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Medico e Bambino

LA FORMAZIONE DELLO SPECIALIZZANDO IN PEDIATRIA PRESSO GLI AMBULATORI DEI PEDIATRI DI FAMIGLIA

Risposta
marted�, 28 Settembre 2010, ore 22:16

Carissimi tutti,
sono un po’ sorpreso (ma anche un po’ no) della reazione di rigetto che avete avuto all’articolo a firma di Gianluca Tornese. Articolo che, lo voglio dire subito, è stato commissionato e “controllato” nei metodi e nelle conclusioni da me stesso.
È certamente vero che questo studio, che nasce dall’esigenza di chi guida la Scuola di specializzazione di fare sempre meglio e non soltanto di seguire pedissequamente le indicazioni ministeriali sull’organizzazione dei tirocini degli specializzandi, non ha, né potrebbe avere, la presunzione di essere, per peso e qualità scientifica, un lavoro scientificamente indiscutibile. Ha semplicemente il valore “indicativo” di ogni sondaggio, di ogni studio basato su questionari. In questo caso, il campione dei rispondenti, pur piccolo in termini assoluti, rappresenta la totalità di coloro che sono passati per l’esperienza.
Anticipo che sono sinceramente dispiaciuto del vostro risentimento e del fatto che, comunque, “ci siate rimasti male”. Così come ci tengo a riaffermare all’inizio di questa mia risposta il sentimento di amicizia e di “complicità professionale” che mi unisce a tutti voi da sempre, da quando eravamo tutti piccoli piccoli. E vi invito a rileggere l’articolo e a ricevere la mia risposta tenendo conto di questo sentimento.

1. È chiaro che non siete stati coinvolti nello studio! La valutazione soggettiva dell’esperienza formativa non può che essere fatta, per definizione, da chi sta formandosi e non dai tutori. È ovvio che il questionario sia stato inviato agli specializzandi e non a voi. Specializzandi che dovevano rispondere in piena libertà e anonimato. Esattamente come succede nella valutazione di altre esperienze formative e stage che la scuola offre.

2. L’opinione registrata è quella degli specializzandi dei primi tre anni. Certo, avete ragione, potrebbe non essere corretto comparare il loro giudizio prendendo come controlli gli specializzandi passati in precedenza, del quarto e quinto anno. Avete ragione, ma è anche ovvio che la valutazione del valore formativo puro e semplice di un’esperienza di tirocinio è più “veritiera” nel caso degli specializzandi giovani (dei primi anni) che non hanno mai svolto il ruolo di “sostituti” (unica modalità con cui, invece, hanno frequentato i vostri ambulatori gli specializzandi degli anni scorsi). Per gli specializzandi giovani dei quali abbiamo valutato le risposte al questionario si è trattato di un’esperienza formativa pura e semplice, da allievi e basta, senza nessun vantaggio “aggiuntivo”, né economico né psicologico (psicologico nel senso di sentirsi più liberi e di avere il riconoscimento della proprio maturità professionale).

3. Devo dire che, parlando a voce con gli specializzandi che hanno svolto il tirocinio nei vostri ambulatori (e come risulta anche dal lavoro di Gianluca), si trae sempre un sentimento di gratitudine e di riconoscimento della mole e dell’importanza del vostro lavoro. Ma, “a pelle”, il numero di ragazzi che, dopo aver fatto l’esperienza concreta, rimarcano il fatto che, potendo, non cercheranno il loro sbocco professionale nella pediatria di famiglia, mi era sembrato ancora più rimarchevole di quel 70% che risulta dalle risposte ai questionari. Tutto questo non va letto (né c’era l’intenzione di farlo) come critica sul vostro operato. Piuttosto, io stesso lo avevo interpretato in senso autocritico, come un’inequivocabile evidenza che c’è qualcosa di sbagliato nel modo di far apparire la pediatria a chi le se avvicina da studente o neolaureato. C’è qualcosa di distorto tra quello che può apparire la pediatria arrivandoci dalle lezioni e dai tirocini all’università rispetto alla realtà reale (e alla missione della scuola). La pediatria che i giovani incontrano e vedono svolgere in Clinica nei loro tirocini pre- e post-laurea è inequivocabilmente diversa e non lascia immaginare (o non riesce che a far nebulosamente intravedere) quella pediatria di famiglia, quel tipo di lavoro che con ogni probabilità andrebbero a fare una volta specialisti. È difficile pensare che un ragazzo, arrivando in clinica pediatrica da studente e continuando la frequenza dopo la laurea, possa da solo rendersi conto che la specializzazione in pediatria è nata soprattutto per garantire ai bambini italiani le cure di base e non tanto (o non solo) perché ci siano tanti pediatri che sanno fare il trapianto di midollo, o curare il morbo di Crohn o che sanno fare i clinici facendo anche la ricerca di base. Ed è comprensibile che solo una parte dei laureati in medicina (una minoranza) abbia idee e vocazione ben orientate da subito a un modello di lavoro come quello della pediatria di famiglia. La critica che il lavoro di Gianluca Tornese fa emergere rispetto alla situazione che si è creata, di divario tra aspettative dello specializzando e realtà professionale pediatrica va quindi principalmente rivolta a chi come me, insegnante di pediatria, e responsabile di un reparto di riferimento, finisce con l’essere responsabile di una presentazione parziale (sia pur affascinante per chi non vede l’ora di svolgere la professione di medico) della pediatria, inducendo nei giovani l’aspettativa di poter diventare un professionista abbastanza diverso da quello che la Scuola ha il compito di preparare.
In molti sedi italiane la Pediatria è molto maturata ed è diventata un riferimento di eccellenza culturale e assistenziale nell’ambito della Facoltà di Medicina e Chirurgia. Si spiegano bene, di conseguenza, alcuni fenomeni che sono andati sviluppandosi, come l’aumento oltremisura (fuori attesa statistica) dei neolaureati che tendono a iscriversi a Pediatria attirati dal tipo di casistica complessa oltre che dal metodo di affrontarla (in alcune sedi - ultimamente anche a Trieste - il 15-20% delle tesi di laurea sono in pediatria). Altre ragioni del “fascino” di molte buone Scuole di Pediatria italiana per i neolaureati sono l’offerta da parte delle Scuole stesse di esperienze formative di punta in Italia e anche all’estero, il coinvolgimento degli specializzandi nella ricerca scientifica di alta qualità, con occasioni di essere protagonisti di comunicazioni e relazioni scientifiche, oltre che Autori di pregevoli pubblicazioni internazionali. E, ovviamente, anche questo tipo di offerta delle Scuole di specialità finisce un po’ per confondere le aspettative di chi si iscrive e di occultare quelli che saranno gli sbocchi possibili e quelli che sono (o dovrebbero essere) i veri obiettivi della scuola stessa. E, del resto, lo potete vedere da voi stessi: per quanto acerbi e immaturi professionalmente, i nostri specializzandi, ma anche i pre-specializzandi (quei volonterosi tirocinanti in attesa di fare l’esame di ingresso, che affettuosamente abbiamo cominciato a chiamare “specializzoidi”) che abbiano già frequentato un anno, sono dei piccoli scienziatini, colti, bravissimi ad affrontare casi complessi, spesso a risolverli con un intenso impegno di studio e con buon metodo prima dello strutturato. Sono giovani già molto professionalizzati anche nella comunicazione del loro operato, molto critici anche verso i “vecchi” (e io ne so qualcosa, vivendo nella quotidianità delle riunioni cliniche e di aggiornamento condivise con gli specializzandi). Soprattutto (almeno di regola) molto motivati a lavorare di più e meglio nel terreno dei problemi complessi.

Voi dite che il pediatra è lo stesso, fa lo stesso lavoro fuori e dentro il grande ospedale. Ecco, su questo proprio non sono d’accordo (e presuntuosamente credo di aver ragione). È il bambino che è lo stesso fuori e dentro l’ospedale, non il pediatra. Nemmeno la pediatria che il pediatra deve sapere è la stessa, anche se un po’ di specialistico deve sapere il pediatra generalista, per quello che gli serve a non farsi sfuggire casi o a seguirli una volta inquadrati con l’aiuto del Centro, e un po’ (io direi quasi tutto) di generalistico dovrebbe sapere lo specialista per non agire in maniera eccessiva, impropria, ossessiva, dannosa per il bambino. Ecco, io penso che qui a Trieste, qui in questa “famiglia” di pediatri del dentro e del fuori ospedale, si sia raggiunta un’integrazione e uno scambio (e anche una amicizia) che non c’è altrove e che fa molto bene al bambino. Ma, almeno a Trieste (dobbiamo prenderne atto come risultato principale del lavoro di Gianluca Tornese, ma sono sicuro che è così in molte altre sedi), un giovane appena entrato in Specialità, avendo avuto occasione di fare un confronto, preferisce immaginare il suo futuro come pediatra del centro di terzo livello piuttosto che come pediatra di famiglia. E questo è semplicemente un dato di fatto, non un giudizio sull’operato di qualcuno! Questo è un dato di fatto da non nascondere sotto il tappeto. Si tratta di un problema che va riconosciuto e affrontato e che testimonia di una forte contraddizione tra le aspettative dello specialista che andiamo formando e la realtà professionale reale. E, per quanto è la mia esperienza diretta, questo divario tra aspettative date dalla Scuola e realtà reale emergerebbe anche se valutassimo il parere degli specializzandi passati e finiti a lavorare in pediatrie di ospedali periferici. Il problema va fatto emergere, va discusso e affrontato con chiarezza. Perché se alla fine se continueremo a formare un mucchio di pediatri che si troveranno a fare un mestiere diverso da quello che si aspettavano di fare e che desideravano fare, questo farà semplicemente danno, oltre che a loro stessi, a tutto il sistema (e forse anche ai bambini). Io penso anche che sia proprio in questa nostra “famiglia triestina” (di cui molti dei lettori di Medico e Bambino si sentono parte) che si possa e debba continuare, meglio e prima che altrove, a guardare, rilevare e discutere di ogni problema senza essere fraintesi, gratificati soltanto dall’agire nella realtà concreta, dal cercare di fare meglio e non dalla forma e dalle “carezze”. Se dei fraintesi ci sono stati nel caso dell’ottimo articolo dell’ottimo Gianluca Tornese, è certamente comunque solo per causa mia. Che avrei potuto parlare con voi dei risultati del lavoro (e spiegarmi come ho fatto adesso) prima che il lavoro stesso fosse pubblicato. Sono d’altro canto certo che questo studio potrà essere utile per una riflessione critica a quanti, come me, sono più o meno direttamente responsabili della formazione degli specializzandi in pediatria. E tanti di questi spero prenderanno parola e daranno il contributo in questo dibattito.


PS. La dott.ssa Mayer (Napoli) e il dott. Simeone (Mesagne, Brindisi) sono bravi pediatri di famiglia che certamente molti di voi conoscono. Sono da sempre parte della famiglia (perlomeno quella di Medico e Bambino). Presso di loro hanno fatto un breve stage due specializzandi che hanno avuto anche una esperienza di tirocinio con uno di voi. Dalla lettura anonima dei questionari non sono mai apparse clamorose differenze da caso a caso.


Alessandro Ventura
Clinica Pediatrica, IRCCS “Burlo Garofolo”, Trieste
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