Rivista di formazione e aggiornamento di pediatri e medici operanti sul territorio e in ospedale. Fondata nel 1982, in collaborazione con l'Associazione Culturale Pediatri.
Gennaio 2009 - Volume XII - numero 1
M&B Pagine Elettroniche
Casi indimenticabili
Un
sorriso timido
Clinica
Pediatrica, IRCCS Burlo Garofolo, Trieste
T. ha
quasi 13 anni. Ma non sta terminando le scuole medie e
fantasticando su cosa fare nella vita come le sue coetanee, non
pensa alle prime storie d’amore, non litiga con sua madre
per poter uscire con le sue amiche fino a tardi. T. ha appena
preso la licenza elementare, ma - agli occhi di tutti - non è
una poco di buono, anzi: è un esempio di caparbietà
e di forza di volontà.
A 2
mesi e mezzo, T. ha ricevuto la diagnosi di sindrome di Aicardi.
“La sindrome di Aicardi è un’anomalia di
sviluppo caratterizzata da agenesia del corpo colloso, anomalie
retiniche, convulsioni e ritardo dello sviluppo mentale”,
siamo andati a rispolverare all’arrivo di T.. Peccato che
le definizioni dei libri non riescano poi a descrivere quello che
si vive.
T.
non parla. Sorride, anche gli occhi, magari mentre si mordicchia
la mano sinistra o fa il suo rumore strano (tipo schiocco) con la
bocca. È un sorriso timido il suo, forse imbarazzato, ma
nei giorni abbiamo imparato a riconoscerlo. Così come
forse lei ha imparato a riconoscere le nostre singole voci. Al
suo fianco una madre premurosa, dolce, malata di sclerosi
multipla, ma che ha lottato per dare a T. tutto quello che
poteva, fino a viaggi oltreoceano, terapie sperimentali. L’ha
fatta studiare, le ha fatto conseguire la licenza elementare. “E
ora dobbiamo cominciare la scuola media. Vero, T.?”. E lei,
timida, sfodera un altro sorriso timido.
Il
motivo per cui la conosciamo non è sua sindrome di
Aicardi, ma una rettocolite ulcerosa (RCU). “La fortuna è
cieca, ma la sfiga ci vede benissimo” è stato il
commento di più di qualcuno, ascoltando la sua storia. Il
susseguirsi di episodi di diarrea muco-emorragica, dolori
addominali e il riscontro di anemia avevano portato al sospetto e
poi alla conferma endoscopica e istologica di RCU, e T. era
tornata per fare un check up a un anno dalla diagnosi, dopo un
iniziale tentativo terapeutico con mesalazina per os, una
ricaduta trattata con steroidi per 3 mesi e un apparente
benessere clinico, “a parte un po’ di sangue nelle
feci negli ultimi giorni”, diceva la madre.
Ma il
benessere era appunto solo apparente, perché già
l’ecografia mostrava un ispessimento della parete del colon
ascendente e la colonscopia confermava un quadro di RCU attiva
(una mucosa estremamente edematosa, numerosissime microerosioni).
“Che sfiga… ci mancava solo una RCU
corticodipendente” è stato il pensiero di tutti. Ma
la sfiga era tripla (o quadrupla? chi la conta più…)
perché T. non poteva utilizzare cortisone. Qualche mese
prima era stata in Francia per correggere chirurgicamente una
scoliosi importante (dovuta alle anomalie vertebrali facenti
parte della sindrome) e una lussazione d’anca destra. Il
cortisone avrebbe inibito ancora di più la formazione del
callo osseo (già alquanto compromessa) e un incremento
ponderale secondario al suo utilizzo avrebbe reso inutilizzabile
il corsetto prescritto a seguito dell’intervento stesso. “E
ora che si fa?”. Fra le varie opzioni, si è pensato
alla possibilità di indurre la remissione della malattia
con un antagonista del TNF-α, l’infliximab. “Ma
le diamo l’infliximab con un pezzo di ferro nella schiena?”
si è chiesto qualcuno. Abbiamo cercato un po’ di
notizie in più in letteratura, ed è vero che le
linee guida controindicano l’uso dell’infliximab in
portatori di protesi ortopediche per il “potenziale rischio
di sepsi”, ma è vero anche che le stesse linee guida
confessano di basarsi su opinioni e non su evidenze, mentre al
contrario esistono segnalazioni di continuazione della terapia
biologica anche dopo un’effettiva sepsi, senza problemi
infettivi sovrapposti. Ne abbiamo parlato con la mamma (mentre T.
continuava a sorridere con gli occhi) spiegandole rischi e
benefici di questo trattamento, e ha acconsentito. Così
viene avviata la prima infusione di infliximab (con a braccetto
l’azatioprina per il mantenimento della remissione) e tutto
sembra andare per il verso giusto.
A
distanza di dieci giorni, però, quello che temiamo (ovvero
una complicanza infettiva) sembra verificarsi: la madre ci
chiama, allarmata da una febbre che va oltre i 39 °C. Le
facciamo iniziare un antibiotico per os e la facciamo tornare
subito da noi. La mattina dopo T. ci attende nel corridoio, sulla
sua sedia a rotelle, e al suo fianco una madre stanca ma sempre
sorridente e gentile. Quando T. ci vede ricomincia a schioccare
la bocca e a sorridere. Negli ultimi giorni non ha mangiato, e la
madre dice che è un po’ giù. La febbre è
ancora alta, gli indici di flogosi alle stelle. Iniziamo la
terapia iniettiva, e cerchiamo un focolaio, ma né gli
esami strumentali, né quelli colturali riescono a
identificare un focolaio. Sarà stata una batteriemia
facilitata dall’infliximab?
Già
dopo un giorno, comunque, T. sta meglio. Si sfebbra, ricomincia a
mangiare, continua a sorridere.
La
sua storia potrebbe essere solo un esercizio speculativo, uno di
quei problemi a più variabili con cui scervellarsi e a cui
ogni bravo clinico cerca di trovare risposte basate
sull’evidenza, ma T. non è stata questo. La sua
storia potrebbe essere solo un modo per meditare su quanto possa
essere crudele il destino, ma quando si varca la soglia della
camera di T. resta solo di venire accolti dal suo sorriso e di
essere riscaldati dall’amore materno, restando senza
parole. Essere medici significa scontrarsi ogni giorno con la
sofferenza dell’uomo, ma forse anche imparare tutto quello
che da questa sofferenza l’uomo riesce a ricavarne.
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