Marzo 2009 - Volume XII - numero 3
M&B Pagine Elettroniche
Casi indimenticabili
I
meriti degli altri
Clinica
Pediatrica, IRCCS “Burlo Garofolo”, Trieste
Non
si dovrebbe andare ai funerali dei pazienti. Si è comunque
fuori posto. Ho gia provato questa sensazione in un'altra
occasione, ma questa volta è ancora più nitida. È
una giornata sorda, grigia e fredda; la cappella del cimitero non
lascia nessuno spazio a divagazioni, uno stanzone di cemento in
una specie di complesso industriale della morte con altre 5-6
cappelle simili affiancate dove vari gruppi di persone seguono le
rispettive cerimonie. Il dolore dei genitori è quello di
sempre, lo conosco già, ma ogni volta che ci sono di
fronte resto attonito, ti prende lo stomaco, qualcosa di
smisurato e profondamente viscerale, si sente che gli è
stato proprio strappato qualcosa, che stanno così male da
chiedere quasi al corpo di fermarsi. Che senso ha essere qua?
Quale logica può avere una qualsiasi forma di
testimonianza o di vicinanza di fronte a una cosa così? A
cosa servi? Forse dai pure fastidio, al limite di un'ostentazione
in buona fede: ci abbiamo provato, non siamo riusciti a curarla,
vostra figlia è morta ed eccoci perfino qui, fino
all'estremo della nostra inutilità. Non siamo parenti,
non siamo amici.
La
storia era iniziata due anni prima, periodo di lavoro proprio
difficile, unico medico di reparto per alcuni mesi, pur sempre
affiancato dal professore e da una specializzanda abbastanza
eccezionale per capacità e dedizione, selezionata come
aiutante. Il reparto era in ristrutturazione, soprannominato
“Kabul”, con albergaggio realmente disastroso, da terzo
mondo, con lavori, rumori, polvere tutto intorno. Periodo
difficile anche per la mia sostanziale inadeguatezza, sono
arrivato in questo posto da poco, prima facevo un lavoro molto
più semplice, casi mediamente normali, mi sono arrugginito
per 4 anni studiando solo per la seconda specialità, in
anestesia. Qui è tutto più complesso, bambini più
gravi, patologie più rare, anche il personale è più
scorbutico. Per la prima volta nella mia vita professionale penso
davvero di non essere adeguato, non so abbastanza, c'è
troppa routine per riuscire a trovare il tempo per studiare
quanto servirebbe. Il turnover dei pazienti, pur nella loro
complessità, è strabiliante, siamo una specie di
“frullatore” in cui arrivano il lunedì e martedì
un tot di bambini che dopo alcuni “giri” (sangue, radiologia,
endoscopie, ricerca su Pubmed, discussione e programma
terapeutico) vengono “sputati fuori” in 2-3 giorni con una
componente di frenesia da tempi compressi (l'ospedale,
giustamente, fa male), ansia da prestazione intellettuale,
assunzione di qualche rischio calcolato. Semplicemente non sono
così bravo e completo da potere essere così veloce
senza stress e senza errori, mi sogno i pazienti la notte, mi
porto i problemi a casa, stresso chi mi sta vicino.
Su
questo passa giornalmente il professore. Sa molto di più,
è anche più esperto, passa e “butta lì”
le cose con non chalance e mi sta anche un po' sul culo il
fatto che 9 volte su 10 ha ragione. È come la canzone di
Ligabue “una vita da mediano”, quelli bravi e brillanti fanno
i goal (lui), chi ha i piedi un po' così (io) sta in
mezzo al campo, corre e porta palla, non segnerai mai, ma alla
fin fine sei comunque utile.
La
bambina viene trasferita dalla Pediatria di un ospedale vicino
per una mononucleosi strana, ha due anni, la febbre che dura da
un paio di settimane, epatosplenomegalia, laboratorio di
epatopatia con indici di flogosi elevati (VES più che
PCR), citopenia moderata, sierologia positiva per EBV. Si vede
che sta male, i genitori sono due ragazzi giovani, della
minoranza slovena, un po' chiusi, molto composti ma anche
angosciati e preoccupati, pur nella loro misura. Forse la gente
“sente” le cose a pelle, una specie di premonizione, o più
semplicemente ha la misura più del medico di quanto il
bambino possa stare tanto male da essere così diverso dal
solito. Sembra facile, un midollo per escludere una leucemia, tra
l'altro faccio io la sedazione al volo così almeno mi
sento utile, e passa la paura. Il professore passa a volo radente
in reparto, butta l'occhio e dice “escludi anche una
emofagocitosi, mi raccomando, parla con l'oncologo che legge il
vetrino”. L'emofagocitosi non è precisamente uno dei
miei cavalli di battaglia, onestamente non ci ho pensato, ho
visto un caso e letto qualcosa dieci anni fa e non ricordo circa
nulla, mentalmente penso che possa essere la volta su dieci in
cui si sbaglia (ogni tanto per fortuna succede). Parlo con
l'oncologo e vado a leggere di che si tratta. Il midollo è
letto come al solito in tempo reale.
Non
leucemia, una sola cellula in atteggiamento eritrofagocitico nega
emofagocitosi. Mi consolo, forse non era così terribile da
non sapere. Parlo con i genitori, dare belle notizie è la
parte divertente del lavoro, si è creata in questi giorni
una buona comunicazione, ci capiamo. Il professore è
perplesso, non crede all'oncologo, ma se posso dargli torto è
ancora più divertente, per cui mi faccio forza
dell'autorevolezza dello specialista e decidiamo che per ora un
tanto basta. La bambina tra l'altro si sfebbra, e quindi viene
dimessa. Sono un medico normale, non ho doti o difetti di
rilievo, sono veloce intellettualmente, ma non profondo. Però
ho sviluppato negli anni una specie di istinto (o banalmente la
percezione di qualche pensiero che nella mia superficialità
archivio senza sviluppare), sento se qualcosa non va, se i conti
non tornano mi resta una inquietudine di fondo, come in questo
caso. Dopo neanche 3 giorni il papà mi chiama, la piccola
sta male, ha di nuovo febbre, rientra in reparto. È
davvero sofferente, febbrile, citopenia in peggioramento,
epatosplenomegalia peggiorata e, fatto nuovo, una compromissione
del sensorio in progressione. Aveva ragione lui anche questa
volta. Ferritina e trigliceridi sono stellari, il fibrinogeno
molto basso, ripete un midollo: emofagocitosi certa, con
interessamento del SNC.
È
dura da dire. Sono passati altri giorni, di parole, speranze,
paure, un po' di tempo speso con questa famiglia. Il bello di
questo mestiere è che, se non puoi essere un grande
medico, puoi sempre restare un essere umano passabile. Andiamo
insieme a riparlare con i genitori, lui parla e loro guardano
negli occhi me, la diagnosi l'ha fatta lui, ma per loro il loro
medico sono io. Spiega che si dovrebbe trattare di una forma
post-infettiva e pertanto a prognosi assolutamente buona. Sa
benissimo che il 10% di questi casi sono fatali, ma non serve
dirlo adesso, li spaventeresti per niente, è giusto così.
A domanda precisa del padre conferma con un blando giro di parole
che è proprio così, questi bambini vanno sempre
bene. Dopo qualche ora mi cercano i genitori, non sono
tranquilli, come è lecito, cercano di capire, rifanno
domande. Non sono capace di mentire; è stupido, infantile
e vigliacco in certi casi, ma è così. Tra l'altro
abbiamo davvero un buon dialogo, è facile capirsi, a
questi la verità forse va detta. Ci guardiamo negli occhi
e gli dico quello che c'è scritto sui libri, qualcuno va
male, anche malissimo. È quello che succede. Tra l'altro
l'EBV era uno spettatore innocente, verrà fuori dopo che
era una forma genetica, una nuova mutazione. La bambina passa
attraverso un trapianto di midollo, viene seguita in oncologia,
la vedo occasionalmente per le sedazioni, con i genitori resta
una componente di empatia. Il trapianto non funziona, a un paio
di anni dalla diagnosi la bambina muore.
Al
funerale siamo in tre: io, la specializzanda di allora e
l'oncologo. Non sono riuscito ad avvicinarmi alla madre, non ce
l'ho fatta, troppo dolore, troppa gente, mi sembrava di violare
un'intimità. Ho stretto la mano al padre in lacrime. La
cerimonia è finita, ci avviamo tutti e tre muti verso
l'uscita, mi stringo nel giubbotto, come da piccolo, mi dà
un'idea di abbraccio e di contenimento. Dispiaciuto da morire
per questi genitori, frustrato, inutile, dispossente. Almeno sono
vicino a due belle persone. Alle mie spalle sento una voce che
chiama “dottore” e il mio cognome, mi volto e la madre mi
raggiunge, mi abbraccia e mi dice “grazie, lei ci ha regalato
due anni di vita della bambina”. Mi sorride e va via.
So
che non è vero. Non ho fatto niente. Non ho fatto io la
diagnosi, non ho seguito io il trapianto di midollo, non ho
allungato alcunché. E adesso la signora pensa addirittura
di dirmi qualcosa.
Però
sto davvero meno male. Viviamo tutti di parole e gesti definiti,
e anche di illusioni.
Ho
deciso, non importa se non è vero, va bene così.
In
fondo lo diceva anche la canzone, “una vita da mediano, stai
sempre in mezzo al campo finché ce n'hai, e anche se non
segni qualche volta finisci come Oriali, capita che vinci pure i
mondiali”.
Per
quello che mi riguarda ho vinto il mio mondiale. Razionalmente è
solo un'illusione che galleggia in un mare di dolore altrui, ma
io mi sento così.
Bisogna
solo che prima o poi mi ricordi di passare un abbraccio a chi se
lo era meritato davvero.
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