercata. Occasione perduta per disattenzione delle regioni e delle direzioni delle ASL, ma anche forse per il nostro dovere affrontare confronti ritenuti difficili.
Circa la disattenzione delle regioni sembra "riassuntiva" quella della regione Umbria (Linea di indirizzo 2005 alle aziende sanitarie: "Salute nell'età evolutiva") che rimanda alle direzioni delle ASL tutte le responsabilità. "Nel PSR 1999-2001 i problemi di salute vennero affidati alle aziende sanitarie con la previsione di attivare il Dipartimento materno-infantile. L'esperienza di questi anni ha dimostrato numerose difficoltà a procedere in questa direzione: in primo luogo va registrata una sostanziale inerzia delle direzioni aziendali disponibili all'epoca ad attivare prima tale livello organizzativo, e nel supportarne poi il funzionamento attraverso una adeguata supervisione.
Nella maggior parte dei casi furono attivati solo dei Dipartimenti materno-infantili che non si occupavano dell'età evolutiva. In un caso si arrivò addirittura ad abolire il Dipartimento materno-infantile, una scelta gestionale "irricevibile" per la programmazione sanitaria regionale...".
La mancata attuazione di quest'area ha definitivamente separato i pediatri distrettuali dai loro colleghi ospedalieri, lasciando la loro collaborazione al piano scivoloso delle buone volontà. Ora si pensa di collocare i pediatri distrettuali in unità territoriali di pediatri e medici di medicina generale, già ampiamente fallite dove si è provato a sperimentarle, proprio perché non sono riuscite a fare sistema, a diventare "comunità". La nascita di una comunità di pediatri operanti non nel vuoto, ma in un sistema organizzato come il SSN, nascerà difficilmente se non viene collocata in un contenitore professionale comune che abitui a trovare e condividere metodi e obiettivi, che disabitui ciascuno a fare scelte indipendenti dalla condivisione.
I sociologi ci insegnano che le strutture hanno un valore funzionale per gli individui interessati; l'inerzia degli usi e dei costumi, delle abitudini insomma, è la maggiore forza conservatrice della società moderna. L'università e l'ospedale sono sempre stati ambiti "formali" pesanti. Lo sta diventando anche il territorio che si è per reazione sindacalizzato. Il fatto che non si riesca a trovare un unicum neppure su basi generali come le vaccinazioni, la literacy e un linguaggio comune sulla alimentazione infantile è sintomatico. A me pare che, se non si troverà un ambito organizzativo dentro il quale collocarsi e lavorare, cioè se l'area pediatrica da parola non diventerà struttura, rimarranno le barriere che abbiamo finora incontrato. E comunque non sarà cosa di breve momento, a meno che - come dici non emergano "leader entusiasti all'interno dei gruppi". Auguriamocelo, ma la difficoltà di un passaggio generazionale di leadership all'interno dei gruppi può essere un fattore di ulteriore ritardo.

Giancarlo Biasini
Centro per la Salute del Bambino
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