Rivista di formazione e aggiornamento di pediatri e medici operanti sul territorio e in ospedale. Fondata nel 1982, in collaborazione con l'Associazione Culturale Pediatri.

Luglio 2019 - Volume XXII - numero 26

M&B Pagine Elettroniche

Presentazioni PPT



NEUROPSICHIATRIA


Quando l’aggettivo fa la differenza…

Elena Battistuz, Maria Rita Lucia Genovese
IRCCS Materno-Infantile “Burlo Garofolo”, Scuola di Specializzazione in Pediatria, Università di Trieste


Indirizzo per corrispondenza: 
elenabattistuz@gmail.com


Alice è una bella ragazza di 16 anni, dai capelli rossi, che va a scuola, pratica canottaggio, ha degli amici, fa la cheerleader. Ma qualcosa inizia ad andare storto, da 3 mesi la ragazza sente un dolore al ginocchio (“ho un dolore da mezza gamba a mezza coscia”) e non solo, comincia a farle male anche l’acqua della doccia sulla schiena. Così inizia il suo percorso fatto di accessi al Pronto Soccorso, di assenze prolungate da scuola e di abbandono dell’attività sportiva. Qualcosa si rompe, Alice continua a peggiorare compare la cefalea, che non regredisce con l’antinfiammatorio, e comincia a presentare anche una zoppia. La ragazza effettua degli esami ematici di primo livello (emocromo, indici di flogosi…) e di secondo livello per escludere la remota possibilità di una patologia autoimmunitaria, che risultano tutti nella norma. Viene valutata dal reumatologo ed effettua una radiografia articolare che non evidenzia nulla di patologico. Ma la situazione continua a peggiorare e i genitori sono molto preoccupati che Alice abbia un tumore o una malattia autoimmune, così si rende necessario un ricovero e la ragazza entra in reparto. Qui inizia a emergere il profilo psicologico di Alice, quanto male sta Alice, quanto sia preoccupata per tutto questo. A questo punto diventa fondamentale la figura del neuropsichiatra che con la scusa di escludere una patologia demielinizzante inizia ad avvicinarsi ad Alice, dapprima in punta di piedi, poi piano piano sempre più profondamente ricerca cosa c’è che non va e così la ragazza inizia a raccontarsi: “Mi chiamo Alice, ma tu puoi chiamarmi Alex”, “non mi sento bene con il mio corpo”, “non so se voglio essere uomo o neutro, sicuramente non una donna”, “non mi piace l’uso di aggettivi femminili”, “mi sono innamorata di una mia compagna di classe”, “non sto più bene nel mio corpo da cinque anni” e così via.
I sintomi somatici di Alex/Alice sono migliorati dopo questi colloqui, sorrideva. Così siamo riusciti a conoscere e a comprendere Alice, o meglio Alex, una ragazza/o affetta da disforia di genere, di cui fin dall’inizio avevamo colto che presentasse un disturbo da sintomi somatici (ne aveva tutti i criteri, tranne quello temporale di durata dei sintomi > 6 mesi), e di cui avevamo già escluso le bandierine rosse spia di patologia organica.
Quello che ho imparato da questo caso è che a volte conoscere la diagnosi non basta, non è sufficiente a darci la certezza che tutto ritorni a funzionare, ma che capire e cogliere la gravità di questi casi, con una presa in carico e intervento NPI più precoci possibili, rappresentano delle buone basi di partenza, per la ripresa della funzione.


PPT
Scarica la presentazione





Vuoi citare questo contributo?

E. Battistuz, M.R.L. Genovese. Quando l’aggettivo fa la differenza…. Medico e Bambino pagine elettroniche 2019;22(26) https://www.medicoebambino.com/?id=PPT1907_520.html