LE INCERTE SORTI DEL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE

Le incerte sorti del Servizio Sanitario Nazionale
giovedì, 1 Maggio 2008, ore 12:00
“Il tuo nuovo Servizio Sanitario Nazionale inizia il 5 luglio 1948. Esso ti fornirà tutti i servizi medici, odontoiatrici e infermieristici. Ognuno - ricco o povero, donna o bambino – lo può usare. Non ci sono pagamenti da fare, se non per qualche prestazione speciale. Non ci sono iscrizioni da fare all’assicurazione. Ma non è una forma di carità. Tutti noi stiamo già pagando per questo, soprattutto attraverso le tasse.” (Dal volantino che annunciava ai cittadini inglesi la nascita del National Health Service)


Questo numero ospita, nella rubrica “Oltre lo Specchio”, la lectio magistralis tenuta da Giovanni Berlinguer in occasione dell’inaugurazione della nuova sede del Ministero della Salute, avvenuta a Roma lo scorso marzo. La lectio ripercorre la storia del nostro Sistema Sanitario Nazionale (SSN), a partire dai principi e dagli esempi ispiratori. La si pubblica perché, come si diceva un tempo, è importante sapere da dove veniamo, conoscere una storia che è ignota ai più e forse è stata dimenticata da altri. Ma soprattutto perché il futuro del nostro SSN è incerto. Più che nei suoi principi istitutivi, che pochi si azzardano a contestare, il SSN è messo in discussione in quanto realtà unitaria nazionale da una serie di atti e di politiche da parte delle Regioni, che stanno facendo sì che si stiano configurando cinque, sei, sette sistemi diversi. Vuoi per scelte consapevoli, a volte di segno opposto, vuoi per l’assenza di scelte e per l’influenza esercitata da gruppi di potere, alcuni dei quali addirittura legati alla criminalità organizzata.
Ma le ombre sul futuro del SSN italiano non vengono tanto dalla diaspora regionalista - che potrebbe in qualche misura anche costituire elemento di sperimentazione utile – quanto da mutamenti irreversibili, e non esclusivi del nostro Paese, nella domanda e nell’offerta di salute. Che si possono ricondurre a tre ordini di fattori: invecchiamento, sviluppo tecnologico, estensione dei bisogni percepiti. Il primo fattore aumenta la proporzione della popolazione bisognosa di cure mediche, il secondo il costo di queste cure, il terzo la richiesta di queste cure (anche a prescindere dal bisogno reale) e, corollario inevitabile, anche i contenziosi legali. Ai mutamenti della domanda e dell’offerta si aggiungono, nel nostro Paese, sia pure in misura molto differenziata tra Regione e Regione, una robusta dose di clientelismo e di malgoverno, e una perdurante difficoltà di troppi professionisti a una pratica indipendente dall’influenza dell’Industria. Lasciata a se stessa, la situazione non può che evolvere verso costi crescenti (e benefici sempre più marginali per la popolazione). A tutto questo - a meno di un aumento della quota del bilancio dedicata alla salute, che sottrarrebbe però risorse a investimenti ancora più importanti nel proteggere la salute, la coesione sociale e la sicurezza collettiva - si può trovare risposta solo in una limitazione dei servizi offerti gratuitamente.
Esistono, semplificando, due modalità principali secondo cui questa limitazione può essere operata. Una prima modalità è quella, purtroppo la più diffusa, del cambiamento surrettizio. Questo scenario prevede il mantenimento di un sistema in cui quasi tutto è gratuito, anche farmaci e prestazioni dai benefici questionabili, e in cui si sviluppa ulteriormente una rete di centri specialistici già pleonastica, con le aziende sanitarie in concorrenza tra loro e con il settore privato nel crearne di nuovi. Portando a conseguenze inevitabili: lo sviluppo - già in atto - di un sistema privato che assicuri ai più abbienti quei tempi rapidi e quella qualità di albergaggio che il sistema pubblico fa sempre più fatica a garantire; crescenti disparità tra chi ha il sapere e il potere necessario per avere accesso rapido alle cure e chi non li ha; costi crescenti che il sistema tenderà a riversare sui cittadini sia direttamente sia, e soprattutto, indirettamente. Di questo scenario fa parte anche il mancato adeguamento dei salari di medici e infermieri, che porterà anche questi a preferire gradualmente il sistema privato, o a utilizzare il pubblico impropriamente come strumento per guadagni privati. Alle stesse conseguenze può contribuire, occorre dirlo, anche la crescita esponenziale delle procedure a garanzia della qualità e della sicurezza, che, in assenza di risorse aggiuntive e di applicazione granu salis, rischia di essere controproduttiva. In sostanza, questo primo scenario si può descrivere con una inversione della celebre frase del Gattopardo: “non cambiare nulla affinché tutto cambi”.
Un secondo scenario può essere immaginato, ma dovrebbe, per affermarsi, superare difficoltà che allo stato sembrano insormontabili. Innanzitutto, il governo della Sanità dovrebbe essere meno permeabile ai clientelismi politici: alla politica dovrebbe spettare di definire le risorse, nell’ambito dei budget nazionali e regionali, e le linee generali di indirizzo, ad esempio riguardanti le modalità di finanziamento; non dovrebbe spettare la individuazione dei manager e la programmazione dei servizi sul territorio. Sarebbe poi necessaria una migliore definizione - sul piano nazionale, con alcune, limitate, possibilità di adattamento regionale - di Livelli Essenziali di Assistenza che siano però tali. Con contestuale definizione delle tecnologie interventi e programmi di “fascia A”, quindi riconosciuti come efficaci e con rapporto costi/benefici accettabile, inclusi i programmi di sanità pubblica, e con possibilità di revisione ogni qual volta emergano nuove evidenze. A guidare questo processo dovrebbe esserci una Autorità competente e indipendente, con una dimensione nazionale e delle proiezioni regionali. In realtà, già disponiamo dell’Agenzia per i Servizi sanitari regionali, cui corrispondono in molte regioni le Agenzie regionali. A questo sistema peraltro non sono mai stati concessi poteri adeguati, per il preponderante ruolo che le Amministrazioni regionali hanno chiesto per sé rispetto a una guida tecnica centrale, e per la “deriva politicista” in atto in molte Agenzie regionali. Di questo scenario dovrebbero invece far parte piani nazionali e opportune alleanze tra Regioni contigue per garantire una programmazione e distribuzione adeguata dei sempre più costosi centri di alta specialità; e, cosa molto importante, una Scuola nazionale di sanità pubblica, possibilmente concepita come entità policentrica per valorizzare le eccellenze già esistenti, che formi e diffonda una cultura di sanità pubblica e gestionale adeguata. L’Autorità centrale e regionale dovrebbe cooperare con le società professionali nell’assicurare piena indipendenza di raccomandazioni e linee guida da influenze improprie. Infine, sarebbe fondamentale attuare un programma, definito e attuato in collaborazione con gli operatori, di comunicazione per la salute, che diffonda tra gli utenti le conoscenze utili a comprendere come proteggere la salute individuale e contribuire a quella collettiva, i reali benefici delle diverse cure, e a disporre di informazioni trasparenti su cosa ciascuna struttura è in grado di fare. Si tratta di un aspetto fondamentale se si vuole agire in profondità sul rapporto tra domanda e offerta. Un tale “patto per la salute” in realtà è stato già proposto dal Ministero della Salute, senza però indicare chi dovesse essere responsabile della sua attuazione, che richiede una scelta politica forte, e la collaborazione dei professionisti e delle loro organizzazioni. Gli operatori hanno infatti un ruolo centrale nel dialogo con i pazienti, al quale vanno formati, e nel diffondere nelle comunità consapevolezza rispetto alle scelte da fare per salvaguardare un sistema pubblico di qualità. Migliori salari potrebbero allora essere contrattati in cambio di prestazioni di qualità, operando una selezione e una valutazione di merito. Infine, un sistema di chiari riferimenti scientifici e professionali potrebbe anche ridurre la frequenza e i costi delle litigation.
In sostanza, questa strategia alternativa si propone di aumentare la cultura del sistema: tra i programmatori, tra i manager, tra i professionisti, e infine, tra i cittadini. Una strada, come si vede, stretta. Che prevede che si fissino dei limiti espliciti, che questi vengano motivati, discussi, presentati al pubblico, e che si vada oltre visioni e interessi particolari, spesso anche degli stessi professionisti. Ma una strada che pare obbligatoria se ci si vuole mantenere fedeli agli intenti fondatori del SSN.


Giorgio Tamburlini
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