Rivista di formazione e aggiornamento di pediatri e medici operanti sul territorio e in ospedale. Fondata nel 1982, in collaborazione con l'Associazione Culturale Pediatri.
Febbraio 1999 - Volume II - numero 2
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Febbraio 1999 - Volume II - numero 2
M&B Pagine Elettroniche
Avanzi
Novità,
riflessioni, contributi e proposte,
Tutti
sanno che anticorpi materni, diretti verso alcuni tessuti fetali
(globuli rossi per esempio) sono capaci di attraversare la placenta e
produrre danni al feto. Si sa anche da tempo che cellule fetali si
possono ritrovare nella circolazione materna, durante e dopo la
gravidanza (chimerismo). Ancora poco o nulla si sapeva se
nelle donne in gravidanza, cellule di origine fetale fossero capaci
di determinare manifestazioni patologiche a carico dei tessuti della
madre, una volta che fossero passate attraverso la placenta nella
circolazione materna.
Una prima
recentissima pubblicazione (Lancet 352, 1904-5, 1998) ricorda
che alte concentrazioni di DNA fetale si ritrovano nel plasma materno
nelle ultime 8 settimane di gestazione: il loro studio, già si
pensava, avrebbe offerto nuove opportunità di applicazione
clinica. Sebbene la sede del passaggio del DNA fetale rimanga ancora
incerta , si pensa che essa possa avvenire attraverso una qualche
rottura della barriera placentare, in anticipazione sul parto. Sulla
base di questa ipotesi la ricerca del DNA fetale nel sangue materno è
stata usata come indicatore di un parto pretermine: le concentrazioni
di DNA fetale sono risultate infatti significativamente più
elevate nei parti pretermine che nelle gravidanze a termine di
controllo (p=0,042). La ricerca del DNA fetale nel sangue della donna
in gravidanza si è dimostrata anche utile per differenziare il
parto pretermine vero dal falso.
Ma quello
che ci interessa maggiormente di sapere è se le cellule
fetali, trasmesse alla madre dal feto in gravidanza, possono essere
responsabili di alterazioni funzionali o strutturali nella madre.
La
risposta è stata ancora una volta positiva (Lancet 352,
1898-901, 1998). Gli ostetrici sanno da tempo che nella donna in
gravidanza compaiono vari tipi di eruzione cutanea, soprattutto nel
terzo trimestre di gravidanza: si tratta nella maggior parte dei casi
di papule disseminate, fortemente pruriginose, di placche, ma anche
di vescicole, che scompaiono spontaneamente dopo il parto. Sulla base
delle conoscenze acquisite in merito alla presenza di cellule o di
sostanze di origine fetale nella circolazione della madre, sono state
attentamente studiate 10 donne in gravidanza, con eruzione di tipo
polimorfo, che avevano in grembo feti di sesso maschile, per vedere
se cellule chimeriche fetali potessero essere in gioco nelle
manifestazioni cutanee. A questo scopo sono stati prelevati campioni
di epidermide e di derma e da questi è stato estratto il DNA.
Con la PCR (Polymerase Chain Reaction) è stato
ricercato il gene SRY, caratteristico del cromosoma Y del maschio.
Ebbene DNA maschile è stato ritrovato nel derma e
nell'epidermide di 6 delle 10 donne, mentre non è stato
ritrovato in altre 26 donne gravide senza manifestazioni cutanee,
usate come controllo.
Questa
constatazione fa pensare che le cellule fetali possano passare,
durante la gravidanza, nella circolazione materna, cosa già
risaputa, e che esse possano invadere la cute, permettendo lo
sviluppo di alterazioni cutanee, altrimenti non spiegabili.
L'incidenza di tali eruzioni è di un caso su 120-240
gravidanze, nella maggior parte delle pazienti a insorgenza oltre la
34° settimana di gestazione.
Di quali
cellule si tratta ? Di trofoblasti, cioè di cellule di origine
placentare, ma anche di eritroblasti nucleati, di leucociti e di
cellule staminali CD34. Questa cellule permangono per settimane o per
mesi (in un caso si ritrovarono anche dopo 27 anni) dopo il parto, in
concentrazioni molto basse (19 cellule su 16 mL di sangue materno).
E' per questo che al fenomeno viene dato il nome dimicrochimerismo.
E' utile
ricordare che un'altra patologia, la sclerodermia, era risultata
legata al microchimerismo (Lancet 361, 559-62, 1997, N Engl
J Med 338, 1186-91, 1998).
Si apre
in tal modo un capitolo nuovo di biologia e di clinica, per ora di
dimensioni limitate; tuttavia ostetrici e pediatri debbono seguire
questo tipo di ricerche, per essere pronti a cogliere eventi
patologici, che si verifichino più di frequente e che siano
riconducibili a questo meccanismo di passaggio di cellule dal feto
alla madre.
Solo dopo
il 1960 venne riconosciuta l'importanza del ruolo svolto dallo
streptococco b-emolitico gruppo B (S. agalactiae) (SBEGB) in
patologia umana, soprattutto in epoca neonatale. I ceppi di SBEGB
vengono classificati sierologicamente, secondo il polisaccaride
capsulare e gli antigeni proteici. In base a questi studi sono
riconosciuti i tipi : Ia, Ib, Ia/c, II, III, IV e V: mentre le forme
precoci della malattia possono essere dovute a tutti i tipi, le forme
tardive sono dovute solo al tipo III (90% dei casi).
Epidemiologia
Attualmente
questo microrganismo viene messo al primo posto, quale agente
responsabile di gravi infezioni neonatali (sepsi, polmonite e
meningite purulenta): in USA questo agente è responsabile di
sepsi e meningiti con una frequenza di circa 0,5-3 casi su 1000 nati,
soprattutto nei soggetti ricoverati nei reparti di terapia intensiva.
Circa un terzo di tutte le meningiti neonatali riconoscono questa
origine. In Europa e in particolare in Italia l'incidenza è
meno alta (intorno all'1 per mille). In USA la letalità
globale, dovuta alla comparsa precoce (meno di 7 giorni di vita) e
tardiva (da 7 giorni a 3 mesi di vita), di tale patologia è
rispettivamente del 10-15% e del 2-6%. L'età gestazionale
risulta correlata con la letalità nei casi a insorgenza
precoce: essa è infatti compresa, sempre in USA, tra il 25 e
il 30% dei neonati pretermine e tra il 2 e l'8% nei neonati a
termine.
La
presenza dello SBEGB nelle donne in stato di gravidanza è
compresa nel 20%. La trasmissione verticale ai neonati si verifica
nel 40-73% delle donne con culture positive, ma solo nell'1-2% dei
casi il neonato manifesta la malattia a inizio precoce. Solo il 6%
dei nati da madri con culture negative per lo SBEGB sono colonizzati
da altre fonti. Il neonato acquista lo SBEGB per trasmissione
verticale, attraverso infezioni ascendenti in seguito a rottura delle
membrane o in seguito a contaminazione durante il passaggio
attraverso il canale del parto. C'è una diretta proporzione
fra la durata della rottura delle membrane e l'incidenza
dell'infezione precoce. La forma tardiva della malattia
avviene dopo 1 settimana e può avvenire da fonti diverse dalla
madre.
Manifestazioni
cliniche
Nelleforme precoci il quadro va da manifestazioni lievi e
aspecifiche al grave shock settico. Il momento della comparsa è
nella maggior parte dei neonato entro 6 ore dalla nascita. I sintomi
respiratori sono predominanti; la sepsi è presente nel 25-40%
del lattanti infettati; la meningite, quasi sempre oligosintomatica,
intorno al 10%.
Tabella
1
Aspetti
della forma a inizio precoce e della forma tardiva
| ||
Parametri
considerati | A
inizio precoce (<7gg) | A
inizio tardivo (= o >7gg) |
Età
mediana all'inizio | Poche
ore | 27
giorni |
Incidenza
prematurità | Aumentata | Non
aumentata |
Complicazioni
ostetriche materne | Frequenti
(70%) | Rare |
Manifestazioni
comuni | Setticemia
(25-40%)
Meningite
(5-15%)
Polmonite
(35-55%)
| Meningite
(30-40%)
Sepsi
senza focus (40-50%)
Osteoartrite
(5-10%) |
Sierotipi
isolati | Ia,
Ib, Ia/c (30%)
II
(30%)
III
(40 % non meningi, 80 % meningi) | III
(93%) |
Letalità | 10-15% | 2-6% |
Nelle
forme tardive la meningite è presente nel 30-40% dei casi.
Esistono
poi, sia nelle forme precoci che in quelle tardive, un numero
infinito di altre localizzazioni, che riguardano tutti gli organi e
apparati.
Prevenzione
Negli
ultimi gli sforzi degli ostetrici e dei neonatologi sono stati
rivolti alla prevenzioni. Molte vie sono state seguite per ridurre la
trasmissione verticale dello SBEGB.
Lasomministrazione per via endovenosa o intramuscolare di
antibiotici all'inizio del parto o al momento della rottura delle
membrane si è dimostrata altamente efficace nel ridurre la
colonizzazione neonatale da parte dello SBEGB. La profilassi con
penicillina G viene attuata in USA, Canada e Australia intrapartum in
tutte le donne con gestazioni inferiori alla 37° settimana, con
rottura delle membrane da 18 ore o più o con febbre uguale o
superiore a 38° C.; la penicillina G viene preferita
all'ampicillina per il suo più ristretto spettro, per ridurre
la possibilità di resistenza di altri agenti. Con questo tipo
di trattamento l'incidenza della malattia a inizio precoce è
diminuita di circa il 50%. La prevenzione delle infezioni da SBEGB
con penicillina G non ha aumentato in linea di massima l'incidenza
dei ceppi resistenti a questo stesso antibiotico. Nonostante questi
risultati tutti sono d'accordo che la profilassi migliore sarebbe
quella guidata dalla dimostrazione prenatale dello SBEGB mediante
cultura in brodo selettivo: a questo proposito giova rilevare che
sono in preparazione prove rapide di dimostrazione dello SBAGB.
Un
trattamento preventivo meno invasivo per interrompere la trasmissione
perinatale dello SBEGB è rappresentato dall'uso didisinfettanti vaginali, al momento in cui inizi il parto
(clorexidina soprattutto). Anche se la disinfezione vaginale è
ovviamente meno efficace del trattamento con antibiotici per via
generale, essa non porta a un aumento dei ceppi resistenti.
Sono in
studio vaccini diretti verso tutti i tipi di SBEGB. E' stato
ormai accertato che è più facile che un'infezione
precoce colpisca un figlio di una madre colonizzata, che presenti
bassi livelli di anticorpi specifici, in confronto a un figlio di
madre con alti livelli anticorpali. E' stato inizialmente isolato il
polisaccaride purificato, che di recente è stato coniugato con
i polisaccaridi dei principali sierotipi, all'origine della malattia.
La somministrazione del polisaccaride tipo III coniugato a donne in
età fertile ha prodotto un aumento degli anticorpi specifici
di 4 volte o più. L'aumento nel numero dei sierotipi che
causano la malattia rappresenta un ostacolo alla preparazione di
vaccini efficaci.
Trattamento
Gli SBEGB
sono sempre sensibili alla penicillina G, che rappresenta il
trattamento di scelta. Prima di avere il risultato delle culture
viene usata l'associazione penicillina G e gentamicina;
successivamente è possibile continuare con la solapenicillina G (300.000 U/kg/24 ore, in 4-6 dosi) o con la solaampicillina per 7-10 giorni (Vedi Tabella n.2).
Le
riprese o le ricadute sono rare. Non c'è indicazione al
trattamento con immuno-globuline standard per la scarsa
concentrazione di anticorpi in esse contenuti.
Tabella
2
| |||
Sede
dell'infezione | Antibiotico | Dose
per EV, giornaliera | Durata
del trattamento |
Sepsi
senza meningite | Ampicillina
+
gentamicina
Penicillina
G | 200-300
mg/kg
7,5
mg/kg
300.000
U/kg | Trattamento
iniziale in attesa delle culture
Completare
la cura di 10gg |
meningite | Ampicillina
+
gentamicina
Penicillina
G | 300-400
mg/kg
7,5
mg/kg
500.000
U/kg | Trattamento
iniziale in attesa delle culture
Completare
la cura di 14 gg |
artrite
settica | Penicillina
G | 200.000
U/kg | 2-3
settimane |
osteomielite | Penicillina
G | 200.000
U/kg | 3-4
settimane |
endocardite | Penicillina
G | 400.000
U/kg | 4
settimane |
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L'ematuria
microscopica (EM) asintomatica ha sempre rappresentato un problema
assillante per il pediatra di famiglia. La Nefrologia pediatrica del
passato ha spesso avuto diverse valutazioni clinico-prognostiche di
questo rilievo: dall'attribuirle una scarsa importanza, quasi una
trascuratezza, fino a conferirle un eccessivo valore prognostico.
Ricordo un Convegno di Nefrologia a Bologna di diversi anni fa,
durante il quale venne proposta in ogni paziente con microematuria
una biopsia renale e, quello che è più grave, fu che
nella maggior parte di queste biopsie erano presenti, secondo
l'oratore, elementi patologici.
Il tema è
stato ripreso successivamente più volte, sempre più con
una visione ottimistica della EM, che nella maggior parte dei casi
non richiede, come vedremo, l'esecuzione di ulteriori accertamenti.
Di
recente una nuova voce, assolutamente tranquillizzante, si è
levata in campo nefrologico pediatrico (Pediatrics 102, pagine
elettroniche 42, ottobre 1998). Sulla base delle ricerche eseguite in
325 bambini con EM asintomatica è stato stabilito che essa
rappresenta un reperto assolutamente benigno nella grande maggioranza
dei casi. La definizione di EM asintomatica è quella classica:
una positività alla striscia reattiva di 1 o 2 + per la
presenza di emoglobina in 2 o più campioni di orine, raccolte
al mattino, con la presenza di più di 5 globuli rossi per ogni
campo ad alto ingrandimento in più di due occasioni. La
prevalenza di rilievi del genere si riscontra nella popolazione in
età evolutiva nell'1-2% dei soggetti.
In
nessuno dei 325 bambini con EM asintomatica, osservati al centro di
nefrologia pediatrica, è stata osservata nessuna alterazione
maggiore del rene o delle vie urinarie, né è stata
riscontrata alcuna anomalia correggibile chirurgicamente alla
valutazione radiologica che, per ricerca, è stata eseguita in
tutti questi bambini. La causa più frequente di EM è
risultata la forma familiare, presente in circa il 25% di tutti i
casi; la seconda causa riscontrata è stata l'ipercalciuria,
presente nell'11% dei soggetti con EM: il rilievo è risultato
più frequente fra i soggetti che abitavano in regioni ad alta
concentrazione di urolitiasi o che comunque avessero familiari con
urolitiasi.
In
pratica da questo studio risulta che la valutazione iniziale di un
paziente con EM rientra fra i problemi che il Pediatra di famiglia è
tenuto a risolvere nel proprio ambulatorio, senza ricorrere allo
specialista nefrologo: basta che venga richiesta un'ulteriore analisi
normale delle orine, prese al mattino e completate con esame
microscopico. Se l'analisi delle orine dimostra assenza di
proteinuria e di cilindri di globuli rossi o bianchi (per questo le
orine vanno esaminate entro un'ora dall'emissione e meglio entro
mezz'ora), non vi è alcuna indicazione routinaria per un esame
ecografico del rene, né per un'indagine contrastografica delle
vie urinarie inferiori (CUM). Nel caso fosse presente una storia
familiare per una malattia renale progressiva e/o se venisse
riscontrata la presenza di proteinuria e di cilindri all'esame delle
orine, l'esame del paziente andrebbe approfondito con l'esecuzione
delle prove per determinare la pressione arteriosa, l'acutezza
auditiva, la determinazione del complemento C3 e C4 nel siero,
insieme all'esecuzione di un'indagine ECO del rene. Sulla base di
questi risultati va poi deciso se avviare o meno il bambino al più
vicino centro di Nefrologia pediatrica.
Nessun
altro microrganismo patogeno si è meglio adattato delleChlamidiae alla sopravvivenza negli esseri viventi e nessun
altro è così diffuso come loro. Ricerche
epidemiologiche hanno messo in evidenza che le Chlamidiae
possono infettare quasi tutte le specie di uccelli e di mammiferi: la
loro capacità di dare infezioni inapparenti in questi animali
è insuperabile. Si ritiene che dal 50 al 60% di tutti gli
esseri umani sia o sia stato infettato dalle clamidie: esse sono
ubiquitarie, raramente uccidono l'ospite, sono generalmente molto
infettive e si trasferiscono facilmente a nuovi ospiti. Posseggono
una grande capacità di sfuggire ai normali meccanismi
immunologici dell'ospite.
LeChlamydiae, individuate come specie distinta dalle altre
soltanto nel 1986, sono una famiglia di microrganismi, intracellulari
obbligati, alle quali appartengono gli agenti causali di malattie
importanti per l'uomo. Sebbene le Chlamydiae siano state
all'inizio considerate come virus, perché si moltiplicano solo
nel citoplasma delle cellule ospiti, in seguito è stato visto
che esse sono più strettamente correlate con i batteri. I
singoli membri del genere clamidia si distinguono per la virulenza
verso ospiti diversi, per le differenti lesioni che producono e per
la presenza di antigeni specifici.
Il genereChlamydia viene suddiviso in specie:
a) C.
trachomatis, che si suddivide ulteriormente in molti sottotipi,
una volta chiamati comunemente col nome di TRIC agent, che causano il
linfogranuloma venereo, l' uretrite non gonococcica, il tracoma e le
malattie dell' occhio e del polmone del neonato e dei bambini della
prima infanzia;
b) C.
psittaci, che causa la psittacosi.
c) C.
pneumoniae (TWAR) responsabile di polmonite, bronchite e
faringite; patogena solo per l'uomo.
Le
clamidie posseggono enzimi per la sintesi degli acidi nucleici e
proteine strutturali; mancano tuttavia di meccanismi produttori di
energia, per cui dipendono dalla cellula ospite per i composti ad
alta energia, indispensabili per le loro necessità
biosintetiche. Sotto questo riguardo le clamidie sono considerateparassiti dell'energia.
La C.
pneumoniae, inizialmente chiamata col nome di TWAR è, come
patogenicità, la terza specie come importanza per
l'uomo. Questa clamidia è stata ritrovata in tutte le parti
del mondo, come responsabile di malattia delle alte e delle basse vie
respiratorie, dalla faringite e la sinusite fino alla bronchite e
alla polmonite. Il quadro clinico è sovrapponibile a quello di
altri agenti che colpiscono le vie aeree e in particolare le malattie
da micoplasma. La malattia inizia tipicamente con sintomi a carico
delle vie aeree superiori, come mal di gola e raucedine; la tosse
aumenta progressivamente e si manifestano di seguito i sintomi e i
segni della localizzazione a carico delle vie aeree inferiori, come
la comparsa d'infiltrati nel 10% dei soggetti colpiti. La febbre è
presente fin dai primi sintomi e si mantiene ancora quando compaiono
i segni dell'interessamento polmonare.
Questo
quadro, identificato inizialmente in USA e in Scandinavia, è
risultato presente in tutto il mondo. Studi sierologici, eseguiti in
Spagna e in Giappone hanno dimostrato che oltre il 40% dei bambini di
10 anni dimostra di aver già superato l'infezione. Tuttavia la
diffusione di questo agente varia da Paese a Paese: in Germania laC. pneumoniae è responsabile solo dell'1% delle
polmoniti, mentre nelle Filippine essa è in gioco nel 9%. E'
risultato che la malattia compare con un andamento epidemico,
tuttavia può essere calcolato che il 10% circa degli episodi
di polmonite, acquisita in comunità, è associata allaC. pneumoniae. Vi è possibilità di reinfezione.
L'efficienza
della trasmissione della C. pneumoniae è abbastanza
bassa; essa avviene per via respiratoria e tramite oggetti.
Poiché
la maggior parte delle infezioni da C. pneumoniae sono
asintomatiche ed essa alberga per settimane o mesi dopo che la
malattia clinica sia stata superata, anche quando siano stati usati
gli antibiotici appropriati, il ritrovare la C. pneumoniae non
significa necessariamente che essa sia la causa della malattia
clinica. D'altra parte la diagnosi sierologica d'infezione acuta,
mediante la determinazione del tasso anticorpale, è spesso di
difficile interpretazione: per esempio gli anticorpi fissabnti il
complemento cross-reagiscono con la C. psittaci. Solo la prova
della microimmunofluorescenza (MIF) è specifica per la C.
pneumoniae. Per avere una diagnosi di certezza è
necessario raggiungere un titolo di MIF IgG uguale o superiore a
1:512 e un titolo IgM uguale o superiore a 1:16, o in alternativa un
aumento del totolo di 4 volte o più.
Sono
stati eseguiti numerosi studi per associare l'infezione da C.
pneumoniae con altre patologie, come l'asma, anche del bambino, la
miocardite, l'endocardite e l'otite media; del tutto di recente sono
state pubblicate numerose ricerche sull'associazione della C.
pneumoniae con le lesioni vascolari. Sono state documentate in varie
occasioni forti associazioni fra infezioni da C. pneumoniae e
infarto del miocardio, strock e arteriosclerosi nell'adulto.
Il
trattamento che ha dato i migliori risultati è stato quello
con macrolidi in soggetti al di sotto degli 8 anni e con tetracicline
al di sopra questa età.
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Ormai
sappiamo che lo streptococco b-emolitico gruppo A (SBEGA) persiste in
faringe dopo trattamento con penicillina nel 5-30% dei bambini, che
abbiano superato un'infezione faringo-tossillare streptococcica. Non
è stata trovata una risposta a questo fenomeno, perché
gli SBEGA rimangono sensibili alla penicillina. Una recente ipotesi
prevede che il batterio penetri all'interno delle cellule delle vie
aeree superiori (internalizzazione), dove non può essere
raggiunto dalla penicillina e derivati, che hanno scarso potere di
penetrazione all'interno delle cellule. Un gruppo di ricercatori
israeliani (Lancet 352, 1974-7 e 1954-6, 1998) pensa che alcuni ceppi
di SBEGA siano dotati della capacità di penetrare nelle
cellule e quindi di resistere (ma non nel senso classico di
resistenza) al trattamento con penicillina. Lo streptococco possiede
infatti due geni (prtF1 e sfbI) che codificano proteine che si legano
alla fibronectina, esse potrebbero rivelarsi essenziali per
l'internalizzazione dello SBEGA nelle cellule epiteliali del faringe.
Per esaminare questa possibilità è stata confrontata la
distribuzione del gene prtF1 nello SBEGA isolato da due diversi
gruppi di bambini: quelli nei quali il trattamento penicillinico
aveva eradicato lo SBEGA (54 casi) e quelli nei quali il germe era
ancora presente in faringe (13 casi) dopo il trattamento. 12 dei 13
pazienti portatori dello SBEGA, senza sintomi (92%) e solo 16 degli
altri 54 (30%) avevano germi provvisti del gene prtF1. Gli autori
concludono che probabilmente questo gene è importante per la
penetrazione nelle cellule ed è quindi interessato alla
determinazione dello stato di portatore. Il commento è molto
più prudente, anche perché riporta recenti ricerche
(Eur J Clin Microbiol Infect Dis 15, 712-7, 1996), nelle quali
il trattamento con penicillina ha determinato lo stesso tasso di
eradicazione della eritromicina, che, come gli altri macrolidi,
penetra all'interno delle cellule, dove è in grado di svolgere
la sua attività antibatterica. Il commentatore sollecita
ricerche che valutino l'effetto sull'eradicazione dello SBEGA di
altri antibiotici che penetrino all'interno delle cellule. Nonostante
quanto sopra riportato, prima che siano disponibili nuovi elementi
probanti, è bene che, nella nostra pratica corrente,
continuiamo a trattare le faringo-tonsilliti da SBEGA con Penicillina
V o con amoxicillina.
Vi è
ormai un accordo sulla necessità di eradicare
l'Helicobacter pylori (HP) nei pazienti, adulti o bambini, che
presentino una patologia di tipo ulcerativo dello stomaco. Ancora non
c'è un consenso unanime sulla reale utilità di
eliminare l'HP nei soggetti che soffrano di dispepsia di tipo non
ulcerativo, anche se ancor oggi non c'è accordo nel ritenere
l'HP all'origine della dispepsia. Per dispepsia s'intende una varietà
di sintomi a carico della parte superiore dell'addome, che vanno dal
dolore, al senso di ripienezza, alla nausea, all'anoressia, fino al
senso di bruciore di stomaco, al rigurgito e al vomito. Per
rispondere a questo interrogativo, che ha un'importanza pratica
rilevante, dato che il 20-40% della popolazione dei Paesi occidentali
soffre di dispepsia, sono stati condotte 2 accurate ricerche che sono
comparse una dietro l'altra sullo stesso fascicolo del New England
Journal of Medicine (339, 1869-74 e 1875-81, 1998). Il primo
studio randomizzato, eseguito nel Regno Unito, ha riguardato 318
pazienti, trattati contro placebo con omeprazolo, amoxicillina e
metronidazolo: viene concluso che con omeprazolo e antibiotici è
più facile che si risolvano i sintomi della dispepsia
piuttosto che con il solo omeprazolo. Quindi parere positivo, anche
se sono solo il 21% dei pazienti ha beneficiato del trattamento,
contro il 7% del gruppo controllo (p<0,001). Il secondo è
uno studio multicentrico internazionale (USA esclusi) che ha trattato
in doppio circo 328 pazienti con dispepsia, HP positivi, con
omeprazolo, amoxicillina e claritromicina contro solo omeprazolo: nel
gruppo che ricevette omeprazolo e antibiotici, il trattamento fu
accompagnato da successo nel 27,4% dei casi, mentre nel gruppo
trattato con solo omeprazolo il successo ottenuto fu del 20,7%,
nonostante che l'eradicazione dall'HP sia stata rispettivamente del
79% e del 2%. Viene concluso che l'eradicazione dall'HP non
facilmente si associa alla scomparsa dei sintomi della dispepsia.
E'
evidente che i due studi giungono a conclusioni opposte, in merito
all'efficacia dell'eradicazione dell'HP per corregere i sintomi e i
segni della dispepsia non ulcerosa. I due studi, dice il commentatore
USA (NEJM 339, 1928-30, 1998), pur essendo molto simili e
condotti in modo scrupoloso, differiscono sotto molti riguardi, primo
fra tutti l'indeterminatezza delle manifestazioni dei soggetti che
vengono presi in esame. Una prima conclusione dalla lettura delle due
pubblicazioni è quella che l'HP non ha un ruolo
fisiopatologico nella maggior parte dei casi di dispepsia non
ulcerativa. Nei soggetti in età evolutiva e nel giovane adulto
il trattamento della dispepsia va personalizzato e può andare
da farmaci antisecretivi (H2 antagonisti) a farmaci che promuovono la
motilità (cisapride, domperidone) fino all'identificazione di
fattori scatenanti ambientali, alimentari (succhi di frutta del
commercio, caramelle) ed emotivi.
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