Rivista di formazione e aggiornamento di pediatri e medici operanti sul territorio e in ospedale. Fondata nel 1982, in collaborazione con l'Associazione Culturale Pediatri.
Dicembre 2010 - Volume XIII - numero 10
M&B Pagine Elettroniche
Caso contributivo
Infezioni
ricorrenti nel lattante: spia di un problema più
complesso?
SCDU
Immuno-Reumatologia e Malattie Infettive, Dipartimento di Scienze
pediatriche e dell’Adolescenza, Università di Torino
Indirizzo
per corrispondenza: carmelina_calitri@libero.it
Recurrent infections in a newborn: are there a sign of a more complex problem? Key
words Recurrent
infection, Perinatal infection, Immunodeficiency syndrome, HIV Summary
An
11-month-old girl was referred to our Paediatric Department for
immunological evaluation. She has had history of recurrent
infections since birth. During different hospital admissions,
blood tests revealed persistent microcytic anemia, liver function
test alterations and hypergammaglobulinemia. We found CD4+
T lymphocytes reduction with inversion of CD4+/CD8+ cells ratio.
All these elements suggested us the correct diagnosis of HIV
infection; however, the causative agent of these pathological
manifestations should have been earlier recognized.
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Riassunto
Una
bambina di 11 mesi è giunta al nostro Centro per valutazione
immunologica. In anamnesi, infezioni ricorrenti dalla nascita.
Ricoverata più volte, gli esami ematologici avevano
evidenziato anemia microcitica, aumento persistente delle
transaminasi e ipergammaglobulinemia. Le nostre analisi hanno
mostrato ridotto numero dei linfociti T CD4+, con inversione del
rapporto CD4+/CD8+. Questi elementi ci hanno permesso di formulare il
corretto sospetto diagnostico, riconoscendo poi come responsabile
l’infezione da HIV che poteva e doveva essere identificato più
precocemente.
M. è
nata con taglio cesareo per mancata progressione dopo gravidanza
decorsa fisiologicamente: buone condizioni generali, peso neonatale
2900 g., alimentazione con latte materno.
In
anamnesi, madre brasiliana, 2 fratelli più grandi in buona
salute; non patologie degne di nota nel gentilizio.
A 3 mesi
ricovero per arresto della crescita e febbricola. Dagli accertamenti
ematologici risultavano anemia microcitica (Hb 9,6 g/dl, MCV 61 fl),
lieve aumento delle transaminasi (AST 76 U/l, ALT 60 U/l), aumento
degli indici di flogosi (proteina C reattiva 11,6 mg/dl), riscontro
di flora polimicrobica all’urocoltura. Trattata con antibiotico
beta-lattamico, la bambina veniva dimessa apiretica, in discrete
condizioni generali, con il consiglio di proseguire l’alimentazione
con latte formulato supplementato con ferro per os.
A 6 mesi
ulteriore ricovero per crisi convulsiva febbrile e successiva
diagnosi di polmonite interstiziale, con antigene pneumococcico
urinario positivo, per cui la bambina veniva trattata con
ceftriaxone. Persistevano anemia microcitica e ipertransaminasemia
(AST 821 U/l, ALT 974 U/l), l’ecografia addominale evidenziava
aumento dell’ecogenicità epatica; veniva altresi’
riscontrata ipergammaglobulinemia (IgG 2960 mg/dl, IgA 77 mg/dl e IgM
201 mg/dl).
A 7 e 8
mesi di età due ricoveri, il primo per iperpiressia con
linfoadenopatia sottoangolomandibolare, il secondo per sepsi a
emocoltura negativa. Per la persistenza di anemia microcitica,
ipertransaminasemia e ipergammaglobulinemia venivano eseguite le
sierologie per EBV, CMV e Toxoplasma, HCV, HAV e ricerca dell’HBsAg,
tutte risultate negative. Trattata con terapia antibiotica a largo
spettro la bimba veniva dimessa, ma dodici giorni dopo tornava in
Pronto Soccorso per bronchite acuta.
A 11 mesi
la bambina giungeva alla nostra osservazione per valutazione
immunologica.
Gli esami
eseguiti evidenziavano riduzione del valore percentuale dei linfociti
CD4+ (22,3%) con valori assoluti entro range di normalità
(2060/μl) e inversione del rapporto CD4+/CD8+ (0,6).
La
sierologia per virus HIV-1 risultava positiva, così come la
ricerca del virus su sangue con tecnica PCR (Polymerase Chain
Reaction): veniva pertanto posta diagnosi di infezione da HIV-1,
classificata come B2 secondo i criteri dei CDC di Atlanta per
l’infezione in soggetti con meno di 13 anni.
Sulla
base dei test effettuati successivamente alla madre, è emersa
una possibile trasmissione verticale dell’infezione. Peraltro è
stato possibile documentare che la donna era a conoscenza del proprio
stato di sieropositività, ma non l’aveva rivelata ai
medici che l’avevano seguita durante la gravidanza.
Veniva
quindi prescritta alla bambina terapia antiretrovirale di
associazione (HAART) con zidovudina, lamivudina ed efavirenz e
iniziata profilassi per la polmonite da Pneumocystis jiroveci con
trimethoprim-sulfametossazolo (TMP-SMX), terminata a 17 mesi di età.
Nei controlli successivi la bambina ha sempre goduto di buona salute,
e gli esami ematochimici hanno evidenziato un buon recupero
immuno-virologico, con incremento dei linfociti T CD4+ (35,8% -
2325/μl) e viremia plasmatica indosabile.
L’HIV-1
è l’agente eziologico della infezione-malattia che nelle
forme più gravi si estrinseca nella Sindrome da
Immunodeficienza Acquisita (AIDS).
Secondo
l’ultimo report della World Health Organization (WHO)
sull’infezione da HIV-1 nel mondo1, l’Africa
Sub-Sahariana è la regione più colpita, con il 71%
delle nuove infezioni nel 2008. La prevalenza risulta in aumento
nell’Est Europa e in Asia Centrale, mentre in America Latina la
percentuale di soggetti sieropositivi rimane stabile intorno allo
0,6%. In Italia sono presenti tra 170 e 180 mila persone HIV-1
positive, di cui 22.000 in fase conclamata di AIDS. Un terzo dei
soggetti sieropositivi è di nazionalità straniera, dato
epidemiologico dovuto ai crescenti flussi migratori da Stati europei
ed extraeuropei negli ultimi anni2.
I
soggetti minori di 15 anni infetti da HIV-1 nel mondo sono 2,1
milioni1, risultato perlopiù della trasmissione
verticale del virus che può verificarsi prima, durante e dopo
il parto con l’allattamento al seno. Il principale fattore
favorente è la viremia materna non soppressa al momento del
parto, per resistenza o mancata assunzione di HAART da parte della
gestante come nel caso qui riportato. Altri elementi sono una bassa
conta di linfociti T CD4+ materni, malattia avanzata, abuso di droghe
per via endovenosa, infezioni uro-genitali, parto pretermine (<34
settimane), travaglio con prolungata rottura delle membrane, parto
per via vaginale3,4. M è stata esposta al virus nel
corso di un travaglio prolungato dalla mancata progressione; ha
inoltre assunto latte materno nel primo mese di vita, fattore
correlato di per sé a un rischio di trasmissione pari al
10-15%3.
Il
protocollo 076 del Paediatric AIDS Clinical Trials Group (PACTG 076)
ha dimostrato nel 1994 la possibilità di ridurre del 67% il
rischio di trasmissione verticale tramite la somministrazione di
zidovudina (ZDV) nel periodo perinatale3.
Attualmente,
secondo le Linee Guida dei CDC di Atlanta, la prevenzione della
trasmissione dell’infezione da HIV-1 prevede la
somministrazione di terapia antiretrovirale contenente ZDV alla madre
dalla 14° settimana di gestazione all’inizio del travaglio;
ZDV in infusione continua durante il parto; ZDV per os in profilassi
al bambino dalla nascita fino a 6 settimane di vita4. È
inoltre necessario programmare il parto con taglio cesareo elettivo,
ed è controindicato l’allattamento al seno3.
Seguendo
tali procedure, il rischio di trasmissione madre-figlio del virus
HIV-1 nei Paesi Occidentali è stato abbattuto all’1-2%1,3.
Poiché
nel nostro caso lo stato di sieropositività materna non era
noto, le suddette misure di profilassi non sono state messe in atto:
una review di 13 studi di coorte ha dimostrato che il tasso di
infezione per via verticale senza profilassi antiretrovirale è
pari al 15-20% in Europa, 15-30% in USA, 25-35% nel continente
africano3.
La
prevenzione della trasmissione verticale dell’HIV-1 parte
quindi da un accurato follow up gestazionale. Attualmente in Italia
il Decreto Legge del 10.9.98 indica i controlli ematologici che è
possibile effettuare gratuitamente in gravidanza.
La
sierologia per HIV-1 viene indicata un’unica volta nel primo
trimestre; il test può inoltre essere eseguito solo con il
consenso informato della donna. È essenziale considerare che
si possono ottenere risultati falsamente negativi qualora il test
venga effettuato nel periodo “finestra” di
sieroconversione, variabile da 10 giorni a 12 settimane dal momento
dell’infezione. Vi sono poi donne a elevato rischio di
contrarre l’infezione nel periodo gestazionale, soprattutto se
facenti uso di stupefacenti, con partners multipli e con diagnosi di
malattie sessualmente trasmissibili durante la gravidanza4.
Sarebbe
quindi opportuno ripetere la sierologia per HIV-1 nel terzo
trimestre, preferibilmente prima del compimento della 36°
settimana di gestazione, in modo da poter mettere in atto in tempo le
opportune misure preventive. Inoltre, se la donna giunge al parto
senza documentazione relativa all’infezione o con solo uno dei
due controlli raccomandati, sarebbe auspicabile eseguire il test
rapido per HIV-1. Qualora risulti positivo bisogna infatti iniziare
la terapia endovena con ZDV senza attendere il test di conferma, e
somministrare la profilassi al bambino entro 6 ore dalla nascita4.
Nel caso
clinico qui riportato, la madre della paziente non è stata
testata per HIV-1 nel primo trimestre: non ci è dato conoscere
se abbia rifiutato di eseguire il test o se non le sia stato
proposto; peraltro ha vissuto all’estero circa 5 mesi della
gravidanza in oggetto senza eseguire i controlli ematologici
consigliati. Un’efficace strategia di prevenzione non può
quindi prescindere da una corretta informazione alle future mamme,
che devono essere istruite sulla necessità di eseguire il test
sierologico per HIV-1 per la salute propria e del nascituro.
Nel 2008
sono state 430 mila le nuove diagnosi di infezione da HIV-1 nei
bambini minori di 15 anni1. Le manifestazioni cliniche e
laboratoristiche in età pediatrica sono molto variabili, ma la
loro concomitanza e persistenza devono far insorgere il sospetto
diagnostico5. La nostra paziente presentava anemia
microcitica, dovuta verosimilmente all’effetto mielosoppressivo
diretto del virus, e ipergammaglobulinemia, per l’attivazione
precoce dei linfociti B nel corso dell’infezione.
L’associazione di questi due dati laboratoristici, unitamente a
uno stato di epatopatia persistente e a una storia di infezioni
ricorrenti, avrebbe dovuto far insorgere più precocemente il
sospetto di infezione da HIV, permettendo così di indirizzare
in modo più opportuno gli approfondimenti diagnostici. Lo
studio delle sottopopolazioni linfocitarie ha in seguito permesso di
evidenziare un rapporto dei linfociti T CD4+/CD8+ invertito; la
percentuale di CD4+ era inoltre indicativa per immunosoppressione
moderata, malgrado il loro valore assoluto rientrasse nei range di
normalità: la loro deplezione è infatti meno severa
rispetto all’adulto, a causa della linfocitosi relativa nei
bambini. Come nella maggior parte dei casi, l’esame fisico di
M. alla nascita era normale. L’insorgenza di difficoltà
di crescita, la persistenza dell’epatopatia, la
linfoadenopatia, la ricorrenza degli episodi infettivi, fra cui una
sepsi a emocoltura negativa e una polmonite interstiziale, ci hanno
permesso di formulare l’ipotesi di infezione da HIV-1.
La
diagnosi è stata posta eseguendo prima il dosaggio degli
anticorpi specifici, poi la PCR per HIV-1 sul sangue della piccola.
Mentre infatti in età adulta sono sufficienti le indagini
sierologiche in ELISA e successivamente in Western Blot, in epoca
perinatale deve essere effettuata la ricerca diretta del materiale
genetico (RNA o DNA) del virus: il passaggio transplacentare degli
anticorpi materni rende infatti inattendibili i dosaggi sierologici
immunoenzimatici e con Western Blot almeno fino ai 18 mesi di vita5.
I CDC di
Atlanta hanno classificato i pazienti minori di 13 anni con infezione
da HIV-1 suddividendoli in base a categorie cliniche e
immunologiche6.
L’inizio
del trattamento7 è raccomandato nei soggetti con
infezione sintomatica, come nella nostra paziente, o con numero di
linfociti CD4+ < 350 cellule/mm³. Nei bambini naive è
raccomandato un regime comprendente due inibitori nucleosidici della
trascrittasi inversa (NRTIs, zidovudina e lamivudina in M.) e un
inibitore non nucleotidico (NNRTIs, efavirenz) o, in alternativa, un
inibitore delle proteasi (PI).
La
profilassi con TMP-SMX è stata prescritta alla bimba data
l’elevata incidenza della polmonite da Pneumocystis jiroveci
nel primo anno di vita; secondo le Linee Guida internazionali va
infatti somministrata a tutti i bambini infetti nel primo anno di
età, mentre nelle età successive è indicata
sulla base del numero assoluto e percentuale dei linfociti CD4+: M.
ha quindi terminato l’assunzione di TMP-SMX a 17 mesi8.
È
quindi fondamentale seguire questi pazienti nel tempo per
monitorizzare la funzionalità del loro sistema immunitario,
l’eventuale insorgenza di infezioni opportunistiche e cogliere
precocemente lo sviluppo di resistenze ai farmaci antiretrovirali.
1.
WHO, United Nations Children’s Fund,
UNAIDS. AIDS
epidemic update. December 2009.
2.
Istituto Superiore di Sanità - Centro Operativo AIDS.
L’epidemiologia dell’HIV/AIDS in Italia. Dicembre 2009.
Disponibile su:
http://www.ministerosalute.it/dettaglio/pdPrimoPianoNew.jsp?id=257⊂=1〈=it
3.
Volmink J, Siegfried N, van der Merwe L, Brocklehurst P.
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2009.
4.
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29, 2009; pp 1-90
5. RED
BOOK 2009: sezione 3, pp: 380-400
6.
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for Human Immunodeficiency Virus Infection in Children Less Than 13
Years of Age. Sept 30, 1994 / 43(RR-12); 1-10. Disponibile
su: http://www.cdc.gov/mmwr/preview/mmwrhtml/00032890.htm
7.
Panel on Antiretroviral Guidelines for Adults and Adolescents.
Guidelines for the use of antiretroviral agents in HIV-1 infected
adults and adolescents. Department of
Health and Human Services. November 3, 2008;1-139.
8.
MMWR. Recommendations and reports. Guidelines
for the Prevention and Treatment of Opportunistic Infections Among
HIV-Exposed and HIV-Infected Children. September 04, 2009 /
58(RR11);1-166.
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