Il Blog del prof. Panizon

Africa, in corsa
mercoledì, 21 Dicembre 2011, ore 15:48
Guardavo alla televisione, quando non so cosa fare sto là, e finisce che trovo sempre un pezzo sull’Africa, nostalgia, nostalgia, nostalgia, guardavo alla televisione e mi sono lascito prendere da un documentarietto sull’arte di arrangiarsi. Dei neri.
Robe incredibili. Il modo, l’abilità “armoniosa” di “ricostruire” automobili con pezzi diversi di altre automobili, modelli “tutti nuovi”; e con quello che avanza dall’automobile, la raccolta di ferramenta da mandare in India; e per tirare su i muri delle case, per fare la calce, andare col carretto sulle distese di sabbia costiera a saccheggiarla in barba alla polizia; e fare rapidissimamente, e poi commerciare ultrarapidamente CD e nastri, vie di mezzo tra la “produzione propria” e la pirateria. Ma specialmente, appunto per commerciare questa e altre cose, l’organizzazione in squadre iper-mobili, con l’utilizzo dei pattini a rotelle, veloci, velocissimi, attaccati alle macchine di passaggio, trainati e via schizzando da una macchina all’altra, da quella che rallenta a quella che la sorpassa, danzando sui pattini, con quella incredibile mistura di agilità, sicurezza e forza nelle gambe, nel corpo, nel cervello. E ridendo, ridendo come ragazzini, e sfidando, allo stesso tempo, credo, la morte. Una vita leggera, misera ma leggera, per niente triste, e creativa; e intanto i muri vengono su, la musica viene registrata e diffusa, la micro-industria e il micro-commercio crescono, le macchine filano sull’asfalto, l’asfalto è liscio, senza buchi, le spiagge si accorciano; e a poco a poco l’Africa diventa un po’ simile all’Europa. Che intanto cambia. Ma l’Africa ha davanti a sé ancora un largo spazio e impensate opportunità; noi non abbiamo più spazio, e le opportunità ce le contendiamo, arrampicandoci sullo specchio di una CRESCITA che non potrà essere infinita.
LA CRESCITA
venerdì, 9 Dicembre 2011, ore 10:35
Ho pensato, pensato, pensato. Non per scrivere qualcosa, questo mio blog, che viva o che muoia non fa male né bene a nessuno; non è per lui che ho questa coazione a pensare. È proprio per capire. E mi è sembrato di capire quello che segue. Che è solo una parte di quello che si dovrebbe capire, ma da qualche parte bisogna ben cominciare. Se qualcuno mi aiuta, mi contraddice, mi corregge, grazie.
La CRESCITA. Una parola d’ordine sulla quale tutti, anche le sinistre più di sinistra sono d’accordo. La CRESCITA come imperativo categorico. Un imperativo materialmente impossibile, perché una crescita percentuale annua obbligatoria porta alla verticalizzazione dello sviluppo, una verticalizzazione materialmente insostenibile. Ma non importa, ci penseranno gli altri, quelli che verranno. Per intanto, la CRESCITA.
La crescita vuol dire: PRODURRE (e guadagnare) più DI QUELLO CHE SERVE. Produrlo per esportarlo. A chi? Non importa, ma in sostanza ad altri Paesi che devono CRESCERE anche loro, e produrre DI PIÙ, anche loro (sì, ci sono anche i Paesi poveri, ma quelli sono poveri, comperano solo armi, e meglio, semmai, mandar loro gli scarti, tanto bisogna fare lo sconto). Comunque, bisogna PRODURRE; ma anche, per buona sicurezza e per sostenere comunque la CRESCITA (messa in crisi dalla concorrenza) è doveroso consumare l’eccedenza: aumentare i consumi per sostenere la produzione.
Ma chi paga? Non importa, si fa il debito. Con chi? Con chi ha i soldi, e che, con gli interessi del debito, farà ancora altri soldi, e LI METTERÀ NEL SUO SALVADANAIO. Così la macchina della produzione tira, noi consumiamo finché possiamo, il salvadanaio si riempie; poi, quando non c’è più spazio sulle strade per le automobili e nel mare per le barche da diporto e negli armadi per i soprabiti, e nella pancia per i liofilizzati, e nel cervello per la pubblicità, dovremo pure fermarci. Ma allora il SALVADANAIO piangerà e chiederà di essere alimentato, di continuare a imbottirsi degli interessi, o almeno, del CAPITALE di ritorno. E ci toccherà continuare a produrre e a consumare più di quello che serve, ingrassando, ingrassando, ingrassando, per non far piangere quell’enorme salvadanaio (che contiene ormai, a seconda delle stime, un monte di soldi, da 6 a 8 volte la somma dei PIL di tutti i Paesi del Mondo) e per non farlo diventare vendicativo. Oppure faremo altri debiti per pagargli finalmente gli interessi, che stia buono.
Lavorare per amore
giovedì, 1 Dicembre 2011, ore 16:58
Ci sono sei soluzioni di base per la vita: lavorare per amore, lavorare con amore, lavorare senza amore; e poi: lavorare per il premio (denaro), lavorare con il premio, lavorare senza il premio.
Queste soluzioni possono venir composte, ma una delle nove composizioni teoriche è impossibile: quella di lavorare senza amore e senza premio (sarebbe la soluzione dello schiavo, a cui, comunque, viene data in premio la vita). Le altre due soluzioni vicine, quella di lavorare senza amore ma con un premio (il professionista frustrato) e quella di lavorare senza amore per il premio (il professionista assetato) sono troppo tristi.
Le composizioni accettabili vanno dunque da lavorare per amore senza premio (il volontario, il missionario) a lavorare con amore con un premio (il normale professionista), fino a lavorare con amore per il premio (il super-professionista, un po’ stronzo, un po’ malato).
La soluzione “normale”, di quasi tutti noi medici è quella di lavorare con amore e con un premio, soluzione che confina con quella di lavorare per amore e per il premio. Sono le situazioni compatibili con una normale felicità, con note “super” nel primo caso. Sono quelle che prima di ogni altra cosa un UOMO deve desiderare per sé. Nel caso specifico del lavoro del medico, questa scelta è obbligatoria; e se un medico si trovasse a non avere dentro di sé amore per il suo mestiere e dunque per l’aiuto che dà agli altri, dovrebbe scegliere a tutti i costi di cambiare.
Ma non è detto che debba cambiare mestiere: potrebbe invece, e con vantaggio, decidere di cambiare se stesso. Di trovare dentro di sé, di ritrovare, quell’amore per il prossimo che è il sugo e la stella polare della nostra vita. Potrebbe, dovrebbe, per guadagnarsi quel poco o quel tanto di felicità che la vita consente, cambiare dunque il modo con cui esercita il suo mestiere: il modo con cui sente e pensa la propria fratellanza col vicino, il modo con cui si dispone ad ascoltare e ad aiutare. A fare il suo dovere sulla terra. Quel “fare il proprio dovere” che, mi sembra, nel mondo, sia diventato un po’ carta straccia, negli ultimi decenni. Fenomeno che non è, mi sembra, l’ultima causa della CRISI.
E questo, tutto questo, a pensarci, vale proprio per tutti. Non per il medico più che per altri.


PS Ho fatto dei pensierini un po’ stupidi, tanto più da uno che non ha più un mestiere. Ma vengono dalla ricerca di qualcosa; e forse possono, anche se sono un po’ stupidi, aiutare lo stesso, qualcuno.