WEB E RAGAZZI: PROBLEMA O OPPORTUNITA'?

WEB E RAGAZZI: PROBLEMA O OPPORTUNITA'?
domenica, 1 Maggio 2011, ore 13:50

WEB E RAGAZZI: PROBLEMA O OPPORTUNITÀ?


Sei connesso?


Editoriale pubblicato a febbraio 2011 (Medico e Bambino 2011;30:76-7). Scarica il pdf al link: http://www.medicoebambino.com/?id=1102_75.pdf.


I risultati di uno studio pubblicato sul Journal of Epidemiology and Community Health del dicembre scorso1 indicano l’esistenza di un’associazione tra uso di cellulari in epoca sia pre- che post-natale da parte delle madri e presenza di disturbi del comportamento nei bambini all’età di 7 anni. Chiunque si trovi di fronte a un simile risultato facilmente immagina che l’associazione sia spuria, dovuta all’esistenza di fattori con-fondenti legati da una parte all’uso di cellulari - soprattutto alla tipologia psico-sociale - e dall’altra all’insorgenza di problemi comportamentali. Ma questo studio, se certo non esclude del tutto questa spiegazione, la rende per lo meno ardua. Gli Autori sono un gruppo di epidemiologi molto qualificati dell’Università di Los Angeles, in associazione con ricercatori danesi impegnati nell’analisi dei dati della Danish Birth Cohort, il più grande studio di coorte di nati realizzato fino a oggi2. Questi, dopo che una prima analisi, su un numero più limitato di soggetti, aveva messo in evidenza, sorprendendo tutti, l’esistenza di una tale associazione, hanno esaminato i dati relativi a oltre 23.000 bambini, con una analisi rigorosa di tutti i possibili fattori confondenti (variabili socioeconomiche, livello di attenzioni materne misurato attraverso indicatori quali durata dell’allattamento al seno, astensione dal fumo in gravidanza ecc.). La nuova, accurata analisi dimostra che, certamente, il rischio di sviluppo di disordini del comportamento è aumentato dalla bassa posizione socio-economica, dal fumo in gravidanza, ed è diminuito dall’allattamento al seno prolungato, ma che, anche controllando per questi e altri fattori, l’associazione resta e resta forte, con una Odds Ratio di 1,5 e intervalli di confidenza ristrettissimi in virtù della grande numerosità del campione. Quale spiegazione allora? Ipotesi neurobiologiche sono state fatte, ovviamente, ma allo stato restano tali. Ad esempio, parlare con il cellulare all’orecchio può portare a un aumentato rilascio di melatonina per la stimolazione dei vicini nervi post-ganglionari conducenti all’ipofisi. E tra le molte cose che la melatonina fa c’è quella di inibire la secrezione del gonadotropin releasing hormone che influenza il metabolismo degli steroidi e la sintesi del progesterone, che a loro volta influenzano lo sviluppo del cervello fetale3. Gli Autori, molto prudentemente, concludono che “questi risultati non devono essere interpretati come la dimostrazione di una associazione causale” e “richiedono conferma”, ma “tenuto conto dell’uso quasi universale dei cellulari ci si dovrebbe preoccupare in via precauzionale già da ora del potenziale impatto sulla salute pubblica”.

La tematica si presta a considerazioni più ampie e di diversa natura. Una delle caratteristiche della mutazione antropologica che sta avvenendo sotto i nostri occhi e che rende le nuove generazioni più diverse dalla nostra (cioè da quella di gran parte dei lettori di Medico e Bambino) di quanto mai una generazione sia stata diversa dalle precedenti, è l’uso sempre più diffuso, sempre più precoce, e sempre più pervasivo delle connessioni telematiche. Telefonini e social network occupano non solo una parte importante e crescente del tempo, ma entrano come virus nelle attività quotidiane generando un multitasking feroce: si comunica quando si è a scuola, quando si studia, quando si guarda la tv e quando si è a tavola, poi ci si lancia sui PC per chattare. In un internet caffè, in treno e perfino in biblioteca, se si butta l’occhio su cosa stanno facendo centinaia di ragazzini la risposta è: Facebook o telefonino, o entrambi.

L’intera gamma della comunicazione interumana, quindi anche con se stessi, si è modificata rispetto a secoli, se non millenni, di storia precedente: da una comunicazione diretta, mediata dal linguaggio e dalla voce, e peraltro ristretta a un numero limitato di persone, a una comunicazione spesso indiretta, moltiplicata nel numero degli interlocutori, con un linguaggio nuovo ipersemplificato nella semantica e nel significato. La connessione quasi perenne con un universo virtuale non può che ridurre i momenti di silenzio comunicativo, in cui vi possa essere spazio per la riflessione. La comunicazione totale è in fondo una sorta di pornografia della comunicazione, e infatti come tale genera dipendenza.

Se questo abbia effetti neurobiologici, anche intergenerazionali, ancora non ci è dato saperlo. Di certo, unitamente ad altri aspetti della società in rapida modificazione, ha modificato l’espressione del comportamento, sia quello “normale” che quello “patologico”, contribuendo forse a generare (i dati in proposito prodotti da una ricerca promossa dalla CE nei Paesi europei sono troppo disomogenei per poter affermarlo con certezza4) un aumento dei disturbi del comportamento e della salute mentale più in generale.

E noi siamo qui che ci chiediamo che fare, attoniti dinanzi a tanto tsunami comportamentale. Neurobiologi, etologi, psicologi, sociologi, antropologi e psicanalisti propongono più o meno credibili spiegazioni e previsioni, probabilmente ciascuna con un fondo di “verità”. Questa mutazione del clima comunicativo avrà probabilmente più effetti sul corso dell’umanità del cambiamento del clima meteorologico generato dalle emissioni nell’atmosfera. E come per quest’ultimo, occorre (come genitori, come educatori, come pediatri) muoversi in due direzioni: da una parte “ridurre le emissioni” e dall’altra promuovere l’adattamento della specie affinché non ne abbia a soccombere.


Bibliografia


1. Divan HA, Kheifets L, Obel C, Olsen J. Cell phone use and behavioural problems in young children. J Epidemiol Community Health 2010 Dec 7 [Epub ahead of print].

2. Tamburlini G (a cura di). (Ri)parte negli USA il National Children’s Study: obiettivi ambiziosi, impresa ciclopica e difficile. Medico e Bambino 2010;29:186.

3. Hocking B. Maternal cell phone use and behavioral problems in children. Epidemiology 2009;20:312.

4. Braddick F, Carral V, Jenkins R, Jane-Llopis E. Child and Adolescent Mental Health in Europe: Infrastructures, Policy and Programmes. Luxembourg: European Communities, 2009. http://www. camhee.eu/about_project.


Giorgio Tamburlini



I pediatri conoscono i bambini?


Piers e Bronte sono i due fratelli americani protagonisti di un articolo del Time che 5 anni fa lanciava l’allarme sul “pericolo multitasking”: ragazzini e adolescenti fanno troppe cose tutte insieme e, oltre a farle male, gli va il cervello in pappa. Almeno, così sostiene qualcuno.

È una questione intrigante e, per farsi un’idea, possiamo leggere le molte cose che ricercatori di tanti Paesi hanno prodotto negli ultimi anni. Non si può dimenticare però che, da quando mondo è mondo, i ragazzini hanno fatto più cose contemporaneamente: alle elementari, facevo i compiti con la tivù accesa e la testa alle figurine dei calciatori (quando non sbucciavo piselli in cucina) e al liceo… fingevo di studiare ascoltando Cat Stevens e preparando volantini per lo sciopero del giorno dopo. Gli adulti non sono da meno: diversi studi, “vecchi” di 10 anni, confermano che il 95% della popolazione “multitaska” almeno in una fase della giornata o per circa 8 ore al giorno1: il lavoro domestico si aggiunge alla cura dei figli, il telefono a internet, la televisione all’ascolto della musica. Che c’entra? Penserà qualcuno sostenendo che siano cose diverse. Invece c’entra: 1) è possibile che il cervello dei nostri figli sia preparato al multitasking; 2) bisogna intendersi su cosa intendiamo con “multitasking”; 3) è probabile che qualcuno che se la prende col multitasking in realtà sia preoccupato per altro.

L’editoriale di Giorgio Tamburlini2 su Medico e Bambino parla di “mutazione antropologica” che avrebbe prodotto nuove generazioni “diverse dalla nostra” (cosa che, personalmente, mi augurerei). “Si comunica quando si è a scuola, quando si studia, quando si guarda la TV e quando si è a tavola”. Di nuovo: magari. E ancora: “ci si lancia sui PC per chattare. In un internet caffè, in treno e perfino in biblioteca, se si butta l’occhio su cosa stanno facendo centinaia di ragazzini la risposta è: Facebook o telefonino, o entrambi”. Il problema è reale ed è stato affrontato in maniera sistematica da diversi Autori3,4.

Anzi, proprio perché è un argomento delicato e importante, dobbiamo metterlo bene a fuoco. Un conto sono i danni da cellulare; altro è la permanenza dei ragazzi su internet; altro ancora la dipendenza da videogame. Tre questioni diverse che meriterebbero certamente altrettanti editoriali. Non guardiamo, allora, agli internet caffè (vogliamo stupirci che un cliente di un locale del genere stia su Facebook? Cosa dovrebbe fare, leggere Leopardi?). Anche sulla … navigazione in treno avrei qualche riserva (nonostante la tanto pubblicizzata linea wireless delle Ferrovie, è praticamente impossibile stare su web viaggiando in treno salvo che nei benedetti dieci minuti di sosta a Santa Maria Novella).

Credo che il timore di molti di noi sia piuttosto “la connessione quasi perenne con un universo virtuale” che riduce i momenti di silenzio e di riflessione. Non avendo nei paraggi Piers e Bronte, ho chiesto a Rebecca (17 anni) e Celeste (14 anni) che ne pensassero dell’articolo. Risposta: solo chi non sta su Facebook può pensarlo come qualcosa di virtuale; Facebook sono i miei amici, soprattutto quelli che vivono a Genova e a Milano, i compagni di scuola e il “gruppo” dove ciascuno posta i propri dubbi e le incertezze sui compiti a casa… Ecco: semmai, una delle questioni risiede qui, nella funzione del gruppo, essendo la “groupiness” una situazione in cui ciascuno fa una cosa non per un arricchimento personale, ma per provare un senso di appartenenza4,5. È tale la diffusione di quelli che McLuhan chiamava (non conoscendone se non una parte) i “media elettrici”6 che non possiamo non accettare che siano ormai parte del mondo reale, fatto da gente che parla e da gente che sta in silenzio, che sta sola o è connessa e, soprattutto, da gente ricca e da persone povere.

Qui sta un altro punto molto importante: nella ricchezza materiale e culturale delle famiglie dei bambini e degli adolescenti. La tecnologia può avere sui bambini effetti positivi o negativi7 ma soprattutto - come scrive Kevin Kelly nel suo bellissimo libro8 - ci dà “la possibilità di scoprire chi siamo e soprattutto chi potremo essere”. E non c’è niente di peggio di scoprire di essere poveri e di avere un futuro poco felice: si finisce davvero a fare i solitari al cellulare o a giocare col Gameboy.

Quella che ci offre la stagione presente è un’opportunità straordinaria e non è detto che la comunicazione degli adolescenti (e la nostra) su internet (ma non solo) sia superficiale o semplificata. È diversa da quella di un tempo. Per certi aspetti, è peggio, per altri più ricca (non a caso si usa l’espressione “enhanced communication”), perché integra testi, video, immagini, file audio…). E sarebbe bello che questa opportunità fosse colta insieme, ragazzi e adulti. A patto di essere anche noi “grandi” disposti ad apprendere da chi, di certe cose, ne sa almeno quanto noi.


Bibliografia


1. Kenyon S. What do we mean by multitasking? Exploring the need for methodological clarification in time use research. Int J Time Use Res 2010;1:42-60.

2. Tamburlini G. Sei connesso? Medico e Bambino 2011;2:76-7.

3. Jackson M. Distracted: the erosion of attention and the coming dark age. NY: Prometheus, 2008.

4. Carr N. The shallows. What the Internet is doing to our brains. New York: Hyperion, 2010. Ed. it. Internet ci rende stupidi? Milano: Raffaello Cortina, 2011.

5. Crain C. How is Internet changing literary style? http://www.steamthing.com/2008/06/ how-is-the-inte.html.

6. Patriarca A, Di Giuseppe G, Albano L, Marinelli P, Angelillo IF. Use of television, videogames, and computer among children and adolescents in Italy. BMC Puclic Health 2009;9:139. doi:10.10.1186/1471-2458-9-139.

7. Bavelier D, Green CS, Dye MW. Children, wired: for better and for worse. Neuron 2010;67: 692-701.

8. Kelly K. Quello che vuole la tecnologia. Torino: Codice Edizioni, 2011.


Luca De Fiore

Direttore del Pensiero Scientifico Editore



In medio stat virtus


Forse sono uno dei pochi esemplari ibridi fra la vecchia e la nuova generazione: non sono nato col computer o con Facebook, ho avuto il mio primo cellulare a “soli” 18 anni quando sono andato a studiare fuori, all’università, ma ho iniziato a utilizzare un computer a 6 anni e ho cercato di sfruttare le potenzialità di internet quando avevo 17 anni, tanto per le comunicazioni sociali quanto per lo studio e la ricerca. Forse per questo non capirò mai a pieno le angosce dei “grandi” e non sarò mai cosciente completamente della fusione dei “piccoli” col mondo virtuale...

Sono rimasto un po’ confuso dal pregiudizio negativo di Giorgio Tamburlini nei confronti della tecnologia in “Sei connesso?” anche perché - a dirla tutta - l’editoriale prende spunto da un articolo che parla dell’uso dei cellulari da parte delle madri, non dei bambini. Forse è proprio una questione di “generazioni” diverse, e di diverso adattamento a quello che la società diventa man mano. Quello che ai tempi della mia infanzia era un’accusa alla cattiva influenza della televisione, ora si è trasformata in un’accusa a internet, ai social network e a quanto vi ronza intorno.

Recentemente Pediatrics ha pubblicato uno studio svizzero sulla salute degli adolescenti e l’intensità dell’uso di internet che mi ha fatto pensare proprio a questo argomento: l’associazione trovata segue la forma di una U, ossia non solo chi utilizza troppo internet, ma anche chi lo utilizza troppo poco o per niente sviluppa problemi psichici e somatici (Bélanger RE, et al. A U-shaped association between intensity of internet use and adolescent health. Pediatrics 2011;127:e330-5). “In medio stat virtus”, continuerebbero a commentare i nostri antenati. L’ipotesi degli Autori nella discussione è che i ragazzi che non usano internet “sono fuori dall’ambiente culturale dei loro pari”: eliminando il fattore confondente socio-economico (cioè chi non ha internet perché non se lo può permettere), restano quelli che non si buttano nelle attività sociali on-line e tendono a isolarsi dal modo attuale di stare “connessi” con gli amici.

Forse è la scoperta dell’acqua calda, ma come sempre, come tutto, il problema risiede nella quantità e nella qualità dell’utilizzo delle cose: dalla televisione ai cellulari, dal computer ai videogiochi, da internet ai social network, e quant’altro. Credo che un ragazzino dei nostri tempi non possa vivere senza cellulare, senza Facebook, a meno di restare “escluso” dalla sua cerchia di amici. Certo esiste un rischio di una “comunicazione spesso indiretta, moltiplicata nel numero degli interlocutori, con un linguaggio nuovo ipersemplificato nella semantica e nel significato”. È triste vedere che i ragazzi sono sempre su Facebook ma non scrivono niente di loro, postano solo link e commentano usando frasi idiote, non comunicano davvero, si illudono di farlo, di stare insieme… ma questo, purtroppo, lo fanno anche i “grandi”. Allora cosa si può fare? Mimare le comunità Amish e tornare a un integralismo di comunicazioni dirette in un mondo che si muove in altra direzione?

“In medio stat virtus”, ripeto anch’io. E questa deve essere la sfida dei genitori e degli educatori, pediatri inclusi. Non demonizzare, ma aiutare i nostri ragazzi a saper integrare, a fare in modo che internet diventi uno strumento più che il fine. Non togliere la tecnologia ai ragazzi di oggi, ma riempirla di significato, e per fare questo servono la concretezza e l’esperienza che il mondo virtuale non sarà mai in grado di dare. Chi ha sperimentato le gioie della lettura di un libro saprà forse comunicarlo ai propri figli, ai propri nipoti, ai propri pazienti. Se da un lato cerco di regalare ai miei nipoti dei buoni libri in carta e inchiostro per comunicare questo grande tesoro, dall’altro parlo dei libri che leggo sulla mia pagina di Facebook e li condivido con i miei amici, così come loro fanno con me; uso internet per ordinarli così come mi tuffo per pomeriggi interi in una vecchia e reale libreria. Insegniamo ai nostri piccoli (dando l’esempio) a saper essere connessi col mondo, e non connessi e basta…


Gianluca Tornese

Specializzando, Clinica Pediatrica

IRCCS “Burlo Garofolo”, Trieste



Connessi con (a) ragione


Credo che anche il punto di vista di una insegnante e mamma possa portare un contributo a questo dibattito.

È anacronistico pensare che i figli del XXI secolo possano vivere senza il telefonino nei jeans o una connessione che permetta loro di navigare e “incontrarsi” su internet in ogni momento della giornata. Penso però che sia realistica la posizione di chi teme che “la connessione quasi perenne [possa] ridurre i momenti di silenzio comunicativo, in cui vi possa essere spazio per la riflessione”. Il vero problema mi sembra infatti la superficialità e la passività nell’uso delle nuove tecnologie e dei social network sui quali spesso i ragazzi si limitano a postare frasi e pensieri di altri, a far passare il tempo più che a comunicare davvero. La maggior parte dei miei alunni (10-14 anni) incontra notevoli difficoltà nel motivare le proprie scelte o il proprio punto di vista - la risposta più gettonata è “perché sì/no” - e penso che questo dipenda anche dalla passività con cui fruiscono delle nuove tecnologie, che spesso invadono il loro tempo senza dargli opportunità per riflettere, farsi domande ed elaborare in maniera attiva e autonoma il proprio pensiero.

Quanto dice Frati mi sembra quindi la vera sfida per gli insegnanti di oggi: “fornire gli strumenti culturali per costruirsi un gusto e un’identità, per capire come muoversi sul web”, per sviluppare quel minimo di senso critico che li renda adulti consapevoli e responsabili. Senza lasciarsi andare al pessimismo, bisogna però ammettere che si tratta di un compito piuttosto arduo in un Paese che non investe nella scuola, ma piuttosto le taglia i fondi, gli insegnanti e anche il tempo.

A mio parere diventa quindi determinante il ruolo delle famiglie. Perché i nostri figli non diventino dipendenti e tantomeno passivi nei confronti delle nuove tecnologie, credo che dobbiamo abituarli fin da piccolissimi ad ampliare il campo delle esperienze, creando in loro interessi alternativi e assecondandone le passioni, senza cedere alla tentazione di lasciarli in balia delle “babysitter tecnologiche” presenti nelle nostre case; solo così le nuove tecnologie potranno essere per loro strumenti per conoscere, approfondire, comunicare e facilitare lo scambio di esperienze reali.

Nella nostra vita frenetica una scelta educativa di questo tipo non è sempre facile, ma la mia esperienza di mamma mi dimostra che sedersi accanto ai propri figli per leggere loro una fiaba li fa diventare dei piccoli lettori autonomi (e anche critici!) già a 6 anni. Mi sembra che scarrozzarli tra palestre e scuole di musica o di danza non li avvii solo al multitasking selvaggio a cui siamo tutti condannati, ma permetta di mettersi a suonare il pianoforte ancora con il grembiule addosso piuttosto che correre ad accendere il computer per giocarci appena rientrati a casa. Credo inoltre che scegliere di avere una sola televisione in casa, e non dove mangiamo abitualmente, mi aiuti ad avere un tempo di qualità da trascorrere con loro per comunicare e “conoscerci” meglio. Non per questo scoraggio i miei figli a utilizzare il computer: i miei bambini di 8 e 5 anni lo fanno in modo piuttosto autonomo, per giocare in primo luogo (col permesso e per un periodo limitato), ma anche per fare ricerche, scrivere o disegnare (mentre il piccolo di 3 anni li osserva con molta attenzione!).

Certo i miei figli sono ancora piccoli e temo il periodo in cui avrò tre adolescenti per casa. Penso però di fare qualcosa perché fino ad allora imparino a conoscere le potenzialità del web, ma ancor di più mi auguro che stiano già iniziando a sperimentare che solo attraverso la loro intelligenza e la loro sensibilità potranno sfruttarle appieno.


Laura Lenzi

Mamma e insegnante (precaria) nella Scuola Secondaria di 1° grado, Brindisi



Sei connesso? Sì, tutto il tempo che posso e anche di più


In risposta a Luca De Fiore, condivido in pieno la necessità di un confronto su una tematica così importante e così poco discussa, appunto. Si può essere genitori e avere un’idea del problema, prima ancora di essere pediatri. Siete entrati nelle case di qualche famiglia che ha almeno un figlio di età dai 10 anni in su? E avete parlato con un genitore che, per niente contrario alla “tecnologia”, ha favorito l’accesso a internet e ai social network pensando che fossero una potenzialità “in più”? E lo continua a pensare, come genitore e pediatra, ma con alcune riserve, sollevate e a ragione, dall’editoriale di Tamburlini su Medico e Bambino. Scrive Tamburlini: “L’intera gamma della comunicazione interumana, quindi anche con se stessi, si è modificata rispetto a secoli, se non millenni, di storia precedente: da una comunicazione diretta, mediata dal linguaggio e dalla voce, e peraltro ristretta a un numero limitato di persone, a una comunicazione spesso indiretta, moltiplicata nel numero degli interlocutori, con un linguaggio nuovo ipersemplificato nella semantica e nel significato. La connessione quasi perenne con un universo virtuale non può che ridurre i momenti di silenzio comunicativo, in cui vi possa essere spazio per la riflessione. La comunicazione totale è in fondo una sorta di pornografia della comunicazione, e infatti, come tale, genera dipendenza”.

Quel genitore che ha favorito l’accesso ai social network si pone ora alcune domande che nascono dalle seguenti considerazioni: a) la comunicazione rischia di essere di fatto virtuale e superficiale, con un distacco documentato dalla lettura di libri, forse anche dallo studio. La stessa ricerca e visione cinematografica, ad esempio, rischiano di essere in linea con un sapere comunicativo che appartiene al linguaggio dei social network; b) la comunicazione telefonica “diretta” non è più una necessità (così come quella di incontrarsi); c) gli spazi comunicativi familiari si riducono perché Facebook è in connessione continua (“dipendenza”, appunto: guai a stare un giorno senza computer, nascosto magari da un genitore un po’ disperato che prova a torto soluzioni punitive!).

Venendo ai pediatri, credo siano necessariamente preoccupati e anche non preparati per rispondere a domande e perplessità di molti genitori. Inevitabile? Forse, ma difficile pensare che il problema non vada discusso con uno spirito critico, di pensiero, che va oltre una “condivisione” un po’ di moda di quello che è il sistema “moderno” di comunicazione di oggi. Lo spirito dell’editoriale di Tamburlini non è certo quello di pensare che la tecnologia sia un rischio. Il rischio è il modo in cui viene utilizzata.

Dello stesso avviso è l’American Academy of Pediatrics, che ha iniziato una discussione molto seria sui rischi e i benefici dei social media (Pediatrics 2011;127: 800-4, vedi il Digest a pag. 252).

Essere connessi al meglio deve appartenere a un mondo fatto di piaceri, di gioie, di modalità nuove di scrittura, di mille potenzialità in più, ma anche a una realtà che non deve essere mistificata e distorta.

E questo è il pensiero di un pediatra che riflette, di un genitore preoccupato e di una rivista che ha l’obiettivo appunto di aprire (per prima) un dibattito.


Federico Marchetti

Genitore, Pediatra,

Direttore di “Medico e Bambino”



Replica


Se la emendiamo dalle forzature polemiche (ad esempio il titolo che De Fiore, che qui comprensibilmente difende una sua area di interesse professionale, ha ritenuto di dare alla sua lettera), il punto centrale di questa discussione, e quello che vorrei proporre come preliminare punto di accordo, ruota proprio intorno al fatto che, come ricordato da Tornese citando il lavoro di Pediatrics, le relazioni tra fenomeni rispondono spesso a una curva a “U”. Non si tratta quindi tanto di portare argomenti a supporto o a contestazione di quel “pregiudizio negativo” nei confronti della tecnologia della comunicazione in sé e dei suoi effetti sui ragazzi di oggi che alcuni hanno ritenuto di leggere nel mio scritto. Non ci sarebbe imputazione meno fondata, tanto è vero che sto lavorando da mesi a un progetto di web radio per bimbi. Si tratta invece, e questa era la questione da me sollevata, di cogliere il punto della curva oltre il quale l’effetto della connettività tecnologica può diventare un contro-effetto. E di chiedersi per quanti sia già stato superato. Certo non possiamo pensare che a correre i maggiori rischi siano quelli come Rebecca e Celeste, che presumo abbiano avuto i vantaggi di una buona, equilibrata e variegata educazione intellettuale e sentimentale. Ma, a sentire gli insegnanti oggi, non solo la professoressa Lenzi, per non parlare di coloro che scrutano nella nuova fenomenologia della psicopatologia adolescenziale i segni della civiltà che avanza, c’è invece di cui preoccuparsi, e non per pochi sventurati. E magari sarebbe utile discutere a fondo anche con chi si trova nella parte migliore della curva del costo-beneficio, i vari Rebecca e Celeste per intendersi, se accanto agli arricchimenti della comunicazione tecnologica non ci sia anche qualcosa che si viene perdendo, che loro stessi stanno quindi perdendo. E sentire anche l’opinione di quanti, anche loro nella parte buona della curva delle opportunità educative e sociali, consapevolmente hanno scelto di non “essere su Facebook”. E, soprattutto, utile sarebbe sentire tutti gli altri. Per poi chiedersi: questa “controproduttività” della comunicazione tecnologica (restiamo qui sul piano delle abilità e competenze comunicative e lasciamo perdere la complessa letteratura sui danni biologici, che peraltro non va tralasciata) quando, per chi e come si produce? Come al solito, dipende. Immagino dipenda da come i bambini sono stati accompagnati (o meno) nel loro incontro con la tecnologia “fin da piccoli”, in quale contesto educativo e sociale generale, e ovviamente dai contenuti, dal linguaggio e dalle “regole del gioco”. Discussione da continuare, quindi. E che infatti continua in varie sedi, come alcune delle stesse referenze citate da De Fiore indicano.

Quello che mi piacerebbe fosse evitato è: sottovalutare il carattere epocale di alcuni dei fenomeni che investono i ragazzi del nostro tempo, dare per scontato che la direzione sia sempre quella del progresso, e pensare che tutte le “mutazioni” siano, alla fine, per il meglio. Nemmeno Darwin l’avrebbe sostenuto.


Giorgio Tamburlini



Content is (quasi) the king


Vorrei contribuire al dibattito con un input breve ma per me importante: troppo spesso quando si affrontano temi del genere ci si focalizza (dicendo cose magari anche ragionevoli o addirittura giuste) sulla forma e troppo poco sul contenuto dei mezzi di comunicazione. Un errore - o meglio una miopia - che ho visto applicata in passato alla televisione (e probabilmente decenni fa è stata applicata al telefono e al cinema), poi a Internet, poi alla telefonia mobile, oggi ai social network e domani Dio solo sa a che cosa.

I giovani passano le ore davanti al computer o alle consolle di gioco, è indubbio. Dobbiamo esercitarci sulle strategie da ideare e poi applicare per fare in modo che queste ore diminuiscano e che i teenager considerino "meno importanti" questi mezzi di comunicazione nell"ambito del loro relazionarsi? Come volete, anche se potrebbe essere un tentativo vano, condannato in partenza a essere una battaglia da retroguardia.

Ma vogliamo anche sottolineare che è importante lottare perché il contenuto dello stare connessi sia di qualità più elevata? "Content is the king", diceva Bill Gates nel 1996. Altri hanno successivamente messo in discussione questo assioma, ma io credo sia ancora valido. Se un 15enne (o un 40enne) passeggia per prati, boschi, musei e biblioteche tanto meglio. Ma se un 15enne (o un 40enne) sta 10 ore al giorno "connesso" vogliamo adoperarci perché abbia accesso a contenuti di qualità, perché scambi link che suscitino riflessione, perché goda di entertainment intelligente, perché soprattutto abbia gli strumenti culturali per costruirsi un gusto e un"identità, per capire come muoversi sul Web, come cercare e trovare qualcosa che davvero valga la pena trovare e inoltrare agli amici?

Personalmente farò di tutto perché mia figlia (che oggi ha 4 anni) in futuro coltivi rapporti umani veri e non virtuali, faccia attività fisica e non vegeti davanti a uno schermo, e così via - ci mancherebbe. Ma cercherò anche di fare in modo che sappia sfruttare meglio possibile il meraviglioso strumento che è il Web.

Anche il mestiere di genitore e di educatore deve diventare 2.0, credo.


David Frati

Giornalista, editor di "Pediatria", magazine ufficiale della Società Italiana di Pediatria



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