Marzo 2017 - Volume XX - numero 3
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Clinica
Pediatrica, IRCCS Materno-Infantile "Burlo Garofolo", Trieste
Indirizzo
per corrispondenza: valentina_aba@yahoo.it
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La rimozione chirurgica è la più diffusa in ambito pediatrico
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È uno dei motivi più comuni per interventi chirurgici di emergenza nei bambini. Tuttavia, l’asportazione dell’appendicite può essere costosa, traumatica e a volte inutile. A consigliare che il trattamento con antibiotici può essere un’alternativa efficace e sicura alla rimozione dell’organo è una revisione di studi pubblicata sulla rivista Pediatrics.
L’infiammazione dell’appendice interessa circa il 7% della popolazione almeno una volta nella vita e colpisce più di frequente bambini, adolescenti e giovani adulti. Se non trattata, può portare a com-plicazioni gravi come la peritonite e, per evitarlo, l’attuale trattamento gold standard mondiale è la rimozione dell’appendice infiammata, interventi di cui in Italia se ne eseguono circa 4 ogni 1000 bimbi sotto i 14 anni. Tuttavia, l’operazione chirurgica è “invasiva e costosa, oltre che demoralizzante per il bambino e la famiglia”, dice Nigel Hall, professore associato di chirurgia pediatrica a Southampton e autore se-nior dello studio. Per valutarne l’effettiva necessità, il team ha esaminato gli studi pubblicati negli ultimi 10 anni in materia, per un totale di 413 bambini che avevano ricevuto un trattamento antibio-tico in alternativa all’appendicectomia. Nessuno di loro ha riportato problemi di sicurezza o eventi avversi e l’appendicite è tornata nel 14% dei casi dopo il trattamento. “La terapia farmacologica è altrettanto efficace nei piccoli quanto negli adulti. Va esplorata più ampiamente”. I medici della SIP per Salute Bambini. ANSA: una malattia in aumento in tutto il mondo
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In Italia vivono circa 20.000 bambini e adolescenti con diabete mellito, quello di tipo 1 è una patologia metabolica cronica autoimmune nella quale il pancreas non è più in grado di produrre insulina. L’incidenza di questa patologia è in aumento in tutto il mondo e non sorprende che oggi il diabete mellito rappresenta la più frequente malattia endocrina dell’età pediatrica. La Società Italiana di Pediatria chiarisce gli aspetti di questa malattia in 9 domande e risposte per il canale Salute Bambini Ansa per la rubrica “La malattia del mese” dedicata appunto al diabete. A rispondere sono Mauro Bozzola, Ordinario di Pediatria, Università degli Studi di Pavia, Ospedale San Matteo di Pavia; Stefano Cianfarani, Dipartimento di Medicina dei Sistemi Università di Roma “Tor Vergata”, Ospedale Pediatrico “Bambino Gesù” Roma; Novella Rapini, PhD Ospedale Pediatrico “Bambino Gesù”, Roma; Dario Iafusco, Seconda Università degli Studi di Napoli.
Buona parte delle cause principali di morte sotto i cinque anni sono prevenibili con interventi sull’ambiente
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Nel mondo 1,7 milioni l’anno, è attribuibile a cause ambientali, dall’inquinamento all’igiene inade-guata. Lo afferma l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). La stima è contenuta in due rap-porti. Nel primo l’OMS afferma che buona parte dei decessi per polmonite, diarrea e malaria, le cause principali di morte sotto i cinque anni, sono prevenibili con interventi sull’ambiente, dall’accesso all’acqua pulita a quello a combustibili non tossici per cucinare. Il secondo fornisce da-ti dettagliati sulle cause di morte.
Al primo posto, con 570mila vittime, ci sono le infezioni respiratorie causate dall’inquinamento in-door e outdoor e dal fumo passivo. La diarrea, prevenibile con migliori condizioni igieniche, fa 361mila vittime all’anno. Altre 200mila sono dovute alla malaria, che può essere prevenuta con in-terventi sull’ambiente. “Un ambiente inquinato è letale - afferma Margaret Chan, direttore generale dell’OMS - specialmente per i bambini”. ![]()
Un’educazione troppo rigida mette a rischio il futuro dei ragazzi. Lo sostiene uno studio USA condotto su circa 1400 adolescenti che suggerisce che una genitorialità eccessivamente dura è un fattore predittivo di un più basso livello di istruzione nei giovani.
Genitori autoritari, che utilizzano minacce, coercizioni e punizioni, mettono a rischio il percorso scolastico dei figli, che più degli altri rischiano di interrompere il loro percorso d’istruzione. Uno studio degli psicologi USA dell’Università di Pittsburgh, indaga le cause del rapporto tra eccessiva severità nell’educazione e scarso rendimento negli studi. Una relazione che solo qualche decennio fa sarebbe sembrata un paradosso. Ma che di paradossale non ha davvero nulla. Lo studio Gli autori dell’indagine, pubblicata su Child Development, rivista della Society For Re-searche in Child Development, hanno seguito per nove anni la storia personale e gli studi di ol-tre 1400 adolescenti, maschi e femmine, con diversa origine etnica, geografica e socioeconomica. A partire dai 12 anni e fino ai 21 tutto il campione è stato periodicamente sottoposto a interviste e questionari che chiedevano conto sia di eventuali misure coercitive o punitive messe in atto dai ge-nitori, che delle relazioni con i coetanei, compresa l’attività sessuale o eventuali atteggiamenti di ti-po violento, o anche delinquenziale. Questo stesso gruppo di ragazzi era già inserito nel Maryland Adolescent Context Study un progetto nazionale che dal 1991 analizza l’influenza dei contesti sociali sullo sviluppo psicologico e sulla educazione degli adolescenti. Svogliati a scuola Dalla ricerca è emerso che chi aveva genitori molto severi finiva spesso per essere svogliato a scuo-la e col dare spazio soprattutto alle attività con i coetanei. Coloro che in seconda media ricevevano un’educazione rigida, due anni dopo dichiaravano, più spesso degli altri, che la relazione con i loro amici veniva prima di qualunque altra responsabilità, compresa quella di rispettare le regole fami-liari. Intorno ai 16-17 anni, questi stessi ragazzi erano più rischio di attività sessuale precoce (le ra-gazze) o di risse o piccoli furti (i ragazzi). In generale il loro coinvolgimento con il gruppo dei coe-tanei era maggiore: più degli altri consideravano normale trascorrere il tempo con loro invece di fa-re i compiti, o infrangere le regole per conservare gli amici. L’abbandono degli studi A 21 anni, ancora loro, sempre gli stessi, avevano abbandonato il liceo o il college più di quanto non avesse fatto chi era cresciuto con madri e padri meno severi e meno aggressivi. Secondo lo studio una serie di eventi a cascata avrebbero enfatizzato in questi ragazzi la tendenza a compor-tamenti orientati al presente a discapito di quelli che guardano al futuro, più progettuali. E alla fine chi era stato esposto da bambino a una genitorialità autoritaria ha interrotto gli studi prima degli al-tri. I ragazzi coinvolti nella ricerca puntavano ai coetanei per soddisfare bisogni insoddisfatti. “I giova-ni le cui esigenze non vengono soddisfatte dalle figure primarie di attaccamento possono cercare conferme tra i coetanei. Questo può implicare il coinvolgersi in percorsi non sani che possono con-durre a una maggiore aggressività, delinquenza, o a comportamento sessuale precoce a scapito di obiettivi a lungo termine, come è l’istruzione”. I risultati della ricerca statunitense sono condivisi anche dagli esperti italiani che nel lavoro quoti-diano si sono trovati di fronte a situazioni simili. “Questo studio longitudinale conferma su un cam-pione vasto quello che constatiamo a livello individuale e clinico - spiega Anna Oliverio Ferraris, docente di Psicologia dello sviluppo alla Sapienza di Roma. - L’educazione autoritaria, diversamen-te da quella autorevole, evita il rapporto di fiducia, non chiede nemmeno spiegazioni, e punisce l’errore. Ma l’errore fa progredire, non inchioda a un giudizio. L’aggressività umilia chi la subisce, che a seconda del temperamento o finisce per ribellarsi e rifiutare le regole, o per perdere l’autostima. È chiaro che il successo scolastico ne risente, in entrambi i casi”. Cosa è cambiato ri-spetto al passato, quando il modello educativo era molto più rigido? “In passato quando era fre-quente una genitorialità più autoritaria, ci si rivolgeva ad altri adulti, in caso di incomprensioni fa-miliari: erano parenti, zii, genitori di amici. Queste figure oggi non si hanno più a disposizione, so-no meno raggiungibili. È chiaro allora che i coetanei possono assumere un valore maggiore. Il che può andare molto bene. Ma anche male, specialmente in contesti urbani particolarmente complessi”. Secondo uno studio americano, l’alimentazione e lo sport sono fondamentali per un buon rendimento a scuola
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Il segreto per avere buoni voti a scuola? Entusiasmo, curiosità e tanto studio certo, ma anche due semplici trucchi potrebbero aiutare a migliorare il risultato nei temi d’italiano, nei compiti di mate-matica o nelle traduzioni di greco e latino: un’attività fisica regolare e il giusto apporto di ferro nella dieta. Livelli ottimali di questo nutriente nell’organismo, infatti, garantiscono una migliore forma fisica, e possono quindi fare la differenza anche per quanto riguarda il rendimento scolastico. È quanto suggerisce oggi uno studio della University of Nebraska-Lincoln e della Pennsylvania State University.
Il ferro Come spiegano i ricercatori su Journal of Nutrition, le prestazioni cognitive sono associate a fattori nutrizionali e fisici, come appunto le riserve di ferro e la capacità aerobica. Il ferro, infatti, aiuta il nostro organismo a svolgere alcune funzioni essenziali, come per esempio il trasporto di os-sigeno nel sangue: viene assorbito nello stomaco, entra nel sangue, si lega all’emoglobina contenuta nei globuli rossi e si muove attraverso il nostro organismo ossigenando le cellule. Ne consegue quindi, che se non si assume abbastanza ferro, le cellule non si ossigenano in maniera adeguata, ci si sente spesso affaticati, la concentrazione cala e anche il rendimento scolastico può risentirne. Per quanto riguardo l’attività fisica, invece, mantenersi in forma, tenendosi allenati regolarmente, in-fluenza positivamente la salute generale, ma anche le capacità cognitive e l’apprendimento, ricor-dano gli scienziati. Lo studio Per capire se effettivamente ci fosse un legame tra ferro, attività fisica e rendimento scolastico, i ri-cercatori hanno analizzato i dati riguardanti 105 studentesse universitarie, prendendo in esame fatto-ri come l’età, la media dei voti, il livello di forma fisica, i biomarcatori del ferro, i livelli di memo-ria e di concentrazione, la motivazione allo studio e la professione dei genitori. Incrociando i dati, gli scienziati hanno osservato che le ragazze con i più alti livelli di ferro nel sangue erano anche quelle che riuscivano a raggiungere il massimo dei voti. In particolare, quelle più in forma e con li-velli normali di ferro, avevano voti migliori rispetto a quelle che erano invece fuori forma e con ri-serve di ferro inferiori. Più precisamente, la differenza di GPA (Grade-Point Average, ov-vero la media dei voti di uno studente) era di circa 0,34, un valore sufficiente per passare da un voto a un altro. “Migliorare la forma fisica può essere importante per il successo scolastico”, commenta-no gli autori, “Ma certamente dovremmo anche assicurarci che la dieta sia opportuna per prevenire ed evitare carenze nutrizionali”. La dieta Per evitare carenze di ferro, quindi, meglio scegliere alimenti che ne sono ricchi, come carne, pesce, legumi e frutta secca. Ma attenzione a non abusarne: secondo l’Istituto Superiore di Sanità (ISS), alte concentrazioni di questo minerale potrebbero diventare potenzialmente tossiche, provocando gravi danni negli organi in cui si accumula. Meglio tenere bene a mente i valori consigliati: 10 mg al giorno per uomini e anziani e 18 mg al dì per le donne durante tutto il periodo dell’età fertile. “È un vizio ormai comune guardare al ferro e altri nutrienti come le vitamine, considerandoli sostanze a sé stanti, e fare classifiche dei cibi solamente in base alle quantità che vi sono contenute”, avverte comunque il nutrizionista Andrea Ghiselli, presidente della Società Italiana di Scienza dell’Alimentazione (SISA). “Quello che bisogna ricercare sono alimenti ricchi delle sostanze di cui abbiamo bisogno, ma inseriti all’interno di una dieta equilibrata, affidandosi a uno specialista nel caso in cui si abbiano carenze”. Danni da esposizione cronica a nanoparticelle di biossido titanio
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La capacità dell’intestino di assorbire i nutrienti e agire come barriera agli agenti patogeni è “signi-ficativamente diminuita” dall’esposizione cronica a nanoparticelle di biossido di titanio, additivo presente in tantissimi alimenti, come caramelle e gomme da masticare.
Questo composto chimico, spesso indicato in etichetta come E171, si trova un po’ ovunque ed è ri-conosciuto sicuro dalla Food and Drug Administration. Viene utilizzato ad esempio per la pigmentazione bianca in vernici, carta e plastica o nelle creme solari per bloccare i raggi Uva. Ma può entrare nel sistema digerente attraverso dentifrici, cioccolato, zucchero a velo, maionese e so-prattutto caramelle e gomme. Spesso inoltre è presente sotto forma di nanoparticelle, particolarmen-te difficili da smaltire da parte dell’organismo a causa della loro microscopica misura. Per studiare gli effetti di un’esposizione cronica, i ricercatori della Binghamton University, nello Stato di New York, hanno creato un modello intestinale e hanno esposto questa coltura cellulare all’equivalente di un pasto contenente nanoparticelle di ossido di titanio della durata di quattro ore (esposizione acuta) e di tre pasti nell’arco di cinque giorni (esposizione cronica). Si è visto che l’esposizione acuta non ha particolare effetto, ma quella cronica diminuisce l’assorbimento sulla superficie delle cellule intestinali chiamati microvilli, indebolisce la barriera intestinale, rallenta il metabolismo e limita l’assorbimento di alcuni importanti nutrienti, come ferro, zinco e acidi grassi. Gli enzimi, infine, sono risultati compromessi e i segnali di infiammazione aumentati. Migliorano le cure e diminuiscono i danni neurologici
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Sempre più bambini nati prematuri sopravvivono, e senza problemi neurologici, per merito delle migliori cure. Nell’arco di 11 anni infatti la sopravvivenza dei piccoli nati tra la 22/ma e 24/ma settimana è aumentata del 6%, e del 4% la percentuale di quelli che non hanno riportato problemi neurologici. È quanto emerge dai dati di uno studio condotto dalla Duke University su 4274 bambini, pubblicato sul New England Journal of Medicine.
Se tra il 2000 e 2003 sopravviveva circa il 30% dei bambini nati tra 22 e 24 settimane, tra il 2008 e 2011 sono arrivati al 36%, e quelli senza problemi neurologici sono passati dal 16% al 20%. I migliori risultati sono stati osservati per quelli nati tra la 23/ma e 24/ma settimana, mentre alla 22/ma settimana la sopravvivenza è rimasta del 4%. Il merito è di un insieme di cambiamenti apportati alle terapie e alla cultura delle unità di cure intensive neonatali. “Ci siamo concentrati sul prevenire le infezioni - spiega Michael Cotten, uno dei coordinatori dello studio - e ora viene incoraggiato molto di più e supportato l’uso del latte materno rispetto a 15 anni fa”. C’è stato inoltre un calo dei tassi di infezioni nelle unità di cura intensiva neonatali negli ultimi 20 anni, e si pensa anche che il maggior uso di steroidi nelle madri a rischio di parto prematuro abbia aiutato i piccoli a svilupparsi nell’utero, e a migliorare i tassi di sopravvivenza con meno segni di ritardo nello sviluppo. “Sono risultati incoraggianti - commenta Noelle Younge, coordinatrice dello studio - Ma dobbiamo osservare i numeri complessivi, e c’è ancora una larga fetta di prematuri che non riesce a sopravvivere. Solo 1 su 3 ce la fa. E quelli che sopravvivono senza danni significativi all’età di 2 anni sono ancora a rischio per altri problemi di salute”. ![]()
Nei bambini affetti da asma l’uso regolare di corticosteroidi non sembra associarsi a particolari rischi di infezioni. Questa evidenza emerge da una revisione sistematica e da una metanalisi, condotte su 39 studi clinici randomizzati e pubblicate da “Pediatrics”.
Circa due anni fa, in uno studio osservazionale, un gruppo di ricercatori brasiliani ha dimostrato che i bambini con asma che assumono regolarmente corticosteroidi sono sottoposti a un rischio quadruplo di una colonizzazione orofaringea di S. pneumoniae rispetto a quelli che non assumono questi farmaci. Considerando che un aumento della carica batterica nella zona orofaringea può esporre questi bambini a un elevato rischio d’infezioni respiratorie, gli stessi ricercatori, guidati da Linjie Zhang dell’Università Federale del Rio Grande, in Brasile, hanno voluto verificare la sicurezza dei trattamenti con corticosteroidi nei bambini affetti da asma. Hanno così condotto una revisione sistematica e una metanalisi di 39 studi randomizzati per valutare l’associazione tra l’uso regolare di ICS e il rischio di polmonite, o di altre infezioni respiratorie, nei bambini con asma. La metanalisi Si è così evidenziato che in nove studi che hanno riportato il rischio di polmonite, l’uso di ICS ha ridotto il rischio del 35% rispetto al placebo, ma l’esclusione del trial più ampio, ha comportato una differenza non significativa del rischio di polmonite tra l’uso di ICS e il placebo. Anche altri studi non evidenziavano associazioni significative tra l’uso di ICS e il rischio di faringite, otite media, sinusite, bronchite o d’influenza. Considerando, però, una metanalisi di nove studi, l’uso a dosi più elevate di ICS è risultato associato a un rischio significativamente più basso del 37% di otite media. I commenti “L’uso regolare di ICS non può aumentare il rischio di una polmonite o altre infezioni respiratorie nei bambini con asma. Gli ICS mostrano un buon profilo di sicurezza nel trattamento di bambini con asma. Dato che gli ICS sono considerati come la terapia di prima linea per i bambini con asma in tutto il mondo, questi risultati possono rassicurare sull’uso appropriato di questi farmaci nei bambini con asma”. “Ulteriori studi prospettici per esaminare la sicurezza degli ICS nei bambini con asma dovrebbero includere la polmonite e altre infezioni respiratorie, come ben definito dai risultati a priori”. ![]()
I bambini svezzati con pappe fatte in casa imparano ad apprezzare una più ampia varietà di alimenti e successivamente appaiono più magri rispetto ai coetanei che cresciuti a pappe pronte. È quanto suggerisce uno studio condotto negli Stati Uniti e pubblicato dal “International Journal of Obesity”.
I bambini cresciuti a pappe fatte in casa imparano ad avere una dieta più variata e sono più magri, almeno questo è ciò che si evince da uno studio pubblicato sull’International Journal of Obesity. La premessa Precedenti ricerche suggeriscono che gli alimenti per l’infanzia prodotti industrialmente possono contenere elevate quantità di sodio e zucchero e possono avere una consistenza e un aspetto accattivanti che possono compromettere l’accettazione di nuovi alimenti da parte dei bambini. I cibi fatti in casa, al contrario, sono in grado di fornire una gamma più ampia di sapori e consistenze il che potrebbe incoraggiare i bambini col passare del tempo a mangiare una più ampia varietà di alimenti. A proposito di alimenti per la prima infanzia l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) raccomanda l’allattamento al seno esclusivo per i primi sei mesi di vita e quindi consiglia le madri di farsi assistere da personale specializzato durante l’avvio dello svezzamento a base di cibi solidi. Lo studio Elise Mok del Research Institute del McGill University Health Centre e del Montreal Children’s Hospital e colleghi hanno indagato se la fonte di cibo - fatto in casa o prodotto industrialmente - potesse in qualche modo influenzare il peso e la composizione corporea dei bimbi in base al sesso e a all’età. È stato evidenziato che i bambini che mangiano solo cibi fatti in casa avevano diete più variate in precedenza e una percentuale di massa grassa inferiore una volta giunti all’età di 1 e 3 anni. Per questo studio, i ricercatori hanno esaminato i dati relativi alle diete abituali di 65 neonati e le valutazioni di grasso corporeo dagli esami dei bambini effettuati all’età di 6, 9, 12 e 36 mesi. Si è dapprima evidenziato che a 9 mesi di età, 14 neonati (22% dei partecipanti), avevano ricevuto esclusivamente cibo fatto in casa e altri 14 avevano mangiato solo prodotti industriali in commercio. Premesso che la maggior parte dei bambini aveva mangiato un po’ degli uni e degli altri alimenti, è stato osservato che l’alimentazione dei primi mesi di vita non ha determinato evidenti differenze di lunghezza o di peso nel corso del tempo, nei diversi sottogruppi di bambini, e neppure vi erano differenze nelle quote caloriche e nei nutrienti delle porzioni di cibo che i bambini avevano mangiato nel corso del tempo. Tuttavia, quando i ricercatori hanno preso nota delle diete dei neonati in base alla varietà degli alimenti che mangiavano dalle sette diverse categorie esistenti, si è visto che chi era abituato alla “cucina della mamma” raggiungeva punteggi superiori di almeno un’unità, rispetto ai bimbi abituati ai “preparati” da supermercato. Inoltre è stato osservato che, a 1 anno di età, i bambini svezzati con pappe home made avevano una minore percentuale di grasso corporeo rispetto agli altri. I commenti Nonostante lo studio sia di piccole dimensioni Mok e colleghi enfatizzano i loro risultati precisando che potrebbero essere importanti per la prevenzione dell’obesità infantile. “Dato che le preferenze alimentari cominciano presto nella vita, è probabile che persistano e siano difficili da cambiare in età adulta, dunque una corretta scelta alimentare durante il periodo dello svezzamento può facilitare l’accettazione di nuovi cibi e garantire una crescita e uno sviluppo sani”. Dall’antiversione femorale a un’anca debole: le possibili cause del problema
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Non sempre i bambini nascono con i piedi perfetti. A volte le loro piccole dita possono puntare verso l’interno, facendoli apparire storti sin dal momento del primo respiro dei piccoli; altre volte i piedini iniziano a puntare verso l’interno quando il piccolo inizia a camminare, facendolo cadere spesso. Fortunatamente nella maggior parte dei casi nessuno di questi problemi è grave, tanto che per risolverli basta l’intervento precoce del medico dopo la nascita o, addirittura, lasciare che il tempo faccia il suo corso; solo raramente può essere necessario ricorrere ad analisi più approfondite (una radiografia), all’uso di tutori o a interventi chirurgici. Saranno i medici a rassicurare la maggior parte dei genitori sulla risoluzione spontanea della situazione o a indirizzarli verso i trattamenti più adeguati. Ma cosa potrebbe aver generato il problema? Ecco quattro possibili cause.
A usarli di più in Europa sono gli italiani
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Attenzione all’uso e all’abuso di psicofarmaci e sonniferi per i bambini. L’ultimo, ennesimo allarme arriva dall’associazione dei pediatri tedeschi che sottolineano quanto queste medicine possano avere effetti diretti sul cervello, provocare dipendenza oltre a essere causa di attacchi respiratori. E non si parla di casi isolati perché aumentano i genitori che per esempio per rendere più tranquilli o far dormire meglio i propri figli troppo vivaci si servono di questi mezzi non proprio idonei. Accade in tutta Europa e anche nel nostro Paese. Anzi soprattutto, visto che secondo uno studio realizzato qualche tempo fa dall’Istituto di fisiologia clinica del CNR di Pisa ESPAD (European school Survery Project on Alchol and other Drugs) Italia sono proprio i giovani italiani i maggiori consumatori di psicofarmaci non prescritti. Con una media del 10% contro quella europea che si attesta sul 6%.
Questo significa che un adolescente su dieci li utilizza senza la ricetta del proprio medico ma per esempio usa quelli che trova in casa nell’armadietto dei medicinali di famiglia. Oppure li compra on line. Al primo posto per l’appunto i sonniferi, adoperati più dalle femmine che dai maschi. Gli stessi sonniferi che spesso vengono somministrati ai bimbi piccoli dai genitori. Seguiti dai medicinali che garantiscono concentrazione nello studio, quelli per l’umore e anche per far passare il senso di fame. ![]()
Se una mamma è depressione o ansiosa, per il bambino aumentano le probabilità di incappare in un incidente domestico. Questa evidenza emerge da uno studio britannico, che allo stesso tempo ha escluso la correlazione tra stati ansioso-depressivi delle mamme e lesioni gravi nei bambini.
Secondo un recente studio britannico, i bimbi al di sotto dei cinque anni hanno più probabilità di fe-rirsi accidentalmente se le madri soffrono di episodi di depressione o ansia. I ricercatori hanno ri-scontrato che i casi di avvelenamento, piccole fratture e scottature di lieve entità in età infantile au-mentavano in corrispondenza del manifestarsi degli episodi materni. Tuttavia non sono stati eviden-ziati correlazioni con lesioni più gravi, come ustioni di terzo grado o fratture del femore. “Le lesioni sono ancora una delle principali cause prevenibili di decesso nei bambini in età prescolare, ma po-chi studi hanno esaminato se le patologie mentali delle madri influiscono su tale rischio. La mag-gior parte degli studi si sono concentrati sulla sola depressione”. Baker e coll. hanno analizzato i dati di ricovero di oltre 200.000 bambini nati tra il 1998 e il 2013 e li hanno seguiti dalla nascita ai cinque anni. Inoltre, hanno riscontrato episodi di depressione e ansia in tutte le cartelle cliniche compilate durante le cure primarie fornite alle madri, nonché prescrizioni di antidepressivi e farmaci per l’ansia. Il team di ricerca si è concentrato su avvelenamenti, fratture e scottature come le tre lesioni prevenibili più comuni nei bambini piccoli. Ne è emerso che un quarto delle madri aveva avuto uno o più episodi di depressione o ansia e le lesioni non intenzionali dei bambini si concentravano in questi periodi. Sono stati segnalati più di 2600 avvelenamenti, 6000 fratture e 4200 scottature. I bimbi avevano un tasso di avvelenamento più elevato del 52% du-rante gli episodi di depressione materna, 63% più alto durante quelli di ansia e del 230% più elevato durante momenti di depressione con ansia. Analogamente agli avvelenamenti, i tassi di fratture e scottature erano ai massimi livelli durante gli episodi combinati di depressione e ansia. “Un limite dello studio è che i ricercatori si sono focalizzati sui dati di ospedalizzazione e sulle dia-gnosi di malattia mentale. Molte lesioni non vengono segnalate e tante madri probabilmente hanno ansia o depressione, anche se non diagnosticata dai medici - scrivono gli autori dello studio sulla ri-vista Injury Prevention -. Il database britannico usato per lo studio non hanno nemmeno le-gato i dati sanitari dei bambini ai padri o ad altri caregiver”. “Nuovi studi stanno esaminando l’associazione tra salute mentale paterna e lesione del bambino e stiamo riscontrando che un maggior coinvolgimento del padre riduce le lesioni - ha affermato Ta-keo Fujiwara della Tokyo Medical and Dental University in Giappone, non coinvolto nello studio -. Per prevenire le lesioni in età infantile, dobbiamo prenderci cura delle madri e di altri caregiver in termini di salute mentale. Pochi studi si concentrano su come aiutare realmente i nostri caregiver”. |
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