Rivista di formazione e aggiornamento di pediatri e medici operanti sul territorio e in ospedale. Fondata nel 1982, in collaborazione con l'Associazione Culturale Pediatri.

Febbraio 1999 - Volume II - numero 2

M&B Pagine Elettroniche

Avanzi

Novità, riflessioni, contributi e proposte,
a cura di Giorgio Bartolozzi

Cellule fetali nelle eruzioni cutanee di donne in gravidanza: il microchimerismo
Tutti sanno che anticorpi materni, diretti verso alcuni tessuti fetali (globuli rossi per esempio) sono capaci di attraversare la placenta e produrre danni al feto. Si sa anche da tempo che cellule fetali si possono ritrovare nella circolazione materna, durante e dopo la gravidanza (chimerismo). Ancora poco o nulla si sapeva se nelle donne in gravidanza, cellule di origine fetale fossero capaci di determinare manifestazioni patologiche a carico dei tessuti della madre, una volta che fossero passate attraverso la placenta nella circolazione materna.
Una prima recentissima pubblicazione (Lancet 352, 1904-5, 1998) ricorda che alte concentrazioni di DNA fetale si ritrovano nel plasma materno nelle ultime 8 settimane di gestazione: il loro studio, già si pensava, avrebbe offerto nuove opportunità di applicazione clinica. Sebbene la sede del passaggio del DNA fetale rimanga ancora incerta , si pensa che essa possa avvenire attraverso una qualche rottura della barriera placentare, in anticipazione sul parto. Sulla base di questa ipotesi la ricerca del DNA fetale nel sangue materno è stata usata come indicatore di un parto pretermine: le concentrazioni di DNA fetale sono risultate infatti significativamente più elevate nei parti pretermine che nelle gravidanze a termine di controllo (p=0,042). La ricerca del DNA fetale nel sangue della donna in gravidanza si è dimostrata anche utile per differenziare il parto pretermine vero dal falso.
Ma quello che ci interessa maggiormente di sapere è se le cellule fetali, trasmesse alla madre dal feto in gravidanza, possono essere responsabili di alterazioni funzionali o strutturali nella madre.
La risposta è stata ancora una volta positiva (Lancet 352, 1898-901, 1998). Gli ostetrici sanno da tempo che nella donna in gravidanza compaiono vari tipi di eruzione cutanea, soprattutto nel terzo trimestre di gravidanza: si tratta nella maggior parte dei casi di papule disseminate, fortemente pruriginose, di placche, ma anche di vescicole, che scompaiono spontaneamente dopo il parto. Sulla base delle conoscenze acquisite in merito alla presenza di cellule o di sostanze di origine fetale nella circolazione della madre, sono state attentamente studiate 10 donne in gravidanza, con eruzione di tipo polimorfo, che avevano in grembo feti di sesso maschile, per vedere se cellule chimeriche fetali potessero essere in gioco nelle manifestazioni cutanee. A questo scopo sono stati prelevati campioni di epidermide e di derma e da questi è stato estratto il DNA. Con la PCR (Polymerase Chain Reaction) è stato ricercato il gene SRY, caratteristico del cromosoma Y del maschio. Ebbene DNA maschile è stato ritrovato nel derma e nell'epidermide di 6 delle 10 donne, mentre non è stato ritrovato in altre 26 donne gravide senza manifestazioni cutanee, usate come controllo. 
Questa constatazione fa pensare che le cellule fetali possano passare, durante la gravidanza, nella circolazione materna, cosa già risaputa, e che esse possano invadere la cute, permettendo lo sviluppo di alterazioni cutanee, altrimenti non spiegabili. L'incidenza di tali eruzioni è di un caso su 120-240 gravidanze, nella maggior parte delle pazienti a insorgenza oltre la 34° settimana di gestazione. 
Di quali cellule si tratta ? Di trofoblasti, cioè di cellule di origine placentare, ma anche di eritroblasti nucleati, di leucociti e di cellule staminali CD34. Questa cellule permangono per settimane o per mesi (in un caso si ritrovarono anche dopo 27 anni) dopo il parto, in concentrazioni molto basse (19 cellule su 16 mL di sangue materno). E' per questo che al fenomeno viene dato il nome dimicrochimerismo
E' utile ricordare che un'altra patologia, la sclerodermia, era risultata legata al microchimerismo (Lancet 361, 559-62, 1997, N Engl J Med 338, 1186-91, 1998). 
Si apre in tal modo un capitolo nuovo di biologia e di clinica, per ora di dimensioni limitate; tuttavia ostetrici e pediatri debbono seguire questo tipo di ricerche, per essere pronti a cogliere eventi patologici, che si verifichino più di frequente e che siano riconducibili a questo meccanismo di passaggio di cellule dal feto alla madre. 

Lo streptococco gruppo B: un problema per il neonato
Solo dopo il 1960 venne riconosciuta l'importanza del ruolo svolto dallo streptococco b-emolitico gruppo B (S. agalactiae) (SBEGB) in patologia umana, soprattutto in epoca neonatale. I ceppi di SBEGB vengono classificati sierologicamente, secondo il polisaccaride capsulare e gli antigeni proteici. In base a questi studi sono riconosciuti i tipi : Ia, Ib, Ia/c, II, III, IV e V: mentre le forme precoci della malattia possono essere dovute a tutti i tipi, le forme tardive sono dovute solo al tipo III (90% dei casi). 
Epidemiologia 
Attualmente questo microrganismo viene messo al primo posto, quale agente responsabile di gravi infezioni neonatali (sepsi, polmonite e meningite purulenta): in USA questo agente è responsabile di sepsi e meningiti con una frequenza di circa 0,5-3 casi su 1000 nati, soprattutto nei soggetti ricoverati nei reparti di terapia intensiva. Circa un terzo di tutte le meningiti neonatali riconoscono questa origine. In Europa e in particolare in Italia l'incidenza è meno alta (intorno all'1 per mille). In USA la letalità globale, dovuta alla comparsa precoce (meno di 7 giorni di vita) e tardiva (da 7 giorni a 3 mesi di vita), di tale patologia è rispettivamente del 10-15% e del 2-6%. L'età gestazionale risulta correlata con la letalità nei casi a insorgenza precoce: essa è infatti compresa, sempre in USA, tra il 25 e il 30% dei neonati pretermine e tra il 2 e l'8% nei neonati a termine. 
La presenza dello SBEGB nelle donne in stato di gravidanza è compresa nel 20%. La trasmissione verticale ai neonati si verifica nel 40-73% delle donne con culture positive, ma solo nell'1-2% dei casi il neonato manifesta la malattia a inizio precoce. Solo il 6% dei nati da madri con culture negative per lo SBEGB sono colonizzati da altre fonti. Il neonato acquista lo SBEGB per trasmissione verticale, attraverso infezioni ascendenti in seguito a rottura delle membrane o in seguito a contaminazione durante il passaggio attraverso il canale del parto. C'è una diretta proporzione fra la durata della rottura delle membrane e l'incidenza dell'infezione precoce. La forma tardiva della malattia avviene dopo 1 settimana e può avvenire da fonti diverse dalla madre. 
Manifestazioni cliniche 
Nelleforme precoci il quadro va da manifestazioni lievi e aspecifiche al grave shock settico. Il momento della comparsa è nella maggior parte dei neonato entro 6 ore dalla nascita. I sintomi respiratori sono predominanti; la sepsi è presente nel 25-40% del lattanti infettati; la meningite, quasi sempre oligosintomatica, intorno al 10%.

Tabella 1
Aspetti della forma a inizio precoce e della forma tardiva

Parametri considerati
A inizio precoce (<7gg)
A inizio tardivo (= o >7gg)
Età mediana all'inizio
Poche ore
27 giorni
Incidenza prematurità
Aumentata
Non aumentata
Complicazioni ostetriche materne
Frequenti (70%)
Rare
Manifestazioni comuni
Setticemia (25-40%) 
Meningite (5-15%) 
Polmonite (35-55%) 
 
Meningite (30-40%) 
Sepsi senza focus (40-50%) 
Osteoartrite (5-10%)
Sierotipi isolati
Ia, Ib, Ia/c (30%) 
II (30%) 
III (40 % non meningi, 80 % meningi)
III (93%)
Letalità
10-15%
2-6%

Nelle forme tardive la meningite è presente nel 30-40% dei casi. 
Esistono poi, sia nelle forme precoci che in quelle tardive, un numero infinito di altre localizzazioni, che riguardano tutti gli organi e apparati. 
Prevenzione 
Negli ultimi gli sforzi degli ostetrici e dei neonatologi sono stati rivolti alla prevenzioni. Molte vie sono state seguite per ridurre la trasmissione verticale dello SBEGB. 
Lasomministrazione per via endovenosa o intramuscolare di antibiotici all'inizio del parto o al momento della rottura delle membrane si è dimostrata altamente efficace nel ridurre la colonizzazione neonatale da parte dello SBEGB. La profilassi con penicillina G viene attuata in USA, Canada e Australia intrapartum in tutte le donne con gestazioni inferiori alla 37° settimana, con rottura delle membrane da 18 ore o più o con febbre uguale o superiore a 38° C.; la penicillina G viene preferita all'ampicillina per il suo più ristretto spettro, per ridurre la possibilità di resistenza di altri agenti. Con questo tipo di trattamento l'incidenza della malattia a inizio precoce è diminuita di circa il 50%. La prevenzione delle infezioni da SBEGB con penicillina G non ha aumentato in linea di massima l'incidenza dei ceppi resistenti a questo stesso antibiotico. Nonostante questi risultati tutti sono d'accordo che la profilassi migliore sarebbe quella guidata dalla dimostrazione prenatale dello SBEGB mediante cultura in brodo selettivo: a questo proposito giova rilevare che sono in preparazione prove rapide di dimostrazione dello SBAGB. 
Un trattamento preventivo meno invasivo per interrompere la trasmissione perinatale dello SBEGB è rappresentato dall'uso didisinfettanti vaginali, al momento in cui inizi il parto (clorexidina soprattutto). Anche se la disinfezione vaginale è ovviamente meno efficace del trattamento con antibiotici per via generale,  essa non porta a un aumento dei ceppi resistenti.  
Sono in studio vaccini diretti verso tutti i tipi di SBEGB. E' stato ormai accertato che è più facile che un'infezione precoce colpisca un figlio di una madre colonizzata, che presenti bassi livelli di anticorpi specifici, in confronto a un figlio di madre con alti livelli anticorpali. E' stato inizialmente isolato il polisaccaride purificato, che di recente è stato coniugato con i polisaccaridi dei principali sierotipi, all'origine della malattia. La somministrazione del polisaccaride tipo III coniugato a donne in età fertile ha prodotto un aumento degli anticorpi specifici di 4 volte o più. L'aumento nel numero dei sierotipi che causano la malattia rappresenta un ostacolo alla preparazione di vaccini efficaci. 
Trattamento 
Gli SBEGB sono sempre sensibili alla penicillina G, che rappresenta il trattamento di scelta. Prima di avere il risultato delle culture viene usata l'associazione penicillina G e gentamicina; successivamente è possibile continuare con la solapenicillina G (300.000 U/kg/24 ore, in 4-6 dosi) o con la solaampicillina per 7-10 giorni (Vedi Tabella n.2). 
Le riprese o le ricadute sono rare. Non c'è indicazione al trattamento con immuno-globuline standard per la scarsa concentrazione di anticorpi in esse contenuti. 

Tabella 2

Sede dell'infezione
Antibiotico
Dose per EV, giornaliera
Durata del trattamento
Sepsi senza meningite
Ampicillina +  
gentamicina 
Penicillina G 
200-300 mg/kg  
7,5 mg/kg  
300.000 U/kg 
Trattamento iniziale in attesa delle culture  
Completare la cura di 10gg
meningite
Ampicillina +  
gentamicina 
Penicillina G
300-400 mg/kg  
7,5 mg/kg  
500.000 U/kg
Trattamento iniziale in attesa delle culture  
Completare la cura di 14 gg
artrite settica
Penicillina G
200.000 U/kg
2-3 settimane
osteomielite
Penicillina G
200.000 U/kg
3-4 settimane
endocardite
Penicillina G
400.000 U/kg
4 settimane
 
Bibliografia 
American Academy of Pediatrics, Committee on Infectious Diseases and Committee on Fetus and Newborn - Guidelines for prevention of group B streptococcal infection by chemoprophylaxis - Pediatrics 90, 775-8, 1992 
Baker CJ, Edwards MS - Group B streptococcal infections, in JS Remington, JO Klein, Infectious diaseses on the fetus and newborn infant - 4° ed, Philadelphia, WB Saunders, 1995, pag 980-1054 
CDC - Adoption of hospital policies for prevention of perinatal group B streptococcal disease - United States, 1997 - MMWR 47, 665-70, 1998 
Gibbs RS, Hall RT, Yow MD et al - Consensus: perinatal prophylaxis for group B streptococcal infection - Pediatr Infect Dis J 11, 179-83, 1992 
Jeffery HE, Moses-Lahara M - Eight-year outcome of universal screening and intrapartum antibiotics for maternal group B streptococcal carriers -Pediatrics 101, E2, gennaio 1998 
Pylipow M, Gaddis M, Kinney JS - Selective intrapartum prophylaxis for group B streptococcus colonization: management and outcome of newborn -Pediatrics 93, 631-5, 1994 
Schuchat A - Group B streptococcus - Lancet 353, 51-6, 1999 
Siegel JD - Prophylaxis for neonatal greoup B streptococcus infections -Semin Perinatol 22, 33-49, 1998 

Ematuria microscopica: un elemento di scarso rilievo clinico
L'ematuria microscopica (EM) asintomatica ha sempre rappresentato un problema assillante per il pediatra di famiglia. La Nefrologia pediatrica del passato ha spesso avuto diverse valutazioni clinico-prognostiche di questo rilievo: dall'attribuirle una scarsa importanza, quasi una trascuratezza, fino a conferirle un eccessivo valore prognostico. Ricordo un Convegno di Nefrologia a Bologna di diversi anni fa, durante il quale venne proposta in ogni paziente con microematuria una biopsia renale e, quello che è più grave, fu che nella maggior parte di queste biopsie erano presenti, secondo l'oratore, elementi patologici. 
Il tema è stato ripreso successivamente più volte, sempre più con una visione ottimistica della EM, che nella maggior parte dei casi non richiede, come vedremo, l'esecuzione di ulteriori accertamenti. 
Di recente una nuova voce, assolutamente tranquillizzante, si è levata in campo nefrologico pediatrico (Pediatrics 102, pagine elettroniche 42, ottobre 1998). Sulla base delle ricerche eseguite in 325 bambini con EM asintomatica è stato stabilito che essa rappresenta un reperto assolutamente benigno nella grande maggioranza dei casi. La definizione di EM asintomatica è quella classica: una positività alla striscia reattiva di 1 o 2 + per la presenza di emoglobina in 2 o più campioni di orine, raccolte al mattino, con la presenza di più di 5 globuli rossi per ogni campo ad alto ingrandimento in più di due occasioni. La prevalenza di rilievi del genere si riscontra nella popolazione in età evolutiva nell'1-2% dei soggetti. 
In nessuno dei 325 bambini con EM asintomatica, osservati al centro di nefrologia pediatrica, è stata osservata nessuna alterazione maggiore del rene o delle vie urinarie, né è stata riscontrata alcuna anomalia correggibile chirurgicamente alla valutazione radiologica che, per ricerca, è stata eseguita in tutti questi bambini. La causa più frequente di EM è risultata la forma familiare, presente in circa il 25% di tutti i casi; la seconda causa riscontrata è stata l'ipercalciuria, presente nell'11% dei soggetti con EM: il rilievo è risultato più frequente fra i soggetti che abitavano in regioni ad alta concentrazione di urolitiasi o che comunque avessero familiari con urolitiasi. 
In pratica da questo studio risulta che la valutazione iniziale di un paziente con EM rientra fra i problemi che il Pediatra di famiglia è tenuto a risolvere nel proprio ambulatorio, senza ricorrere allo specialista nefrologo: basta che venga richiesta un'ulteriore analisi normale delle orine, prese al mattino e completate con esame microscopico. Se l'analisi delle orine dimostra assenza di proteinuria e di cilindri di globuli rossi o bianchi (per questo le orine vanno esaminate entro un'ora dall'emissione e meglio entro mezz'ora), non vi è alcuna indicazione routinaria per un esame ecografico del rene, né per un'indagine contrastografica delle vie urinarie inferiori (CUM). Nel caso fosse presente una storia familiare per una malattia renale progressiva e/o se venisse riscontrata la presenza di proteinuria e di cilindri all'esame delle orine, l'esame del paziente andrebbe approfondito con l'esecuzione delle prove per determinare la pressione arteriosa, l'acutezza auditiva, la determinazione del complemento C3 e C4 nel siero, insieme all'esecuzione di un'indagine ECO del rene. Sulla base di questi risultati va poi deciso se avviare o meno il bambino al più vicino centro di Nefrologia pediatrica. 

Una rivisitazione della Chlamydia pneumoniae
Nessun altro microrganismo patogeno si è meglio adattato delleChlamidiae alla sopravvivenza negli esseri viventi e nessun altro è così diffuso come loro. Ricerche epidemiologiche hanno messo in evidenza che le Chlamidiae possono infettare quasi tutte le specie di uccelli e di mammiferi: la loro capacità di dare infezioni inapparenti in questi animali è insuperabile. Si ritiene che dal 50 al 60% di tutti gli esseri umani sia o sia stato infettato dalle clamidie: esse sono ubiquitarie, raramente uccidono l'ospite, sono generalmente molto infettive e si trasferiscono facilmente a nuovi ospiti. Posseggono una grande capacità di sfuggire ai normali meccanismi immunologici dell'ospite.  
LeChlamydiae, individuate come specie distinta dalle altre soltanto nel 1986, sono una famiglia di microrganismi, intracellulari obbligati, alle quali appartengono gli agenti causali di malattie importanti per l'uomo. Sebbene le Chlamydiae siano state all'inizio considerate come virus, perché si moltiplicano solo nel citoplasma delle cellule ospiti, in seguito è stato visto che esse sono più strettamente correlate con i batteri. I singoli membri del genere clamidia si distinguono per la virulenza verso ospiti diversi, per le differenti lesioni che producono e per la presenza di antigeni specifici. 
Il genereChlamydia viene suddiviso in specie: 
a) C. trachomatis, che si suddivide ulteriormente in molti sottotipi, una volta chiamati comunemente col nome di TRIC agent, che causano il linfogranuloma venereo, l' uretrite non gonococcica, il tracoma e le malattie dell' occhio e del polmone del neonato e dei bambini della  prima infanzia; 
b) C. psittaci, che causa la psittacosi. 
c) C. pneumoniae (TWAR) responsabile di polmonite, bronchite e faringite; patogena solo per l'uomo. 
Le clamidie posseggono enzimi per la sintesi degli acidi nucleici e proteine strutturali; mancano tuttavia di meccanismi produttori di energia, per cui dipendono dalla cellula ospite per i composti ad alta energia, indispensabili per le loro necessità biosintetiche. Sotto questo riguardo le clamidie sono considerateparassiti dell'energia
La C. pneumoniae, inizialmente chiamata col nome di TWAR è, come patogenicità,  la terza specie come importanza per l'uomo. Questa clamidia è stata ritrovata in tutte le parti del mondo, come responsabile di malattia delle alte e delle basse vie respiratorie, dalla faringite e la sinusite fino alla bronchite e alla polmonite. Il quadro clinico è sovrapponibile a quello di altri agenti che colpiscono le vie aeree e in particolare le malattie da micoplasma. La malattia inizia tipicamente con sintomi a carico delle vie aeree superiori, come mal di gola e raucedine; la tosse aumenta progressivamente e si manifestano di seguito i sintomi e i segni della localizzazione a carico delle vie aeree inferiori, come la comparsa d'infiltrati nel 10% dei soggetti colpiti. La febbre è presente fin dai primi sintomi e si mantiene ancora quando compaiono i segni dell'interessamento polmonare. 
Questo quadro, identificato inizialmente in USA e in Scandinavia, è risultato presente in tutto il mondo. Studi sierologici, eseguiti in Spagna e in Giappone hanno dimostrato che oltre il 40% dei bambini di 10 anni dimostra di aver già superato l'infezione. Tuttavia la diffusione di questo agente varia da Paese a Paese: in Germania laC. pneumoniae è responsabile solo dell'1% delle polmoniti, mentre nelle Filippine essa è in gioco nel 9%. E' risultato che la malattia compare con un andamento epidemico, tuttavia può essere calcolato che il 10% circa degli episodi di polmonite, acquisita in comunità, è associata allaC. pneumoniae. Vi è possibilità di reinfezione. 
L'efficienza della trasmissione della C. pneumoniae è abbastanza bassa; essa avviene per via respiratoria e tramite oggetti. 
Poiché la maggior parte delle infezioni da C. pneumoniae sono asintomatiche ed essa alberga per settimane o mesi dopo che la malattia clinica sia stata superata, anche quando siano stati usati gli antibiotici appropriati, il ritrovare la C. pneumoniae non significa necessariamente che essa sia la causa della malattia clinica. D'altra parte la diagnosi sierologica d'infezione acuta, mediante la determinazione del tasso anticorpale, è spesso di difficile interpretazione: per esempio gli anticorpi fissabnti il complemento cross-reagiscono con la C. psittaci. Solo la prova della microimmunofluorescenza (MIF) è specifica per la C. pneumoniae. Per avere una diagnosi di certezza è necessario raggiungere un titolo di MIF IgG uguale o superiore a 1:512 e un titolo IgM uguale o superiore a 1:16, o in alternativa un aumento del totolo  di 4 volte o più. 
Sono stati eseguiti numerosi studi per associare l'infezione da C. pneumoniae con altre patologie, come l'asma, anche del bambino, la miocardite, l'endocardite e l'otite media; del tutto di recente sono state pubblicate numerose ricerche sull'associazione della C. pneumoniae con le lesioni vascolari. Sono state documentate in varie occasioni forti associazioni fra infezioni da C. pneumoniae e infarto del miocardio, strock e arteriosclerosi nell'adulto. 
Il trattamento che ha dato i migliori risultati è stato quello con macrolidi in soggetti al di sotto degli 8 anni e con tetracicline al di sopra questa età. 
Bibliografia 
Boman J, Soderberg S, Forsberg J et al - High prevalence of C. pneumoniae DNA in peripheral blood mononuclear cells in patients with cardiovascular disease and in middle-aged blood donord - J Infect Dis 178, 274-7, 1998 
Cunnigham AF, Johnston SL, Julious SA et al - Chronic C. pneumoniae infection and asthma exacerbations in children -Eur Respir J 11, 345-9, 1998 
Koll A, Sukhova GK, Lichtman AH, Libby P - Chlamydial heat shock protein 60 localized in human atheroma and regulates macrophage tumor necrosis facto-alpha and matrix metalloproteinase expression -Circulation 98, 300-7, 1998 
Maass M, Bartels C, Engel PM et al - Endovascular presence of viable C. pneumoniae is a common phenomenon in coronary artery disease -J Am Coll Cardiol 31, 827-32, 1998 
McMillian JA - Chlamydia pneumoniae revisited - 17, 1046-7, 1998 
Pai J, Knoop FC, Hunter WJ, Agrawal DK - C. pneumoniae and occlusive vascular disease: identification and characterization - J Pharlacol Toxicol Methods 39, 51-61, 1998 
Toss H, Gnarpe J, Gnarpe H et al - Increased fibrinogen levels are associated with persistent C. pneumoniae infection in unstable coronary artery disease - Eur Hearth J 19, 570-7, 1998 

Lo streptococco b-emolitico gruppo A può persistere all'interno delle cellule del faringe?
Ormai sappiamo che lo streptococco b-emolitico gruppo A (SBEGA) persiste in faringe dopo trattamento con penicillina nel 5-30% dei bambini, che abbiano superato un'infezione faringo-tossillare streptococcica. Non è stata trovata una risposta a questo fenomeno, perché gli SBEGA rimangono sensibili alla penicillina. Una recente ipotesi prevede che il batterio penetri all'interno delle cellule delle vie aeree superiori (internalizzazione), dove non può essere raggiunto dalla penicillina e derivati, che hanno scarso potere di penetrazione all'interno delle cellule. Un gruppo di ricercatori israeliani (Lancet 352, 1974-7 e 1954-6, 1998) pensa che alcuni ceppi di SBEGA siano dotati della capacità di penetrare nelle cellule e quindi di resistere (ma non nel senso classico di resistenza) al trattamento con penicillina. Lo streptococco possiede infatti due geni (prtF1 e sfbI) che codificano proteine che si legano alla fibronectina, esse potrebbero rivelarsi essenziali per l'internalizzazione dello SBEGA nelle cellule epiteliali del faringe. Per esaminare questa possibilità è stata confrontata la distribuzione del gene prtF1 nello SBEGA isolato da due diversi gruppi di bambini: quelli nei quali il trattamento penicillinico aveva eradicato lo SBEGA (54 casi) e quelli nei quali il germe era ancora presente in faringe (13 casi) dopo il trattamento. 12 dei 13 pazienti portatori dello SBEGA, senza sintomi (92%) e solo 16 degli altri 54 (30%) avevano germi provvisti del gene prtF1. Gli autori concludono che probabilmente questo gene è importante per la penetrazione nelle cellule ed è quindi interessato alla determinazione dello stato di portatore. Il commento è molto più prudente, anche perché riporta recenti ricerche (Eur J Clin Microbiol Infect Dis 15, 712-7, 1996), nelle quali il trattamento con penicillina ha determinato lo stesso tasso di eradicazione della eritromicina, che, come gli altri macrolidi, penetra all'interno delle cellule, dove è in grado di svolgere la sua attività antibatterica. Il commentatore sollecita ricerche che valutino l'effetto sull'eradicazione dello SBEGA di altri antibiotici che penetrino all'interno delle cellule. Nonostante quanto sopra riportato, prima che siano disponibili nuovi elementi probanti, è bene che, nella nostra pratica corrente, continuiamo a trattare le faringo-tonsilliti da SBEGA con Penicillina V o con amoxicillina.  

Ancora sull'Helicobacter pylori
Vi è ormai un accordo sulla necessità di eradicare l'Helicobacter pylori (HP) nei pazienti, adulti o bambini, che presentino una patologia di tipo ulcerativo dello stomaco. Ancora non c'è un consenso unanime sulla reale utilità di eliminare l'HP nei soggetti che soffrano di dispepsia di tipo non ulcerativo, anche se ancor oggi non c'è accordo nel ritenere l'HP all'origine della dispepsia. Per dispepsia s'intende una varietà di sintomi a carico della parte superiore dell'addome, che vanno dal dolore, al senso di ripienezza, alla nausea, all'anoressia, fino al senso di bruciore di stomaco, al rigurgito e al vomito. Per rispondere a questo interrogativo, che ha un'importanza pratica rilevante, dato che il 20-40% della popolazione dei Paesi occidentali soffre di dispepsia, sono stati condotte 2 accurate ricerche che sono comparse una dietro l'altra sullo stesso fascicolo del New England Journal of Medicine (339, 1869-74 e 1875-81, 1998). Il primo studio randomizzato, eseguito nel Regno Unito, ha riguardato 318 pazienti, trattati contro placebo con omeprazolo, amoxicillina e metronidazolo: viene concluso che con omeprazolo e antibiotici è più facile che si risolvano i sintomi della dispepsia piuttosto che con il solo omeprazolo. Quindi parere positivo, anche se sono solo il 21% dei pazienti ha beneficiato del trattamento, contro il 7% del gruppo controllo (p<0,001). Il secondo è uno studio multicentrico internazionale (USA esclusi) che ha trattato in doppio circo 328 pazienti con dispepsia, HP positivi, con omeprazolo, amoxicillina e claritromicina contro solo omeprazolo: nel gruppo che ricevette omeprazolo e antibiotici, il trattamento fu accompagnato da successo nel 27,4% dei casi, mentre nel gruppo trattato con solo omeprazolo il successo ottenuto fu del 20,7%, nonostante che l'eradicazione dall'HP sia stata rispettivamente del 79% e del 2%. Viene concluso che l'eradicazione dall'HP non facilmente si associa alla scomparsa dei sintomi della dispepsia. 
 E' evidente che i due studi giungono a conclusioni opposte, in merito all'efficacia dell'eradicazione dell'HP per corregere i sintomi e i segni della dispepsia non ulcerosa. I due studi, dice il commentatore USA (NEJM 339, 1928-30, 1998), pur essendo molto simili e condotti in modo scrupoloso, differiscono sotto molti riguardi, primo fra tutti l'indeterminatezza delle manifestazioni dei soggetti che vengono presi in esame. Una prima conclusione dalla lettura delle due pubblicazioni è quella che l'HP non ha un ruolo fisiopatologico nella maggior parte dei casi di dispepsia non ulcerativa. Nei soggetti in età evolutiva e nel giovane adulto il trattamento della dispepsia va personalizzato e può andare da farmaci antisecretivi (H2 antagonisti) a farmaci che promuovono la motilità (cisapride, domperidone) fino all'identificazione di fattori scatenanti ambientali, alimentari (succhi di frutta del commercio, caramelle) ed emotivi.   

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G. Bartolozzi. Ancora sull'Helicobacter pylori'>Cellule fetali nelle eruzioni cutanee di donne in gravidanza: il microchimerismo
Ematuria microscopica: un elemento di scarso rilievo clinico
Una rivisitazione della Chlamydia pneumoniae
Lo streptococco b-emolitico gruppo A può persistere all'interno delle cellule del faringe?
Ancora sull'Helicobacter pylori. Medico e Bambino pagine elettroniche 1999;2(2) https://www.medicoebambino.com/?id=AV9902_10.html