Febbraio 2017 - Volume XX - numero 2

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a cura di Maria Valentina Abate
Clinica Pediatrica, IRCCS Materno-Infantile "Burlo Garofolo", Trieste
Indirizzo per corrispondenza: valentina_aba@yahoo.it





Tumori: ogni anno nel mondo si ammalano 250mila bimbi, il 70% guarisce

Ogni anno in tutto il mondo circa 250.000 bambini si ammalano di tumore. In Italia sono 1600 le diagnosi tra i bimbi fino ai 14 anni e in tutto 1000 quelle che riguardano gli adolescenti, dai 15 ai 19 anni. Grazie ai passi avanti dell’oncologia pediatrica e della ricerca scientifica oggi il 70% di questi tumori infantili guarisce e si sale all’80-90% nel caso di leucemie e linfomi.
Nonostante questo, le neoplasie rappresentano ancora la prima causa di morte per malattia nei più piccoli. Per sostenere le cure nell’oncologia pediatrica e l’informazione e divulgazione scientifica, dal 2014 la Fondazione Umberto Veronesi ha avviato il progetto Gold for Kids, progetto che è possibile sostenere che fino al 31 marzo 2017 donando 2 o 5 euro con SMS o chiamata da rete fissa al numero 45540. Si può così contribuire a garantire ai bambini malati di tumore le cure più efficaci, migliorare la qualità di vita e aumentare la probabilità di successo delle terapie.
Il ricavato contribuirà in particolare a finanziare un protocollo di cura per sarcomi ossei e dei tessuti molli recidivati. Fra le promettenti strategie terapeutiche per i sarcomi ossei e dei tessuti molli recidivati e che non rispondono alle cure convenzionali, vi è l’utilizzo della terapia cellulare che sfrutta i meccanismi immunologici del paziente. Il protocollo di cura, che coinvolgerà 15 giovani pazienti all’anno per 2 anni, studierà la sicurezza dell’utilizzo di questo approccio nei pazienti pediatrici, che al momento hanno meno del 50% di probabilità di sopravvivenza.
Sostenere la ricerca scientifica sarà inoltre possibile sabato 25 e domenica 26 marzo 2017, quando 700 volontari saranno nelle piazze di tutta Italia per la prima edizione di “Coloriamo la ricerca”. L’iniziativa vedrà la distribuzione di confezioni di dodici matite colorate a fronte di una donazione minima di 10 euro.



Antibiotici. Uso inappropriato una volta su due
Focus OCSE: in medicina generale prescrizioni inadeguate con punte fino al 90%

Non sempre prendere un farmaco può far bene alla salute. Anzi, stando agli ultimi dati dell’OCSE, se si tratta di antibiotico, potrebbe essere dannoso o inutile nel 50% dei casi. Le percentuali di prescrizioni inappropriate variano a seconda degli specialisti. Ultimi in classifica i medici di medicina generale.

Che sia una pillola, una polvere da sciogliere in acqua o un’iniezione, non c’è differenza. Se si tratta di antibiotico, una volta su due, non ci aiuterà a stare meglio. Lo dice l’OCSE: il suo ultimo studio evidenzia come nel 50% dei casi l’uso di questa tipologia di farmaci sia inappropriato o inutile. Il dato diventa ancora più allarmante, con picchi del 90% di prescrizioni inadeguate, quando nel mirino degli studiosi ci finiscono i medici di famiglia. Sono loro, i dottori di medicina generale, i professionisti che secondo l’OCSE prescrivono, più spesso, e nel modo più inadeguato, questi particolari medicinali. L’OCSE evidenzia che l’inappropriatezza per la medicina generale va da un minimo del 45% fino a picchi del 90%.

I rischi: cure inefficaci e resistenza agli antibiotici
Un abuso, dunque, che fa emergere due diverse problematiche, entrambe da non sottovalutare: da un lato ci sono i malati che prendono medicine non adatte alla propria patologia, dall’altro c’è un’intera popolazione che, negli anni, sta aumentando la resistenza agli antibiotici. Il rischio è serio: per alcune malattie, in futuro, potrebbero non esserci più le cure adeguate di cui disponiamo attualmente.
La situazione fotografata dall’OCSE non è omogenea in tutti le branche della Sanità. Ci sono specialisti che sembrano fare un uso più accorto degli antibiotici, e altri meno.
Ma vediamo nel dettaglio che cosa dice lo studio.

I numeri dello studio OCSE
L’uso più oculato di questa tipologia specifica di medicinali è stato riscontrato tra i servizi di dialisi dove l’inappropriatezza varia tra il 12 e il 37%. A seguire, ci sono i medici dei più piccoli: le prescrizioni dei pediatri risultano inadeguate tra il 4% ma con punte che sfiorano i 47 punti. Va peggio nei reparti di terapia intensiva, dove l’inappropriatezza varia tra il 14% ma può arrivare anche al 60%. Spostandosi da questo reparto verso gli ambulatori, lo stesso rischio aumenta: da un dato minimo del 10% si arriva anche a indici di inappropriatezza del 70%. Più in generale, negli ospedali si va da un livello minimo del 14% a un picco del 79. Penultimi nella classifica, prima dei medici di medicina generale, ci sono gli specialisti che lavorano nei luoghi di lungodegenza: si oscilla da un minimo del 21% di prescrizioni inutili a un massimo del 73.

I rimedi contro le prescrizioni inutili
Secondo l’OCSE, un consumo di antibiotici più razionale potrà essere ottenuto soltanto con interventi che mirino a modificare il comportamento delle singole persone. Medici e pazienti devono essere educati alla gestione e all’uso appropriato di questi particolari medicinali. Eppure, prima ancora di avviare una campagna di comunicazione, ci sarebbe una soluzione più facile da realizzare e soprattutto immediata. Ecco cosa suggerisce l’OCSE: rendere obbligatorio l’uso di test diagnostici rapidi. Individuato il bersaglio, per i medici non ci sarebbero dubbi sull’antibiotico adeguato da prescrivere. E chi teme che questi test possono gravare sulla spesa sanitaria, niente paura, il numero di antibiotici prescritti calerebbe al punto tale che il costo di questi esami potrebbe essere del tutto ammortizzato.



I medici trascorrono troppo tempo lavorando al computer

Il computer, pur necessario a tutte le attività assistenziali, “ruba” ai pazienti il 45% del tempo lavorativo dei medici. Alla comunicazione medico-paziente rimane un misero 2%. È quanto emerge da uno studio condotto presso l’ospedale universitario di Losanna in Svizzera.

Medici e computer, un rapporto controverso. Per indagarlo Nathalie Wenger e colleghi, ricercatori presso l’Ospedale Universitario di Losanna, hanno osservato 36 medici durante il loro periodo di formazione presso un ospedale in Svizzera e hanno condotto un ricerca retrospettiva, che ha abbracciato un periodo di 50 anni.

Le evidenze
I ricercatori hanno rilevato che i medici hanno trascorso una media di 1,7 ore per turno con i pazienti; 5,2 ore davanti al computer e hanno impiegato 13 minuti per svolgere le due attività contemporaneamente. Il team di ricercatori ha osservato i medici residenti della zona per un totale di circa 698 ore. I turni duravano mediamente 11.6 ore, cioè 1,6 ore più del previsto.
Gli osservatori registravano le attività dei medici durante i turni ospedalieri, classificandole in 22 categorie di lavoro diverse, come l’assistenza diretta o indiretta del paziente, la comunicazione, il tempo di studio e il lavoro non pertinente alle cure dei pazienti. Si è così evidenziato che durante i turni di giorno i medici hanno trascorso circa il 52% del loro tempo in attività indirettamente correlate ai pazienti, come la compilazione della cartella clinica, o collaborando con i colleghi, o alla ricerca di informazioni necessarie per il trattamento dei pazienti e per smistare e trasferire i pazienti in altri reparti di cure.
Inoltre, i medici hanno trascorso solo circa il 28% del tempo dei loro turni diurni per l’assistenza diretta del paziente, compresi gli esami clinici e le procedure mediche e le riunioni con i colleghi per rivedere i piani dei turni. Hanno trascorso solo il 2% circa del loro tempo a comunicare con i pazienti e le famiglie e circa il 6% nell’insegnamento, nell’attività di aggiornamento e in quelle di ricerca. Complessivamente, durante i turni di lavoro, i medici hanno trascorso circa il 45% del tempo lavorativo davanti al computer.



Due adolescenti su 10 con mal di schiena, solo 7% dal medico

Il mal di schiena lombare colpisce quasi due adolescenti su dieci, ma solo il sette per cento si rivolge al medico. A descrivere il problema è una revisione della letteratura pubblicata dal Journal of American Medical Association Pediatrics (JAMA Pediatria) .
Secondo gli esperti dell’Ospedale per bambini Nationwide Sports Medicine, in Ohio, il dolore lombare interessa l’uno per cento dei bambini all’età di 7 anni, il 6 per cento all’età di 10 anni e il 18% da 14 a 16 anni. La maggior parte delle cause sono benigne, tuttavia l’effetto può condizionare la frequenza scolastica o delle attività sportive ed è un fattore di rischio che predispone al mal di schiena nell’adulto. Non esiste un unico fattore di rischio: per i bambini in età scolare, la maggior parte dei casi deriva da uno sforzo eccessivo o un trauma muscolo-scheletrico; negli adolescenti da un eccessivo o da un troppo carente esercizio fisico. Altri possibili fattori di rischio sono un’accelerazione della crescita, fattori psicosociali, un precedente infortunio o predisposizione familiare. “Alcuni mal di schiena devono esser trattati da uno specialista, ma nella maggior parte dei casi un pediatra con buone conoscenze può aiutare a gestire il dolore”, spiega James P. MacDonald, autore principale dello revisione e medico sportivo per bambini. “In genere il dolore senza causa specifica migliora con riposo e riabilitazione”, ma “una valutazione approfondita può aiutare a escludere una condizione più grave”. Tra i consigli, aumentare gradualmente l’intensità degli sforzi fisici e non esagerare con le ore di sport rispetto a quanto consigliato per la propria età.



Regno Unito. Bambini sempre più poveri e malati

È quanto emerge dalla relazione del Royal College of Paediatrics and Child Health nella quale si sottolinea come la povertà sia la causa di molti problemi di salute dei più piccoli. Ci sono ampie evidenze nei determinanti di salute che provano che i giovani del Regno Unito hanno un basso livello di benessere rispetto ad altri Paesi europei comparabili.

La relazione approfondita, del Royal College of Paediatrics and Child Health, del 27 gennaio 2017, ha sottolineato che la povertà è alla radice di molti problemi di salute del bambino. Il rapporto ha esaminato 25 indicatori di salute, tra cui l’asma, il diabete e l’epilessia, così come l’obesità, l’allattamento al seno e la mortalità, per fornire un’istantanea della salute dei bambini e il benessere. Sebbene ci siano stati enormi miglioramenti nella salute dei bambini nel Regno Unito negli ultimi 100 anni, a partire dalla metà degli anni 1990 però “c’è stato un rallentamento del progresso”.
Questo ha lasciato il Regno Unito in ritardo rispetto ad altre nazioni europee in una serie di classifiche. Ad esempio, nel 2016 il Regno Unito ha avuto un più alto tasso di mortalità infantile (del 3,9 per 1000 nati vivi) rispetto ai Paesi dell’Europa occidentale. La mortalità infantile varia da 3,6 a 3,9 in Scozia, in Inghilterra e Galles, fino al 4,8 in Irlanda del Nord. I tassi delle donne fumatrici durante la gravidanza - un fattore importante per la salute dei bambini - sono più alti nel Regno Unito che in molti Paesi europei, al 11,4% in Inghilterra e quasi il 15% in Scozia. I livelli di fumo erano più alti nelle popolazioni svantaggiate e nelle madri sotto i 20 anni.
Inoltre, più di uno su cinque bambini che iniziano la scuola primaria in Inghilterra, Galles e Scozia sono in sovrappeso o obesi, e non vi è stato nessun piccolo miglioramento nel corso degli ultimi 10 anni. L’obesità porta a un significativo aumento del rischio di gravi problemi di salute per tutta la vita, tra cui il diabete di tipo 2, malattie cardiache e il cancro.



Tatuaggi e piercing. Il 30% dei giovani europei è tatuato
Ecco i consigli dei medici del “Bambino Gesù” di Roma

Sono tanti i rischi ai quali ci si può esporre in caso di mancato rispetto di cautele e norme igieniche elementari: allergie, infezioni batteriche sulla pelle e virus dell’epatite B e C. Dagli esperti dell’IRCC Pediatrico “Bambino Gesù” di Roma raccomandazioni e consigli utili su come evitare i rischi, comportamenti da attuare e anche sulle tecniche più efficaci per eliminarli.

Infezioni batteriche sulla pelle che possono anche entrare nel sangue e coinvolgere il cuore. Virus dell’epatite B e C e, in misura minore, anche il virus dell’Aids. Allergie e formazione di cicatrici o di cheloidi.
Sono questi i rischi che si possono nascondere dietro tatuaggi e piercing se non si rispettano cautele e norme igieniche elementari. Possibili rischi che giovani e adolescenti, ma non solo, non devono ignorare. Per questo gli esperti dell’IRCC Pediatrico “Bambino Gesù” di Roma (OPBG), in uno speciale di “A scuola di salute” (consultabile sul sito on line dell’ospedale), hanno voluto fornire informazioni e raccomandazioni a genitori e insegnanti che possono trovarsi nelle condizioni di non saper dare le giuste risposte a questa moda che ormai coinvolge circa il 30% dei giovani europei.

I possibili rischi
Dietro tatuaggi e piercing, rilevano gli esperti, si possono trasmettere infatti infezioni batteriche sulla pelle, che a volte possono entrare nel sangue e coinvolgere perfino il cuore. Si possono trasmettere anche i virus dell’epatite B e C e, in misura minore, anche il virus dell’AIDS. Anche gli inchiostri utilizzati per il tatuaggio e i metalli per il piercing possono rappresentare un problema. Per esempio l’henné nero, ottenuto attraverso un composto molto pericoloso come la parafenilendiamina (PPD), può provocare allergie temibili.
Il piercing inoltre, sottolineano gli esperti, può causare, oltre alle infezioni acute, anche infiammazione cronica che può favorire infezioni ricorrenti. La formazione di cicatrici o di cheloidi (lesioni cicatriziali, di dimensioni abnormi e sfiguranti) è un rischio concreto sia del tatuaggio che del piercing.
Pensiamo che, come emerso da una ricerca condotta dall’Università di Tor Vergata su 2500 studenti liceali coinvolti con questionario anonimo, il 24% di essi ha avuto complicanze infettive; solo il 17% ha firmato un consenso informato; e uno scarno 54% è sicuro della sterilità degli strumenti che sono stati utilizzati.

Come ridurre i rischi?
Dagli esperti arrivano alcune indicazioni. In primis suggeriscono di controllare l’ambiente dove vengono fatti tatuaggi e piercing: “L’ambiente deve avere le stesse caratteristiche igieniche dello studio del dentista - sottolineano gli esperti - il professionista lavarsi accuratamente le mani e indossare un paio di guanti sterili (aperti di fronte a voi!). Aghi e tubi devono essere usa e getta oppure sterilizzati in autoclave, quindi in confezione sigillata, aperta di fronte a voi. L’inchiostro poi deve essere nuovo (non riutilizzato rimboccando la bottiglia)”. E se qualcosa non va o non convince “meglio salutare e cercare un professionista serio: ce ne sono molti”.

Cosa non fare dopo un tatuaggio
A tatuaggio completato, ricordano gli esperti, è necessario evitare il nuoto e i bagni con acqua calda o comunque prolungati per almeno qualche settimana. Per quanto riguarda il piercing invece è necessario curare con grande attenzione la ferita fino a cicatrizzazione completa. Durante questo periodo di alcune settimane vanno praticati lavaggi e disinfezioni almeno tre volte al giorno. Piercing e tatuaggi, ricorda poi l’OPBG, sono particolarmente pericolosi, quindi controindicati, nei portatori di vizi valvolari cardiaci, negli affetti da immunodeficit o patologie croniche, a chi assume farmaci antiaggreganti come l’aspirina, immunosoppressori o anticoagulanti, nei ragazzi con cheloidi e nelle donne in gravidanza.

Come eliminarli
La tecnica che dà oggi i risultati migliori, nelle mani di un dermatologo esperto, è il laser che tuttavia può non essere in grado di rimuovere tutto il tatuaggio e può causare la formazione di croste che talvolta esitano in cicatrici permanenti (oltre a essere molto costoso).
Altre tecniche come la dermoabrasione, l’asportazione chirurgica, talvolta con autotrapianto di pelle, la criochirurgia possono venir prese in considerazione da un dermatologo esperto ma spesso danno risultati meno soddisfacenti della tecnica laser e causano problemi estetici analoghi.



Nefrologia. Individuata causa genetica della sindrome di DiGeorge con lesioni renali

Lo studio multicentrico internazionale pubblicato sul “New England Journal of Medicine” pone le basi per la diagnostica molecolare delle sindromi rene-encefalo. L’Istituto Gaslini di Genova è il punto di riferimento europeo per la diagnosi molecolare e la cura personalizzata.

Il gene CRKL è il principale responsabile della comparsa di malformazioni congenite del rene e delle vie urinarie osservate nei pazienti affetti da sindrome di DiGeorge: è quanto è emerso dallo studio multicentrico internazionale pubblicato sul New England Journal of Medicine a gennaio 2017. Lo studio, condotto da Simone Sanna-Cherchi della Columbia University di New York, ha visto la partecipazione di molte Unità italiane di Nefrologia, coordinate dall’Istituto Giannina Gaslini di Genova (dottor Gian Marco Ghiggeri) per la parte pediatrica e dalle Università di Brescia (professor Francesco Scolari) e Università di Bari (professor Loreto Gesualdo) per gli adulti.
“Le malformazioni renali congenite rappresentano un problema diffuso e invalidante: nell’insieme sono il 30% delle anomalie congenite riscontrate pre- e post-nascita. La sindrome di DiGeorge: è la sindrome da alterazione cromosomica più comune nell’uomo, nota da oltre 60 anni; colpisce un bambino su 4000 e si associa a malformazioni a carico di vari organi, fra cui cuore, sistema nervoso e rene. Spesso i sintomi sono di bassa entità e la malattia non viene riconosciuta impedendo la prevenzione delle manifestazioni tardive della malattia a carico di altri organi. La sindrome di DiGeorge rene-cervello è causata da modifiche cromosomiche di nuova descrizione (anche note come copy number variation) che possono coinvolgere più geni e che richiedono per l’analisi tecnologie particolari, descritte nello studio” spiega Francesco Scolari dell’Università di Brescia.
“I ricercatori hanno identificato il ruolo causale prevalente del gene CRKL, studiando un’ampia casistica di 2600 soggetti con malformazioni congenite del rene e delle vie urinarie (congenital anomalies of kidney and urinary tract - CAKUT). L’arruolamento dei pazienti è stato fatto in due continenti, ma l’Italia ha avuto un ruolo predominante per numero (50% dei pazienti, 30% dall’Istituto Gaslini) e per aver partecipato con il dottor Simone Sanna-Cherchi (formatosi dieci anni fra Università di Parma e Istituto Gaslini) alla partenza del programma, nato appunto al Gaslini nella sua prima parte. Lo studio genetico-molecolare si è avvalso di tecnologie avanzate (analisi genome-wide delle copy number variation, sequenziamento dell’intero esoma mediante next generation sequencing, unitamene a studi funzionali in modelli animali). Lo studio internazionale pubblicato dal New England ha definitivamente dimostrato il ruolo fondamentale del gene CRKL nello sviluppo della sindrome di DiGeorge” spiega Gian Marco Ghiggeri direttore della UOC Nefrologia dell’Istituto Gaslini e coordinatore italiano dello studio.
“Il lavoro rappresenta un importante passo in avanti per la comprensione delle basi genetiche delle malformazioni congenite renali che colpiscono non solo i pazienti affetti da sindrome di DiGeorge ma anche il resto della popolazione” afferma Simone Sanna-Cherchi della Columbia University.
“È affascinante come, studiando un’ampia coorte di individui con anomalie congenite renali, abbiamo svelato la causa della malattia renale della sindrome di DiGeorge. In parallelo, si è chiarito che, come osservato nella sindrome di DiGeorge, molte delle malformazioni renali di frequente osservazione presentano anche danni cerebrali e sono causate da modifiche cromosomiche simili a carico di altre zone del DNA. Studi attualmente in corso e stimolati dalla attuale scoperta, potranno ampliare le conoscenze sullo sviluppo normale e patologico del tratto urinario e fare luce sul nuovo concetto di asse rene-encefalo” aggiunge Ghiggeri.
“Questo importante studio è stato reso possibile tramite una ampia collaborazione internazionale, con un ruolo decisivo della Nefrologia Italiana e dell’Istituto Gaslini per la parte clinica, che è stata determinante nel reclutare e caratterizzare una così estesa casistica di pazienti affetti da patologia malformativa. Da adesso in poi sarà possibile espandere la diagnostica mirata alle malformazioni renali ed encefaliche utilizzando metodi di genetica molecolare quale quello qui descritto, in parallelo a una diagnostica per immagini realizzata grazie alla Risonanza Magnetica Tre Tesla, da poco attivata presso il nostro Istituto. La diagnosi è ovviamente essenziale per poter poi attuare terapie più efficaci” commenta Alberto Martini, direttore scientifico dell’Istituto Gaslini.
“Il nostro lavoro ha implicazioni immediate per la pratica clinica - ribadisce Francesco Scolari dell’Università di Brescia - perché fornisce elementi decisivi per la definizione della diagnosi eziologica della malattia”. L’attualità è la possibilità di una diagnosi precoce di sindrome rene-encefalo tale da permetterne un ridotto impatto clinico. Sono stati attivati presso Centri di alta specialità protocolli diagnostici che usano le tecniche qui descritte”.



Psicologia. Il bullismo condiziona per anni il rendimento scolastico

Le vittime di bullismo, oltre a soffrire le conseguenze psicologiche, vedono peggiorare il proprio rendimento scolastico. È quanto emerge da uno studio americano che ha seguito quasi 400 ragazzi dalle scuole moderne al liceo.

Il bullismo a scuola non solo influisce sulla vita emotiva e sociale delle vittime, ma ne condiziona anche il rendimento scolastico. Quando terminano le azioni di bullismo nei loro confronti - soprattutto se avvengono durante i primi anni di scuola - i ragazzi migliorano nel rendimento scolastico e acquisiscono maggiore autostima. Questa evidenza emerge da uno studio americano che ha seguito quasi 400 bambini dalla scuola materna al liceo.

Lo studio
Ladd e colleghi, dell’Arizona State University di Tempe, hanno seguito 383 bambini - quasi equamente divisi tra maschi e femmine - dalla scuola materna fino al liceo. Con indagini regolari, i ricercatori hanno misurato il grado e la frequenza delle vittimizzazione tra pari che i bambini hanno sperimentato - tra cui il bullismo fisico, verbale e relazionale - così come la percezione della performance scolastica e il livello di impegno scolastico. Hanno anche valutato gli insegnanti per misurare il rendimento scolastico.
Sulla base di questi dati, il team ha classificato la vittimizzazione in cinque tipi in base a quando è iniziata, a quando si è conclusa e all’intensità che ha avuto. Alcuni bambini non sono mai stati (o lo sono stati raramente) vittima di bullismo, alcuni sono stati perseguitati nei loro primi anni di scuola, ma non nei successivi, mentre altri ancora sono sempre stati vittime del bullismo.

I risultati
Nella scuola dell’infanzia, il 21% dei bambini ha avuto esperienza di vittimizzazione grave e un altro 38% ha sperimentato un livello moderato di bullismo. Queste proporzioni sono diminuite costantemente nel corso degli anni, fino all’ultimo anno di liceo, quando meno dell’1% è stato vittima di un attacco grave e poco meno dell’11% è stato moderatamente bullizzato. Tuttavia, nel corso degli anni, il 24% dei bambini è stato classificato nella categoria della vittimizzazione cronica. Questi sono stati anche quelli con maggiori probabilità di avere uno scarso rendimento scolastico (soprattutto in matematica) e una cattiva percezione accademica si sé. Tra i cinque gruppi Ladd e colleghi hanno notato che le vittime nei primi anni della scuola di solito sono riusciti ad affrancarsi dal bullismo nel tempo.



La bambina-albero e la malattia della pelle che le deturpa il volto

Una ragazzina di dieci anni potrebbe essere il primo caso femminile di epidermodisplasia verruciforme, una condizione rarissima che porta alla formazione di escrescenze, spesso invalidanti, nota come la “sindrome dell’uomo albero”.

Sahana è una bambina di dieci anni del Bangladesh e potrebbe essere il primo caso femminile documentato di epidermodisplasia verruciforme, una rara malattia genetica meglio conosciuta con il nome della sindrome dell’uomo albero.

La malattia
L’epidermodisplasia verruciforme è una dermatosi ereditaria recessiva, anche se l’esatta eziogenesi della malattia è sconosciuta: alcune forme infatti sono legate al cromosoma X, altre sembrerebbero autosomiche dominanti, ovvero basta un solo gene mutato perché la malattia si manifesti. La malattia è caratterizzata da un’anormale suscettibilità alle infezioni di alcuni tipi di papilloma virus umano (HPV), ubiquitari e normalmente innocui per la popolazione, ed è associata a rischio di carcinoma della pelle. Si manifesta sulla pelle, con la crescita di escrescenze anomale, simili a verruche, placche irregolari marrone-rossastre, lesioni seborroiche, che solitamente compaiono già in giovane età, prima dei vent’anni, probabilmente per un difetto a livello del sistema immunitario dovuto a mutazioni genetiche.

La prima volta in una donna
Sahana ha cominciato ad avere queste protuberanze simili alla corteccia di un albero solo qualche mese fa. Protuberanze che all’inizio non avevano preoccupato molto il padre di Sahana, fin quando non hanno cominciato a diffondersi sul viso della figlia: nel mento, sulle orecchie, sul naso. Tanto che il padre ha portato Sahana al Dhaka Medical College and Hospital (DMCH) dove i medici che hanno preso in carico il caso credono si tratti appunto di epidermodisplasia verruciforme. La diagnosi, infatti, non è ancora del tutto certa. Se lo fosse saremmo di fronte al primo caso scoperto in una bambina.

I casi
Quello di Sahana potrebbe aggiungersi ai pochissimi noti a oggi: si stima infatti che se ne conoscano solo altri quattro al mondo (tutti uomini), 200 si stima da quando la malattia è stata scoperta, nel 1922, alcuni dei quali con protuberanze enormi, soprattutto sulle mani e sui piedi, così grandi da essere invalidanti, impedendo a chi ne soffre anche solo di poter usare le proprie mani. Come accaduto a Abul Bajandar, sempre dal Bangladesh, che aveva protuberanze che pesavano fino a 5 kg, riporta la BBC. Fino a poco fa: Abul infatti è stato sottoposto a 16 interventi chirurgici, sempre all’ospedale di Dhaka, per eliminare le protuberanze, e grazie alle operazioni al momento ha parzialmente recuperato l’uso delle mani, riuscendo ad accarezzare moglie e figlio. Meno fortunato il caso di Dede Koswara, l’indonesiano protagonista di un documentario che fece conoscere al mondo la sua storia e la malattia dal nome impronunciabile, sottoposto a diversi interventi chirurgici per rimuovere le lesioni, morto un anno fa in seguito a complicazioni della malattia. La speranza ora è che Sahana abbia una forma meno aggressiva di Abul della malattia, come sembrerebbe, e che possa avere una prognosi migliore.




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