Ai bimbi con l'otite servono 10 giorni antibiotici, non "tagli"
Dimezzare la terapia aumenta il rischio di fallimenti
Per i bimbi che hanno un'infezione all'orecchio è fondamentale completare la terapia antibiotica per tutti i giorni prescritti perché "tagliarla" non porta benefici ma aumenta il rischio di una guarigione non completa.
Lo afferma un test clinico della University of Pittsburgh School of Medicine pubblicato dal New England Journal of Medicine.
Lo studio è stato condotto su 520 bambini tra nove e 23 mesi di età con otite acuta media, a metà dei quali è stato assegnato il normale ciclo di amoxicillina e clavulanato da dieci giorni.
Gli altri hanno ricevuto il farmaco per 5 giorni, e un placebo per i restanti. Il rischio di fallimento della terapia è risultato del 34% nei bimbi con cura breve, più del doppio che nell'altro gruppo (16%). Una analisi dei batteri presenti nel naso ha rivelato la stessa percentuale di batteri resistenti nei due gruppi, e anche le segnalazioni di effetti avversi, dalla diarrea all'arrossamento da pannolino, sono state le stesse. La ricerca ha anche mostrato che un bambino su due che ha del fluido residuo nelle orecchie dopo il trattamento ha poi un ritorno dell'infezione, una percentuale molto superiore a quella nei bambini che hanno l'orecchio 'pulito'. "Date le preoccupazioni sull'utilizzo eccessivo degli antibiotici e sulla resistenza abbiamo condotto il test per verificare se la riduzione della durata del trattamento potesse dare benefici - spiega Alejandro Hoberman, l'Autore principale -, ma il risultato mostra chiaramente che una durata minore non offre nessun vantaggio".
Sistema immunitario fuori controllo anche nei piccoli
In aumento le diagnosi di malattie infiammatorie immuno-mediate nei bambini
Le malattie infiammatorie immuno-mediate (IMID), come psoriasi, morbo di Crohn e artrite, non colpiscono solo i grandi. Sempre più spesso capita, infatti, che a ricevere l'inaspettata diagnosi siano dei bambini, con tutta una serie di ricadute negative sulla qualità di vita e le relazioni dei piccoli pazienti e delle loro famiglie. Lo sottolinea una recente indagine condotta analizzando circa 1500 conversazioni online su blog, forum dedicati e social network.
L'analisi
I genitori che si confrontano tra loro sul web, quasi sempre senza la supervisione di un medico, parlano di tutto. Uno su cinque è preoccupato dell'impatto che queste malattie potrebbero avere sulla qualità di vita del proprio figlio, due su tre sono alla ricerca di informazioni sulla patologia, sul suo decorso clinico, sui farmaci e sui Centri di cura specializzati. Una conversazione su tre è dedicata allo scambio di consigli pratici basati sull'esperienza diretta delle singole famiglie. I temi sono molti, si va dallo sport alla scuola, dall'alimentazione allo stile di vita in generale. La buona notizia è che imparare a conoscere le malattie infiammatorie immuno-mediate e a gestirle con il supporto di équipe multidisciplinari può davvero fare la differenza. Per fortuna in Italia non mancano Centri pediatrici di eccellenza, anche se dovrebbero essere più numerosi e diffusi in modo più capillare. Lo fanno notare le Associazioni di pazienti, che mettono in evidenza anche un altro punto dolente: le reti virtuose di specialisti che ruotano intorno ai bambini e ai ragazzi con queste malattie non sono merito del nostro Sistema sanitario, ma dei singoli esperti, consci del fatto che per curare al meglio questi pazienti sia indispensabile creare delle sinergie e delle collaborazioni.
Le malattie infiammatorie immuno-mediate
"Il minimo comune denominatore di malattie immuno-mediate come psoriasi, malattie infiammatorie croniche intestinali e artrite, all'apparenza così diverse tra loro, è la presenza di uno stato infiammatorio cronico, di cui non conosciamo ancora le cause, ma del quale stiamo imparando a conoscere i meccanismi, grazie a una ricerca scientifica molto attiva", spiega Rolando Cimaz, direttore della Reumatologia Pediatrica dell'Ospedale "Meyer" di Firenze. Per esempio è ormai evidente che in chi soffre di queste malattie si assiste a una produzione esagerata di molecole che accendono e mantengono l'infiammazione, tra cui numerose citochine (TNF-alfa, varie interleuchine ecc).
Artrite idiopatica giovanile
Che le malattie infiammatorie immuno-mediate siano in aumento tra i bambini italiani non c'è dubbio. "Di sicuro abbiamo imparato a diagnosticarle meglio e prima, a tutto vantaggio di una migliore gestione - fa notare Pierluigi Meroni, direttore delle Divisione di Reumatologia dell'Istituto Ortopedico "Gaetano Pini" di Milano -. In particolare nel caso dell'artrite idiopatica giovanile, intervenire per tempo è fondamentale per evitare ulteriori complicazioni. Questa è tra le malattie croniche più frequenti in età pediatrica. Si stima infatti che colpisca da 50 a 90 bambini ogni 100mila". "Con le terapie attualmente disponibili i bambini e i ragazzi affetti possono condurre una vita relativamente normale, anche se devono seguire le prescrizioni mediche, effettuare controlli periodici e avere uno stile di vita regolare. I ragazzi vanno incoraggiati a fare quello che fanno i loro coetanei: sport, scuola e viaggi", puntualizza Cimaz.
Psoriasi
"Circa il 35% dei casi di psoriasi insorge in età pediatrica e purtroppo nel bambino interessa molto più spesso, rispetto all'adulto, le zone esposte, specie il volto. È quindi facile immaginare come in questa fascia di età, anche nelle forme meno gravi, possa avere un impatto psicologico importante, sia sui piccoli sia sulle loro famiglie, che talvolta arrivano a isolarsi e a evitare la vita sociale e il confronto con gli altri", segnala Iria Neri, responsabile dell'Ambulatorio di Dermatologia Pediatrica e di Malattie Rare del Policlinico "Sant'Orsola-Malpighi" di Bologna.
Malattie infiammatorie croniche intestinali
"L'incidenza delle malattie infiammatorie croniche intestinali, quali colite ulcerosa e morbo di Crohn, è pressoché raddoppiata nell'ultimo decennio - riferisce Arrigo Barabino, direttore dell'UOC di Gastroenterologia Pediatrica dell'Istituto Gaslini di Genova -. Si calcolano 8 casi pediatrici ogni 100 mila colpiti. La colite ulcerosa in media insorge verso i 10 anni, mentre la malattia di Crohn verso i 12 anni. Non mancano tuttavia casi in cui fanno la loro comparsa nei primi anni di vita. E se la colite ulcerosa è in genere più facile da riconoscere per la caratteristica diarrea, la malattia di Crohn può essere più subdola. La triade di sintomi classici è data da diarrea, calo di peso e dolore addominale, ma ci possono essere casi in cui l'unico segnale è un ritardo nella crescita".
I bambini bevono troppo poco, il primo decalogo sull'idratazione dei più piccoli
La preoccupazione principale è quanto e che cosa mangiano. Mai quanto bevono. Eppure l'idratazione è importante quanto la nutrizione. Soprattutto nei bambini, che - come gli anziani - non sentono mai il bisogno di bere e chiedono l'acqua quando hanno davvero sete, e sono già un po' disidratati. L'acqua è in realtà un nutriente vero e proprio, tanto che la SIPPS, la Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale, ha stilato un decalogo su idratazione e bambini - il primo - e lo ha presentato stamattina a Roma, con una ricerca GfK, nel corso del convegno "Bere bene per crescere bene" promosso da FEMTEC (Federazione Mondiale del Termalismo e della Climatoterapia), con il supporto incondizionato di Sanpellegrino. E non è un caso che l'acqua sia ormai alla base di tutte le piramidi alimentari, da quella mediterranea, per arrivare a quella francese, che ha la forma di una barca a vela in cui i nutrienti, che costituiscono lo scafo, sono immersi completamente nell'acqua.
La ricerca. Ma di acqua, e di consumo di acqua in particolare, non si sa moltissimo. E la ricerca Gfk parte da un assunto: i genitori sanno poco su quanta acqua debbano bere i bambini, ritengono l'idratazione dei propri figli importante per la loro salute (uno su due), insieme al sonno (59%) e all'attività fisica (50%). Ma alla fatidica domanda del quanto bere, zoppicano. Il 20% circa crede che il loro fabbisogno sia meno di un litro al giorno, il 15 dichiara di non conoscerlo.
Le necessità. In realtà le necessità crescono con l'età: nei neonati allattati al seno il fabbisogno è soddisfatto; dai sei mesi ai tre anni è di 0,6-0,9 litri al giorno, che sale a circa 1,1 litri in età scolare, che, per capirci, si traduce in almeno 8 bicchieri d'acqua al giorno da 150 ml (un bicchiere medio). In adolescenza il fabbisogno aumenta ancora fino ad arrivare a 1,5 - 2 litri in adolescenza. E, in caso facciano sport, bisogna bere immediatamente prima, durante l'attività sportiva, soprattutto se si fa agonismo, e soprattutto reidratare dopo".
Il test della pipì. Secondo la ricerca, però, il 58% dei bambini beve meno di un litro di acqua al giorno. "Il meccanismo della sete ha una risposta ritardata e interviene quando la perdita di acqua è già abbondante e anzi si è già a livelli di disidratazione. Questo bambino avrà cefalea e, se fa sport, sintomi più importanti. Per questo bisognerebbe insegnare ai bambini che bere acqua è importante, dare l'esempio, magari comprare dei bicchieri carini, con cannucce divertenti, o fare dei ghiaccioli con l'acqua. Infine insegnare il test della pipì. Se è scura bisogna bere, se invece è chiara allora è tutto a posto".
Quanta. Quantità e tipologia a parte, l'acqua è una componente fondamentale per il nostro organismo ed è fondamentale per la vita: rappresenta gran parte del nostro peso corporeo (dal 70% del neonato al 55-60% dell'adulto), è parte fondamentale dei muscoli, degli organi interni, cervello in primis, e persino dello scheletro. Ne perdiamo continuamente, circa il 15% il bambino e 3-4 l'adulto, con urine, feci, sudore, persino respirando. E dobbiamo quindi reintegrarla, tale e quale, e ricordando che anche alcuni alimenti, frutta e verdura in particolare, ne sono ricchi. Poco noti anche i benefici dell'acqua: alcuni sono intuibili, come la depurazione e il benessere generale dell'intestino. Sconosciuti altri, come i benefici sulla concentrazione (dal 69% del campione) o sul mal di testa (56%).
Che cosa. Idratazione vuol dire acqua, essenzialmente, soprattutto nei bambini. E con le percentuali di sovrappeso e obesità che ci caratterizzano dovrebbe valere anche per gli adulti. Niente soft drink, o altre bevande dolci o zuccherate, o che contengono caffeina. L'acqua ha zero calorie, e imparare fin da piccoli a berla fa parte delle buone abitudini che ci si porta appresso da adulti. Bere poco - secondo molti studi - è associato a un indice di massa corporea maggiore - ovvero i bambini sono più ciccioni - e a un rischio maggiore di sviluppare obesità.
I luoghi comuni. Sono tanti quelli legati all'acqua. "Di sciocchezze se ne dicono tante - racconta Laura Rossi, del Centro di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione - che l'acqua fa ingrassare, che bisogna bere lontano dai pasti, e quelle povere di sodio. In realtà tutte le acqua sono povere di sodio, quindi non c'è alcun bisogno di selezionarle. E anzi, va benissimo l'acqua di rubinetto. Infine sono da preferire le acqua calciche, perché contengono calcio, come quello del latte. E non fanno venire i calcoli, che si formano per vie metaboliche diverse, non per il calcio dell'acqua".
È italiana la nuova cura che guarisce bimbi da "fegato grasso"
Studio di ricercatori dell'Ospedale "Bambino Gesù" di Roma
È italiana la nuova terapia in grado di sconfiggere il fegato grasso nei bambini, una malattia che può portare a gravi conseguenze come la cirrosi e che colpisce il 15% dei bimbi nel nostro Paese. A metterla a punto i medici dell'Ospedale Pediatrico "Bambino Gesù" di Roma, dimostrando la sua efficacia per la prima volta con una sperimentazione clinica condotta su 43 piccoli pazienti con fegato grasso associato a deficit di vitamina D. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista scientifica PlosOne.
Fino a oggi non esisteva una terapia valida per la forma più severa di fegato grasso, caratterizzata da infiammazione e danni epatici - come la fibrosi - che possono portare alla cirrosi. La nuova cura consiste nella somministrazione per 6 mesi di una miscela di acido docosaesaenoico (DHA) e vitamina D. Tra le cause della malattia vi è l'obesità: l'aumento del numero dei bambini con sovrappeso e obesità nei Paesi industrializzati ha portato al parallelo aumento di casi di fegato grasso (o steatosi). Negli ultimi vent'anni, infatti, la steatosi ha raggiunto proporzioni epidemiche anche tra i più piccoli e in Italia si stima che ne sia affetto circa il 15% dei bambini, ma si arriva fino all'80% tra i bambini obesi.
Trentasei nuovi farmaci destinati al bambini nel 2016, ma il 95% è ancora off-label
Farmaci per la cura dell'HIV, anticorpi monoclonali per l'emofilia, prodotti per le piastrinopenie autoimmuni, ben 4 molecole per i tumori pediatrici e sei prodotti orfani per la cura di patologie rare. Sono le nuove molecole, 36 in tutto, registrate dall'Agenzia Europea del Farmaco e messe in distribuzione nel corso di quest'anno. È la prima volta che si registra un aumento significativo di molecole ad hoc per l'età evolutiva: il 2016 è una buona annata per i farmaci pediatrici innovativi.
"Cominciamo a vedere gli effetti del Regolamento Pediatrico Europeo - commenta il dato Paolo Rossi, ordinario di Pediatria a Roma Tor Vergata e direttore del Dipartimento Pediatrico Universitario-Ospedaliero del "Bambino Gesù" di Roma, a latere di un incontro organizzato da TEDDY (Task-force in Europe for Drug Development for the Young), il network pediatrico europeo nato per promuovere la ricerca in farmacologia pediatrica, e da INCiPiT, il network italiano per gli studi clinici pediatrici nato invece solo da qualche mese e che oggi, in questa occasione, vede la sua ufficializzazione".
Fino all'80% delle medicine è off-label. Il Regolamento Europeo sui Medicinali a uso pediatrico è entrato in vigore 10 anni fa, nel gennaio 2007, per agevolare lo sviluppo e l'accessibilità di farmaci destinati ai bambini. Per esempio imponendo alle industrie farmaceutiche di avviare studi clinici pediatrici qualora una molecola in sperimentazione dimostrasse effetti terapeutici anche per l'età evolutiva. Nonostante la norma, però, ancora oggi solo un terzo dei farmaci disponibili per gli adulti arriva al paziente pediatrico, e con anni di ritardo. E l'uso di farmaci off-label, cioè senza autorizzazione per la patologia o per la classe di età (e quindi senza studi clinici ad hoc per bambini), ancora oggi supera il 50-80%.
Un processo complicato. "Avviare studi clinici in fascia pediatrica è un processo complesso. Perché è costoso, perché è difficile il reclutamento dei pazienti: i bambini sono pochi e molto eterogenei. Inoltre è mancata un'infrastruttura pediatrica, una rete, che consentisse e favorisse la ricerca farmacologica per questa fascia d'età: non abbiamo avuto fino a oggi una cultura della sperimentazione pediatrica, non abbiamo creato eccellenze. Ora stiamo lavorando proprio a questo".
Nell'ambito di GRiP (Global Research in Pediatrics), il progetto finanziato dalla Commissione Europea con il Settimo Programma Quadro, è stata avviata una joint venture, come la definisce Rossi, tra TEDDY e il network nazionale INCiPiT, "che è coordinato dal "Bambino Gesù" di Roma e comprende 24 strutture ospedaliere italiane, Centri oggi non ancora tutti di eccellenza nella capacità di fare sperimentazione pediatrica. Ma che lo diventino è il nostro obiettivo per i prossimi anni. Vogliamo garantire al nostro Paese un ruolo importante nella ricerca farmacologica in Pediatria".
Dolore, qualcuno aiuti i bambini
I pediatri non se ne occupano. E si limitano perlopiù a farmaci quasi mai risolutivi. Ma le tecniche per abbassare la sensibilità di una zona e portarli a sopportare ci sono. Dalla lettura alla visualizzazione alla respirazione al gioco. È questo uno degli argomenti che sono stati trattati su "RSalute" di novembre 2016.
I bambini provano dolore, ma si continua a sottovalutarlo. Viene misurato solo in un piccolo ogni quattro, nonostante le facili scale a disposizione dei pediatri. Pianti e lacrime spettano agli ansiosi genitori. Starli ad ascoltare è faticoso, ci vuole tempo e i pediatri hanno sempre così tanto da fare... Capire l'importanza del dolore e le sue conseguenze nel bambino, misurarlo e contrastarlo, dovrebbe invece far parte della formazione di tutti i medici, tanto più se pediatri.
Matilde soffre di artrite giovanile, malattia cronica che le fa sentire dolore a gomiti, caviglie, ginocchia. Non sopporta l'idea che i farmaci che le danno da anni non siano in grado di eliminarli; se la prende con i medici, a parer suo incapaci di guarirla. Difficile per lei accettare che non da tutto si può guarire, ma come spiegarlo a Matilde e, soprattutto, cosa fare di meglio che usare nuovi, costosissimi, farmaci biologici? Forse giocare con lei, provando a ricucire la fiducia perduta? Un lavoro da psicologa, dicono, scrollando le spalle. Non è così: i bimbi vogliono il loro dottore, solo quello che li cura, non altri.
I neonati sentono un dolore intenso e non possono far altro che piangere. Mancano loro sistemi di inibizione e perfino la visita medica diventa dolorosa, se fatta dopo una puntura. Invece si continua a far loro prelievi, senza misurarne il dolore. Perché stiamo attenti al termometro, allarmandoci per 37,5 °C, ma non misuriamo mai il dolore? Ci sono le scale, validate e facili da usare, ma nessun genitore le conosce né i pediatri le insegnano. Matilde ha imparato ad usare la scala numerica e indica l'intensità di dolore che prova, scegliendo il numero corrispondente da 0 a 10. Prima non sapeva leggere i numeri e usava la scala con le faccine, non di rado arrivando a quella con le lacrime agli occhi.
Misurando il dolore diventa più facile intervenire e non solo con i farmaci. La respirazione, un viaggio mentale nel luogo preferito, la lettura, il racconto di storie, le bolle di sapone o tecniche di desensibilizzazione, come il guanto magico e il gioco dell'interruttore. Si possono usare per abbassare la sensibilità di una determinata zona corporea, ma i pediatri ne ignorano l'esistenza e i genitori chiedono sciroppi, gocce e supposte con un fai da te sui dosaggi, non raramente inefficace. La tecnica complementare ai farmaci dipende dall'età del bambino, dalla malattia, dal tipo di dolore. Nel neonato massaggi e carezze attutiscono la trasmissione del dolore a livello centrale, lÕuso di sostanze dolci, il contenimento, sono tecniche utilizzate da anni, ma perché restano confinate a pochi, tenaci professionisti e non si diffondono rapidamente? Le ragioni sono culturali. Una miscela, i cui maggiori componenti sono due.
L'autoreferenzialità di una Pediatria all'antica, che resiste nel tempo e da sempre trascura pianti e lacrime. Ricordo bene che i bambini della cardiochirurgia del Gaslini, quarant'anni fa, venivano legati al letto, in assenza della madre, per assurde ragioni igieniche sino a che, sfiniti, si addormentavano dopo ore di pianto. Ai neonati prematuri venivano eseguiti prelievi senza anestesia e si procedeva perfino alla piccola chirurgia senza anestetici, convinti che l'immaturità del cervello garantisse mancanza di dolore e di memoria dello stesso. Nulla di scientificamente più sbagliato. Cinismo? Qui la seconda causa del nefasto mix. Nel 1980 io stesso facevo le punture lombari a bambini bloccati da infermiere robuste, senza alcuna anestesia. Prevaleva, e ancora prevale, un generale convincimento che i bambini piangano perché ciò fa parte della loro fanciullezza.
Alessandro era un bambino di 9 anni. Quando, all'ennesima ricaduta di leucemia, gli dissero che doveva tornare in camera sterile per un altro trapianto, affermò con decisione: "Se mi riportate là, non mangio più". E così fece. Erano gli anni '90 e nessuno faceva nulla per le cure palliative pediatriche domiciliari, salvo due pionieri: Franca Benini e Momcilo Jankovich. Poi partì la Fondazione Maruzza e finalmente si cominciò a fare sul serio, sino alla legge votata in Parlamento. Ma gli obblighi sulla carta sono tanto chiari quanto disattesi e oggi, per evitare ai bambini il dolore nella quotidiana banalità di prelievi e punture, bisogna aver la fortuna di trovare un pediatra sensibile e, soprattutto, capace.
(di Paolo Cornaglia Ferraris)
Lingua a carta geografica nei bambini, ecco i rimedi
La glossite benigna migratoria (o eritema migrante), altrimenti nota come lingua a carta geografica, è un fenomeno del tutto innocuo che interessa alcuni bambini, solitamente al di sotto dei 6 ani di età. Accade, così, che sulla lingua compaiano una serie di macchie di varia forma e dimensione di colore grigiastro o rosso le quali, però, non sono statiche: tendono a cambiare aspetto e posizione nel corso dei giorni.
Prima di qualsiasi allarmismo, c'è da precisare come la lingua a carta geografica non sia il sintomo di una malattia o la manifestazione di una qualunque patologia. Sulle sue origini vi è parecchia incertezza. C'è, così, chi asserisce sia di natura genetica chi, invece, legata all'azione di batteri e virus.
Niente preoccupazioni, dunque, ma la raccomandazione di contattare il medico nel caso in cui alle macchie siano associate delle lesioni che non scompaiano nel giro di una settimana.
Non è prevista alcuna cura: la glossite benigna migratoria passa generalmente in maniera autonoma senza il ricorso ad alcun farmaco. Tuttavia, alcuni cibi caratterizzati da un sapore particolarmente deciso potrebbero provocare un fastidio locale: evitate, magari, di far mangiare ai piccoli alimenti a base di agrumi o troppo speziati (nonostante non dovrebbero consumarne a prescindere).
Abbinate una corretta igiene orale e vedrete che nel giro di qualche giorno scomparirà senza lasciare traccia, anche se è bene sapere che può ripresentarsi in futuro.
Bambini: se le mamme fumano in gravidanza, maggiori rischi per i reni
Uno studio condotto in Giappone ha preso in considerazione i dati relativi a oltre 44mila bambini. I ricercatori hanno rilevato una correlazione positiva tra l'abitudine al fumo delle donne in gravidanza e l'incidenza di problemi renali, come la proteinuria all'età di tre anni, che compare nel 24% dei figli delle donne fumatrici.
Le donne che fumano durante la gravidanza hanno maggiori probabilità di dare alla luce bambini con danni renali rispetto alle gestanti non fumatrici. Questo dato emerge da uno studio condotto in Giappone e pubblicato dal Clinical Journal of the American Society of Nephrology.
"Il fumo in gravidanza è stato legato per lungo tempo a nascite pretermine e bambini sottopeso, nonché a un'ampia gamma di difetti alla nascita. Questo studio offre evidenze aggiornate circa il fatto che i reni sono tra gli organi a maggior rischio di danni - ha commentato Maki Shinzawa, ricercatrice di Salute Pubblica all'Università di Kyoto in Giappone, Autrice principale dello studio - Il fumo di sigaretta rilascia nicotina e altre sostanze dannose o potenzialmente tali, come ossido nitrico, policarbonato e monossido di carbonio, alcune delle quali attraversano la placenta e possono influire sulla programmazione fetale dei reni durante la gravidanza".
Lo studio
Shinzawa e colleghi hanno analizzato i dati di 44.595 bambini. L'esito di interesse era la presenza di proteinuria all'età di tre anni definita come proteina urinaria >/= 1+. I dati sul fumo materno sono stati raccolti durante i controlli prenatali delle madri e i ricercatori hanno avuto a disposizione le cartelle compilate durante i check-up dei bimbi a quattro, nove, 18 e 36 mesi di età. Nel complesso, il 79% delle donne ha dichiarato di non aver mai fumato e un altro 4% di aver smesso durante la gravidanza. Circa il 17% ha detto di aver continuato anche durante i nove mesi. Il rischio assoluto di proteinuria tra i bambini era basso, ma essa era il 24% più probabile nei bambini nati da madri che avevano fumato durante la gravidanza. La frequenza di proteinuria infantile era dell'1,7% nei piccoli nati da fumatrici, dell'1,6% in quelli nati da ex fumatrici e dell'1,3% in quelli le cui madri non avevano mai fumato. I bimbi esposti a fumo passivo a casa sembravano avere anche un maggior rischio di proteinuria rispetto a quelli che non vivevano con fumatori, ma la differenza non era abbastanza grande per escludere la possibilità che fosse una casualità.
Troppi "errori" nelle pubblicità delle culle, bimbi a rischio
Fotografati in posizioni sbagliate o con oggetti nel lettino
Le pubblicità di culle e lettini per neonati troppo spesso mostrano i bebè in posizioni non sicure, o con oggetti che possono favorire il soffocamento. Lo afferma uno studio Usa pubblicato dalla rivista Pediatrics. Per lo studio sono state analizzate quasi 1800 inserzioni pubblicitarie su riviste nel 1992, 2010 e 2015.
Nonostante notevoli miglioramenti nel tempo, sottolineano gli Autori dell'università dell'Alabama, anche in anni recenti il 34% non segue le comuni linee guida, secondo cui per ridurre il rischio di morte improvvisa i bambini devono dormire sulla schiena senza nessun oggetto nel lettino, dal cuscino al paracolpi.
Proprio la presenza di quest'ultimo è l'errore più comune, presente nel 70% delle inserzioni "sbagliate", seguita dalla presenza di biancheria da letto "libera", nel 56%. Il 40% delle pubblicità errate invece mostrava il bimbo che dormiva sulla pancia, un tasso che aumenta se quello raffigurato è di una minoranza etnica.
"L'impatto di queste pubblicità è uno dei fattori che continua a far usare i paracolpi o gli animaletti di peluche nei lettini - scrivono gli Autori -. I genitori sono esposti molto di più alle pubblicità rispetto al tempo passato dal pediatra".
La risonanza magnetica in utero svela i problemi al cervello del feto
Secondo studio su Lancet andrebbe offerta di routine alle donne
Effettuare una risonanza magnetica sul feto durante la gravidanza può aiutare a individuarne eventuali difetti nello sviluppo cerebrale. È quanto evidenzia uno studio pubblicato su Lancet e realizzato da ricercatori dell'Università di Sheffield, che sottolineano come questo esame diagnostico "andrebbe offerto di routine".
Le anomalie cerebrali si verificano in tre gravidanze ogni 1000 e in alcuni casi possono causare aborto spontaneo o parto prematuro. Le ecografie a ultrasuoni sono utilizzate di prassi per controllare che il bambino stia crescendo in modo corretto e per individuare eventuali anomalie nel cervello. Tuttavia lo studio, condotto su 570 donne in 16 Centri nel Regno Unito, ha mostrato che è possibile fare una diagnosi molto più dettagliata utilizzando anche la risonanza magnetica fetale, ovvero una tecnica basata su campi magnetici e onde radio. Ne è emerso, infatti, che l'ecografia ha dato una corretta diagnosi nel 68% dei casi. Ma, combinandola con una risonanza magnetica effettuata dopo la 20a settimana di gestazione, la precisione arrivava al 93%, cosa particolarmente utile soprattutto nei casi borderline, in cui i medici erano incerti del risultato.
Il numero di donne in gravidanza che hanno avuto una diagnosi "incerta" è stato più che dimezzato con la risonanze magnetica fetale, aumentando in loro la consapevolezza sulla salute del feto. Per questo, circa il 95% delle donne ha riferito di ritenere utile l'esame aggiuntivo effettuato. "È giusto - secondo Cara Mooney, una delle Autrici dello studio - garantire alle donne in gravidanza di avere le informazioni corrette, nel momento in cui può attenderle un evento traumatico". Una diagnosi accurata di significative anomalie cerebrali, infatti, potrebbe avere implicazioni anche sulla decisione di proseguire la gravidanza. "Sulla base dei nostri risultati, proponiamo che una risonanza magnetica dovrebbe essere offerta in qualsiasi gravidanza in cui il feto possa avere una anomalia cerebrale sospetta", commenta l'altro Autore della ricerca.
Farmaci a uso pediatrico. Il Parlamento UE chiede modifiche al regolamento. "Ancora troppi ostacoli all'innovazione"
Votata una risoluzione che impegna la Commissione Europea a esaminare la possibilità di apportare modifiche, anche attraverso una revisione legislativa della normativa. "Valutare come i diversi tipi di finanziamenti e premi possano essere meglio utilizzati per guidare e accelerare lo sviluppo di farmaci pediatrici negli ambiti in cui ve ne è maggiore bisogno, in particolare farmaci per la neonatologia e i tumori infantili".
Il Parlamento Europeo invita la Commissione UE a esaminare la possibilità di apportare modifiche al regolamento sui medicinali per uso pediatrico. È stata approvata infatti una risoluzione in cui i deputati chiedono alla Commissione di "presentare in tempo debito la relazione di cui all'articolo 50 del Regolamento sui Medicinali Pediatrici" anche perché c'è "la necessità che la relazione individui in modo completo e analizzi nel dettaglio gli ostacoli che attualmente si frappongono all'innovazione nel settore dei medicinali per uso pediatrico".
Il Parlamento per questo esorta la Commissione a esaminare la possibilità di apportare modifiche, anche attraverso una revisione legislativa del regolamento sui medicinali pediatrici, che tengano nella dovuta considerazione:
a) piani di sviluppo pediatrico basati sul meccanismo di azione e non solo sul tipo di malattia;
b) modelli di definizione delle priorità farmacologiche e in materia di malattie, che tengano conto delle esigenze pediatriche insoddisfatte e della fattibilità;
c) piani d'indagine pediatrica più tempestivi e più realizzabili;
d) incentivi che stimolino maggiormente la ricerca e rispondano più efficacemente alle esigenze pediatriche, garantendo nel contempo una valutazione dei costi di ricerca e sviluppo e la piena trasparenza dei risultati clinici;
e) strategie per evitare l'uso off-label quando esistono medicinali pediatrici autorizzati.
Nella risoluzione il Parlamento ravvisa anche "la necessità di stabilire priorità per quanto riguarda le esigenze pediatriche e i farmaci provenienti da diverse Società, sulla base di dati scientifici, al fine di abbinare le migliori terapie disponibili alle esigenze terapeutiche dei bambini, in particolare quelli affetti da cancro, il che permetterebbe di ottimizzare le risorse utilizzate per la ricerca". E poi chiede le sperimentazioni dei "medicinali pediatrici non vengano interrotte prematuramente a causa di risultati insoddisfacenti sulla popolazione bersaglio adulta".
Infine si sottolinea "l'urgente necessità di valutare come i diversi tipi di finanziamenti e premi - compresi i numerosi strumenti basati su meccanismi di scorporo - possano essere meglio utilizzati per guidare e accelerare lo sviluppo di farmaci pediatrici negli ambiti in cui ve ne è maggiore bisogno, in particolare farmaci per la neonatologia e i tumori infantili, soprattutto i tumori che colpiscono solo in età pediatrica".
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