Rivista di formazione e aggiornamento di pediatri e medici operanti sul territorio e in ospedale. Fondata nel 1982, in collaborazione con l'Associazione Culturale Pediatri.
Gennaio 1999 - Volume II - numero 1
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Gennaio 1999 - Volume II - numero 1
M&B Pagine Elettroniche
Avanzi
Novità,
riflessioni, contributi e proposte,
E' ormai
certo che l'obesità è un importante modulatore della
sindrome metabolica, di cui fanno parte l'ipertensione,
l'ipertrigliceridemia, basse concentrazioni di lipoproteine ad alta
densità (HDL), alterato metabolismo del glucosio e
iperinsulinemia. Ma poco si sa ancora sull'associazione fra aumento
del peso dai primi anni di vita, obesità dell'età
adulta e sviluppo della sindrome metabolica.
In un
ampio studio finlandese (BMJ 317, 319, 1998) è
stato osservato che circa la metà dei bambini obesi diventa un
adulto obeso, non solo ma è stato visto anche che l'obesità
iniziata nell'infanzia rappresenta un rischio per l'insorgenza di una
sindrome metabolica nell'adulto. Ciò significa che l'obesità
dell'adulto, che è iniziata nei primi anni di vita, è
più pericolosa dell'obesità che si è manifestata
in età adulta. Il proseguimento dell'obesità
dall'infanzia all'età adulta agisce infatti come un
"generatore" per la comparsa d'insulino-resistenza
prolungata, che si accompagna a una concentrazione d'ipertensione e
di alterazioni metaboliche nello stesso individuo.
I
risultati della ricerca hanno dimostrato inoltre che se un bambino
obeso riduce il suo peso, egli può divenire un adulto non
obeso, protetto dalla comparsa della sindrome metabolica. E' per
questo che i pediatri sono chiamati a raccolta per combattere
l'obesità fin dai primi anni di vita, perché un precoce
intervento previene la comparsa dell'obesità nell'adulto, la
sindrome metabolica e i rischi cardiovascolari.
La
prevalenza dei soggetti sovrappeso e francamente obesi aumenta di
continuo negli USA e in Europa. In USA, in 12 anni, il sovrappeso fra
gli adulti è passato dal 25% al 33%. Un simile comportamento è
risultato uguale nei due sessi e analogo nei bambini, negli
adolescenti e negli adulti. E' risultato anche che l'obesità
nel bambino si associa facilmente a un'obesità nell'età
adulta, a una maggiore morbilità e mortalità.
Molti
studi hanno dimostrato che uno stile di vita caratterizzato da
movimento, durante la fanciullezza e l'adolescenza, può
giocare un importante ruolo nell'ottimizzare la crescita e lo
sviluppo. Uno studio esteso in proposito è stato eseguito in
USA fra il 1988 e il 1994 su 4.063 bambini dagli 8 ai 16 anni
(JAMA 279, 938-42, 1998). Sono stati
attentamente valutati nel tempo gli episodi di attività fisica
vigorosa durante la settimana e le ore passate davanti al televisore:
i risultati sono stati confrontati con l'indice di massa corporea e
con l'accumulo di grasso.
L'indice
di massa corporea è il modo più moderno e più
esatto per valutare la situazione di un soggetto che all'apparenza ci
sembra grasso: esso si ottiene dividendo il peso corporeo (espresso
in chili) per il quadrato dell'altezza (espresso in metri). Esistono
appositi grafici dei centili conriportato l'indice di massa corporea
nei due sessi e alle diverse età: il più recente e
quello meglio condotto è comparso sul Journal of Pediatrics di
qualche mese fa (132, 211-22, 1998): in questa pubblicazione sono
riportati i grafici dei centili per i soggetti, maschi e femmine
separatamente, fra i 5 e i 17 anni di età. I centili riportati
sono il 50°,il 75°, l'85° e il 95°: anche con questi
calcoli la differenziazione fra soggetto sovrappeso e soggetto
francamente obeso rimane difficile. Ovviamente l'indice di massa
corporea aumenta progressivamente col crescere dell'età.
Per
bambini italiani è comparso un ottimo lavoro sulla RIP (24,
264-71, 1998) con riferimento ai bambini laziali fra i 6 e gli 11
anni. Un mezzo comunemente usato per valutare l'accumulo di tessuto
adiposo è la determinazione della piega tricipitale, mediante
un compasso. Anche per questo metodo esistono tabelle dei centili, a
seconda dell'età e del sesso. Altri consigliano la valutazione
della circonferenza del braccio.
Dall'indagine
è risultato che l'80% dei bambini in USA svolge ogni settimana
3 o più incontri di attività motoria: questa
percentuale è più bassa nei neri non-ispanici (69%) e
nelle ragazze americane di origine messicana (73%). L'altro 20% dei
bambini USA svolge solo 2 o meno incontri di attività motoria,
con una percentuale superiore nelle ragazze (26%), che nei ragazzi
(17%).
D'altra
parte il 26% dei bambini in USA passa 4 ore o più al giorno
davanti alla televisione e il 67% almeno 2 ore al giorno. I bambini
neri non ispanici hanno un numero di ore ancora più elevato,
passato davanti al televisore, nel 42% dei bambini (Vedi tabella).
Ecco ora
il punto importante: i ragazzi e le ragazze che passano più
di 4 ore davanti al televisore, ogni giorno, hanno più grasso
nel loro organismo (P<0,001) e hanno un indice più elevato
di massa corporea (P<0,001) che in quelli che guardano la
televisione meno di due ore al giorno.
La
conclusione dello studio è che i bambini USA guardano per
lunghi periodi di tempo la televisione e svolgono un'attività
fisica inadeguata. I livelli di attività fisica sono più
bassi fra le ragazze, fra i neri non ispanici e fra gli americani di
origine messicana. Vengono auspicate strategie per promuovere
un'attività fisica che duri tutta la vita, per combattere le
conseguenze sulla salute della mancanza di movimento.
La nostra
realtà non arriva a questi estremi, ma è ugualmente
allarmante.
Tabella
Prevalenza
a seconda dell'età e del sesso delle ore passate alla
TV
| ||||
Gruppi
di età | N.
soggetti esaminati | Prevalenza | ||
1
ora al giorno o meno | 2-3
ore al giorno | 4
ore o più al giorno | ||
Ragazzi
8-10
anni
11-13
anni
14-16
anni | 1.987
793
653
541 | 36.3%
41
33,1
34,8 | 34.8%
32
35,6
36,8 | 28.9%
27
31,3
28,3 |
Ragazze
8-10
anni
11-13
anni
14-16
anni | 2.076
753
706
617 | 41,9%
47,7
34,3
43,6 | 35,3%
34
39,4
32,7 | 22,7%
18,3
26,3
23,7 |
Negli
ultimi anni è stato tutto un parlare di obesità: in
primo luogo per stabilire con esattezza i suoi limiti (indice di
massa corporea (peso in chili, diviso il quadrato dell'altezza in
metri) e spessore della piega tricipitale), poi per determinarne le
cause (ambientali o genetiche) e infine per comprenderne la
patogenesi (identificazione della leptina e di altri nuovi ormoni).
Tutti
questi studi sono assolutamente giustificati dal progressivo aumento
della prevalenza nella popolazione dell'obesità (O) e del
sovrappeso e dalle difficoltà che s'incontrano nel trattare
queste così diffuse condizioni. Sebbene sia ormai chiaro che
l'O è la conseguenza di uno sbilanciamento fra introiti e
spese energetiche, gli sforzi compiuti per prevenirla sono difficili
da attuare, perché non si conoscono ancora appieno i
meccanismi biologici, responsabili di questo sbilanciamento.
Si è
sviluppato di recente un nuovo filone di ricerca, rivolto a un altro
aspetto dell'eziopatogenesi dell'obesità: quello che riguarda
la vita intrauterina, come momento critico nello sviluppo dell'O
(J Pediatr 132, 768-76, 1998). Vi sono infatti
prove che un aumento del grasso alla nascita, e successivamente
durante la vita, è mediato da alterazioni nella vita
prenatale, causate dal diabete materno, dall'obesità della
madre o comunque dal guadagno in peso durante la gravidanza.
E' ormai sicuro che il peso alla nascita presenta
un'associazione positiva con il peso nell'età adulta, cioè
dopo 20 anni o più. D'altra parte un aumentato peso alla
nascita si associa spesso all'O della madre, che può
rappresentare un rischio effettivo per i figli attraverso due vie, la
trasmissione di geni che influenzino l'accumulo di grasso e gli
effetti diretti dell'ambiente prenatale e postnatale. L'O materna può
infatti interessare sia il trasferimento di substrato metabolico al
feto in utero che i comportamenti nella dieta e nell'attività
del bambino dopo la nascita. Anche i figli di madre diabetica hanno
un aumento della massa grassa, per cui essi presentano un peso
particolarmente elevato alla nascita, come anche nel bambino e nel
giovane adulto.
Il
diabete materno, l'O o il sovrappeso durante la gravidanza alterano
il trasferimento di substrati metabolici dalla madre al feto.
L'ambiente intrauterino, che consegue a questo alterato
trasferimento, può interessare lo sviluppo e la funzione degli
organi fetali interessati al metabolismo dell'energia. Cosa avviene
nel feto di una donna con diabete in gravidanza? A cominciare da metà
gestazione, è evidente un'iperplasia delle b-cellule
pancreatiche, con conseguente iperinsulinemia, dovuta alle aumentate
quantità di glucosio e di aminoacidi trasferite al feto.
L'indicatore dell'iperinsulinemia fetale sono gli aumentati livelli
di C-peptide nel liquido amniotico e nel sangue del cordone.
L'iperinsulinemia fetale può promuovere lo sviluppo di un
eccesso di tessuto adiposo nel terzo trimestre di gravidanza, sia
attraverso un aumento del volume cellulare che attraverso un aumento
del numero delle cellule adipose.
Come
un'aumentata esposizione intrauterina all'iperglicemia e
all'iperinsulinemia possa portare all'O delle età successive,
non è ancora chiaro. Alcuni autori propongono che
l'alterazione persistente dell'ambiente intrauterino possa avere
conseguenze maggiori su quei tessuti, come il pancreas, il muscolo e
il tessuto adiposo, che sono alla nascita più sviluppati e
differenziati. Per esempio il numero dei recettori per l'insulina o
dei recettori postinsulinici, possono essere alterati nel feto
durante la gravidanza diabetica, perché il muscolo e il
tessuto adiposo si sviluppano in presenza d'iperinsulinemia e
d'iperglicemia. Alternativamente, la stimolazione cronica delle
b-cellule pancreatiche da parte dell'iperglicemia può
disturbare la successiva secrezione d'insulina attraverso la
"down-regulation" da parte del glucosio. E' possibile
infine che la produzione di leptina da parte degli adipotici possa
essere influenzata dall'iperglicemia intrauterina.
Concludendo,
un aumento del peso alla nascita e un'esposizione intrauterina al
diabete materno si associano a un aumento relativo del peso nelle età
successive alla nascita. Questa associazione non sembra sia dovuta
interamente all'eredità genetica. Il riconoscimento di questo
nuovo meccanismo patogenetico, responsabile dell'obesità, può
aiutare a comprendere meglio i meccanismi che in altre situazioni ne
regolano la comparsa.
Bibliografia
Falorni
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Sinha
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1-30, 1998 (Abstract Medline)
Whitaker
RC, Dietz WH - Role of the prenatal environment in the development of
obesity - J Pediatr 132, 768-76, 1998
Quale sia
il momento migliore per l'inizio del divezzamento è sempre
stato oggetto di discussioni accalorate fra i pediatri. La tendenza
attuale, italiana e internazionale, è quella di attendere la
fine del 5° mese per introdurre qualsiasi alimento che sia
diverso dal latte. Ma siamo proprio sicuri che questo sia il momento
migliore ? Una recente ricerca (Pediatrics 102,
569-73, 1998) dimostra che la scelta può essere nettamente
più larga, cioè che possa essere anche più
precoce. Sono stati studiati 165 bambini in età inferiore al
3° mese, suddivisi in due grandi gruppi: quelli che ricevevano
cibi solidi dal 3° al 12° mese e quelli che li ricevevano dal
6° al 12° mese. I cibi potevano essere quelli già
preparati in commercio o in alternativa quelli preparati dalla
famiglia. Sono state prese le misure antropometriche e la
composizione corporea a 3, 6, 9 e 12 mesi. I risultati ottenuti hanno
dimostrato che non ci sono state differenze né
nell'accrescimento, né nella composizione corporea, durante il
primo anno di vita, quando i cibi solidi sono stati introdotti
precocemente. I lattanti che avevano assunto gli alimenti del
commercio avevano introdotto meno proteine e meno grassi, ma
nonostante queste differenze non c'è stato alcun effetto né
sull'accrescimento né sulla composizione corporea. Non è
da pensare che questa sola esperienza debba essere ritenuta
sufficiente per rivoluzionare il nostro comportamento in tema di
alimentazione: essa è comunque da tener presente ogni
qualvolta ci si trovi di fronte ad abitudini diverse dalle nostre,
per evitare inavvertitamente di condannarle.
Il virus
respiratorio sinciziale (RSV) è la causa principale di
malattia delle vie aeree inferiori nei bambini dei primi anni di
vita. Nel primo anno di vita il rischio maggiore viene corso dai nati
da parto prematuro, dai soggetti con malattie croniche polmonari, con
malattie congenite di cuore e con alcune immunodeficienze. In USA le
infezioni da RSV sono la causa di oltre 90.000 ricoveri in ospedale e
di 4.500 morti per anno: rapportando questa incidenza al nostro
Paese, che ha una popolazione generale 4 volte inferiore a quella
degli USA, ma con una popolazione infantile di 8 volte inferiore,
possiamo calcolare circa 12.000 ricoveri per anno e intorno a 500
morti. Dopo il fallimento dei vecchi vaccini e dopo la scarsa
applicazione della ribavirina, di recente è stato osservato il
successo delle Ig iperimmuni per il RSV, iniettate mensilmente per la
prevenzione nei bambini a rischio molto elevato
(Pediatrics 99, 93-9, 1997): tuttavia il rischio
della somministrazione di elevate quantità di liquidi (15
mL/kg) e la possibilità remota, ma presente, di trasmissione
di agenti virali di vario tipo, hanno limitato il loro impiego.
La
recente disponibilità di un'immunoglobulina monoclonale
umanizzata ha permesso di disporre di un anticorpo da 50 a 100 volte
più potente di un'equivalente quantità di Ig immuni.
Per saggiarne l'efficacia è stato condotto uno studio
multicentrico (130 Centri in USA, Canada e Regno Unito), coinvolgente
1.502 bambini, nati da parto prematuro, o con displasia
broncopolmonare, usando il Palivizumag alla dose di 15 mg/kg ogni 30
giorni per 5 volte, contro placebo (Pediatrics 102, 531-7,
1998). E' stata così ottenuta, nel corso di 5 mesi, una
riduzione del 55% dell'ospedalizzazione, valore statisticamente
significativo. Il Palivizumag si è dimostrato un farmaco
sicuro e ben tollerato. Viene concluso che il Palivizumag protegge
contro le malattie gravi da RSV, indipendentemente dalle condizioni
polmonari, dall'età gestazionale e dal peso alla nascita dei
bambini ad alto rischio. L'elenco dei Centri che hanno partecipato
alla sperimentazione occupa, in corpo 8, quasi due pagine delPediatrics.
Per anni
i pediatri pratici si sono scontrati con le diarree croniche
aspecifiche, cioè con quelle diarree, che nonostante le più
diverse ricerche (AGA, EMA, colture feci, prove di funzionalità
e assorbimento intestinale e altro) sfuggivano a ogni tipo di
classificazione eziologica. Le feci di questi bambini sono molli,
ricche di acqua, contengono muco e frammenti di alimenti, soprattutto
vegetali, non digeriti. Ma il bambino è in ottime condizioni,
cresce e si sviluppa normalmente; tuttavia mette in ansia i familiari
e talvolta anche qualche pediatra perché presenta uno o più
scariche diarroiche al giorno, per mesi e talvolta per anni: le età
più colpite vanno da 1 a 3-4 anni. Dopo anni di oscillazione
diagnostica fra le infezioni intestinali (da qui il nome di diarrea
post-infettiva), il transito più veloce (da qui
lâavvicinamento al colon irritabile) e le alterazioni
nellâassorbimento, negli ultimi anni sempre maggiore importanza
è stata data ai fattori nutritivi: nella letteratura
internazionale a questo quadro, che non è da considerare più
come una malattia, viene da tempo indicato con il nome di toddler
diarrhoea, cioè di diarrea del bambino che muove i primi passi
(Arch Dis Child 79, 2-5, 1998). Nei Paesi
sviluppati questo tipo di diarrea cronica risulta quello più
diffuso e quello più frequentemente ãmaltrattatoä.
La causa prima della diarrea sarebbe rappresentata dallâalimentazione
praticata al bambino, magari in seguito a un episodio di diarrea
acuta (quasi sempre di natura infettiva), dopo il quale familiari e
pediatra hanno introdotto una dieta erronea, povera di grassi, povera
di fibre e ricca di idrati di carbonio. La rassicurazione dei
genitori prima di tutto, facile di fronte a un bambino che cresce
normalmente e che gode di unâottima salute: poi i consigli
dietetici con le famose 4 F, che comprendono fibre, grassi (in
inglese fat), da incrementare fino al 35-40% dellâintroito
totale di energia, liquidi (fluid) e succhi di frutta naturali (fruit
juices), cioè fatti in casa. Nessun farmaco, nessun esame:
solo rassicurazione e cambiamento nella dieta. I risultati sono
entusiasmanti: lâhabitus intestinale cambia in 24 ore, sembra
un miracolo. Gli insuccessi sono pochi: la famiglia tirata fuori da
un incubo ve ne sarà grata per sempre.
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