Rivista di formazione e aggiornamento di pediatri e medici operanti sul territorio e in ospedale. Fondata nel 1982, in collaborazione con l'Associazione Culturale Pediatri.
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UOC di Pediatria, Ospedale di Treviglio (Bergamo)
Indirizzo per corrispondenza: valentina_aba@yahoo.it

Sommario
Se il bambino ingoia una batteria: come capirlo e che cosa fare (o non fare)
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Un fenomeno in crescita (negli USA raddoppiato in un decennio). I sintomi e rischi maggiori dalle pile a bottone: bisogna subito recarsi in Pronto Soccorso. Sbagliato indurre il vomito o cercare di rimuovere l’oggetto.
Ingestione: incidenti raddoppiati
L’ingestione accidentale di batterie (specie quelle a bottone) da parte dei bambini è un fenomeno in crescita.
Uno studio appena pubblicato sulla rivista Pediatrics evidenzia come negli USA dal 2010 al 2019 il numero di visite pediatriche al pronto soccorso legate a questo problema sia raddoppiato rispetto al 1990-2009. Gli sforzi di prevenzione, si scrive nell’articolo che accompagna lo studio, non hanno ridotto significativamente i tassi di infortunio, che riguardano soprattutto piccoli sotto i cinque anni. I dispositivi elettronici che le famiglie tendono ad avere nelle loro case sono ormai tantissimi: telecomandi, termometri, bilance, giocattoli, biglietti di auguri sonori.
Oltre al soffocamento, l’ingestione di una batteria è pericolosa perché la stessa genera una corrente elettrica (quando entra in contatto con fluidi corporei come la saliva) che può portare a complicazioni potenzialmente letali.
Oggetti «appetibili»
Come evitare che accidentalmente un bambino ingerisca una batteria? Sebbene sia impossibile controllare ogni azione dei piccoli, è fondamentale evitare di lasciare alla loro portata oggetti «appetibili» ma potenzialmente pericolosi. Le batterie sono piccole, rotonde e lucenti.
Batterie, magneti, oggetti taglienti
Il bambino deve sempre essere portato in Pronto Soccorso se è stato ingerito (o anche nel solo sospetto di ingestione) uno dei seguenti oggetti: batterie a bottone; più di un oggetto magnetico o di un magnete e di oggetti metallici; oggetti taglienti e appuntiti; bolo alimentare; oggetti di grandi dimensioni; in tutti i casi dubbi sulla tipologia dell’oggetto ingerito.
I rischi delle batterie
Ingerire una batteria può provocare danni seri anche nel giro di breve tempo: nell’ambiente umido dell’esofago o dello stomaco la pila può rilasciare sostanze dannose che possono arrivare a provocare perforazioni ed emorragie, con conseguenze che possono rivelarsi addirittura fatali in meno di due ore, se la batteria per esempio resta intrappolata nell’esofago.
Le pile al litio sono le più pericolose se ingerite dai bambini, perché provocano gravi lesioni a esofago e stomaco, con la possibilità di perforazioni e conseguenti emorragie inarrestabili.
Come accorgersene
Nella maggior parte dei casi, l’ingestione di un corpo estraneo può avvenire senza una manifestazione clinica.
Talora possono essere presenti: dolore alla deglutizione con salivazione abbondante e rifiuto dell’alimentazione, dolore toracico o addominale, tosse, vomito o respiro rumoroso.
Se sono presenti disturbi respiratori, bisogna sempre pensare alla possibilità di un’inalazione.
Le cose da fare o NON fare
In casa bisogna tenere le batterie ben nascoste, lontano dalla portata dei piccoli. In caso si sospetti l’ingestione di una batteria, bisogna subito portare il bimbo in Pronto soccorso e consultare un Centro antiveleni.
È sbagliato indurre il vomito; è sbagliato cercare di rimuovere l’oggetto con pacche dorsali o inserendo le dita nel cavo orale del bambino: si rischia di indurre il passaggio dell’oggetto dalle vie alimentari a quelle respiratorie, evenienza molto più grave.
L’American Academy of Pediatrics raccomanda se una famiglia avesse il miele in casa, di darne due cucchiaini ogni 10 minuti, ma solo a bambini di età superiore a un anno che abbiano ingerito una batteria a bottone nelle ultime 12 ore, perché può aiutare a proteggere i tessuti e rallentare lo sviluppo della lesione (il miele non dovrebbe essere somministrato ai bambini di età inferiore a 1 anno in quanto può causare botulismo infantile). Questo nel caso in cui i genitori impieghino troppo tempo ad arrivare al Pronto Soccorso che deve sempre rimanere la prima e tempestiva scelta.
Centro antiveleni, i consigli
Come riconoscere una micropila al litio?
Dalle dimensioni che solitamente non superano i 2 cm, dalla forma circolare e piatta, dalla presenza di due strati metallici separati da un anello, dalla presenza di una sigla di conoscimento (iniziali CR seguite da un numero di quattro cifre. Per esempio CR2032: CR significa che sono pile al diossido di manganese e litio; 20 è il diametro in millimetri e 3,2 è lo spessore espresso in millimetri), come si legge sul sito del Centro antiveleni di Milano.
Una pila ossidata o aperta può dare problemi anche per semplice contatto con la cute o con le labbra?
Una pila aperta può dare irritazioni alla cute e alle mucose. Se semplicemente sporca od ossidata, non comporta problemi particolari.
Il liquido che fuoriesce della pila o micropila è pericoloso?
Il liquido contenuto nelle pile, in generale, può dare gli stessi problemi di una sostanza caustica, quindi generare lesioni paragonabili a un’ustione. In caso di contatto accidentale sciacquare immediatamente la parte e contattare un Centro antiveleni. In caso di ingestione non provocare il vomito e recarsi immediatamente in Pronto soccorso.
Gli adolescenti si piacciono sempre meno
E più del giudizio degli amici conta quello di blogger e influencer
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Sono i risultati dell’Indagine nazionale sugli stili di vita realizzata da Laboratorio adolescenza e Iard. Dopo la pandemia, i ragazzi si vedono «più grassi» della media.
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Il 58% degli adolescenti (69,4% delle femmine) sostiene che nei due anni di pandemia ha mangiato in modo inappropriato (troppo, troppo poco, in modo sregolato…) e il 37% lamenta di essere aumentato di peso. Ma al di là di questo aspetto in qualche modo oggettivo, il 27% (35,4% delle femmine) «si vede» più grasso della media dei suoi amici.
A condizionare il giudizio sono gli amici, ma soprattutto gli influencer e i fashion blogger. I dati provengono dall’edizione 2022 dell’Indagine nazionale sugli stili di vita degli adolescenti che vivono in Italia, realizzata annualmente dalla associazione no-profit Laboratorio Adolescenza e dall’Istituto di ricerca Iard su un campione nazionale rappresentativo di 5600 studenti della fascia di età 13-19 anni.
Insoddisfazione per l’aspetto fisico
Se è vero che in adolescenza non è facile convivere serenamente con un corpo in forte trasformazione, su questo aspetto - confrontando i dati delle indagini Laboratorio Adolescenza-Iard degli anni passati (realizzati su campioni confrontabili) - si registra un fenomeno che molto probabilmente risente del periodo Covid, in cui le relazioni sociali si erano drasticamente ridotte. Nel 2020 (dati raccolti prima dello scoppio della pandemia) l’insoddisfazione riguardo al proprio aspetto fisico riguardava il 31% dei maschi (oggi è il 39%) e il 55,4% delle femmine (oggi è il 60,7%).
Percentuali di «insoddisfatti» che nell’anno dei lockdown e della «socialità limitata» si erano ridotte (27% maschi e 50,1% femmine). Non è azzardato ipotizzare, dalla lettura di questi dati, quanto gran parte del problema derivi proprio dal confronto tra sé e gli altri. Cosa che, per altro, sono gli stessi adolescenti ad ammettere quando dicono (il 34% dei maschi e 53,7% delle ragazze) che nella valutazione del proprio aspetto fisico è importante il confronto diretto con amici e compagni e, soprattutto, il loro giudizio.
La lista dei desideri
La «lista dei desideri» per piacersi di più è quasi infinita - e anche qui troviamo insoddisfazioni estetiche significativamente aumentate rispetto al passato. E passando dalle scuole medie alle superiori i «vorrei», salvo alcune spiegabili eccezioni, tendenzialmente aumentano. Ma, ben più del giudizio di amici e compagni, ad influenzare il rapporto con il proprio fisico, e quindi con il cibo, oggi risulta determinante il ruolo di influencer, fashion blogger, moda e pubblicità. Vale per il 59,1% dei maschi e, addirittura, per il 77,6% delle ragazze. E il condizionamento aumenta con l’età passando dal 63,5% tra gli studenti delle scuole medie inferiori al 70,1% delle superiori.
Gli effetti collaterali della pandemia
«Che la pandemia abbia prodotto, tra gli adolescenti, un aumento dei disturbi legati alle abitudini alimentari - afferma Marina Picca, pediatra di famiglia e presidente Società Italiana Cure Primarie Pediatriche, sezione Lombardia - è un dato ormai oggettivo che ci arriva dalla letteratura e dalle evidenze che riscontriamo nel nostro lavoro quotidiano. Il mangiare in eccesso e/o in modo disordinato - riconosciuto dagli stessi adolescenti - non solo può aver prodotto una oggettiva tendenza al sovrappeso, ma ha certamente allontanato ancora di più la percezione della loro immagine corporea da quegli ideali di fisicità, del tutto astratti, che si costruiscono attraverso i social media».
«Il rischio, a questo punto, è che tentino, attraverso interventi fai-da-te, ingiustificati e comunque rischiosi, di avvicinarsi a quei modelli. Il ruolo del pediatra deve essere proprio quello di prevenire questi comportamenti cercando di indagare attivamente per intercettare precocemente i segnali di allarme di dinamiche che possono influenzare profondamente non solo il benessere fisico ma anche l’equilibrio mentale».
Conflitti familiari
E Fulvio Scaparro, psicologo e psicoterapeuta, referente dell’area psicologica di Laboratorio Adolescenza aggiunge: «In questi anni di pandemia, a causa della convivenza forzata durante i lockdown, sono aumentati molto i conflitti familiari, tra genitori e tra genitori e figli. Questo ha schiacciato ancora di più gli adolescenti nel loro mondo fatto di social e ha fatto ulteriormente crescere il peso di influencer e blogger (che era comunque presente anche prima della pandemia) come modelli di riferimento. Difficile immaginare che, nonostante la ripresa di una vita socialmente normale, questa influenza, entrata ormai nel loro quotidiano, possa scemare».
In negativo anche l’attività sportiva
Un altro aspetto critico evidenziato dall’indagine riguarda l’attività sportiva. Confrontando i dati 2022 con quelli del 2020 (prima della pandemia), la percentuale di chi ha smesso di fare attività sportiva (che in passato aveva praticato) è passata dal 20,1% (2020) al 32,4% (2022), ma anche tra chi ancora pratica sport al di fuori della scuola la percentuale di chi pratica almeno due ore settimanali è scesa dal 62,4% (2020) al 49,5% (2022). E il dato che riguarda le ragazze, specie relativo al non praticare sport in modo assoluto, è ancora più allarmante.
«È evidente - commenta Gianni Bona, pediatra endocrinologo dell’Università di Novara e presidente onorario di Laboratorio Adolescenza - che dopo lo stop imposto dalla pandemia nel 2021, molti non hanno più ripreso a fare sport con un danno gravissimo per il loro benessere. Praticare attività fisico-sportiva in modo adeguato, specie in una fase delicata della vita quale è l’adolescenza, non solo è l’indispensabile complemento ad una sana alimentazione per garantire un corretto sviluppo fisico, ma è anche fondamentale dal punto di vista dello sviluppo psicologico e delle relazioni sociali».
Influenza: primi 16 casi identificati al “Bambino Gesù”
È il virus “australiano”, appello dei pediatri alla vaccinazione
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Identificati all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù i primi casi di contagio da virus influenzale “australiano”.
Si tratta di 16 bambini giunti ai pronto soccorso dell’ospedale da fine giugno a oggi per problemi all’apparato respiratorio.
La conferma arriva dai ricercatori dell’Area di Microbiologa e Diagnostica di Immunologia dell’ospedale, che hanno analizzato il profilo molecolare (caratterizzazione) dei patogeni contratti dai piccoli pazienti. In tutti i casi è stato rintracciato il virus H3N2, uno dei principali responsabili della cosiddetta influenza “australiana”.
“L’ondata di contagi, partita con circa 6 mesi di anticipo dall’emisfero meridionale, inclusa l’Australia, si preannuncia intensa anche in Italia, già raggiunta dal virus fin dall’inizio dell’estate”, dichiara il prof. Carlo Federico Perno, responsabile di Microbiologa e Diagnostica di Immunologia del Bambino Gesù. Il primo caso al Bambino Gesù è stato individuato a fine giugno.
L’influenza da virus H3N2, spiega l’ospedale pediatrico in una nota, “si manifesta con i sintomi tipici del male di stagione: stanchezza, dolore a ossa e muscoli, febbre e problemi all’apparato respiratorio e gastro-intestinale”. Tuttavia “nei soggetti a rischio e in caso di comorbilità la malattia può avere effetti più gravi” sottolinea il prof. Alberto Villani, Direttore del Dipartimento di Emergenza, Accettazione e Pediatria Generale del Bambino Gesù.
Dal 1° ottobre in Italia partirà la somministrazione del vaccino aggiornato che prevede la copertura anche per il ceppo H3N2. Il consiglio di Villani è quindi quello di “vaccinare contro l’influenza tutti i bambini, soprattutto se fragili, a partire dai 6 mesi di età”.
La stagione influenzale potrebbe, peraltro, sovrapporsi a una nuova ondata di contagi Covid. “La doppia vaccinazione, antinfluenzale e anti-Covid, è particolarmente importante e indicata per tutte le fasce di popolazione più fragili”, sottolinea Villani.
Educazione alimentare sì a scuola, ma 50% bimbi è senza mensa
Analisi Elior, solo 13% delle famiglie segue dieta mediterranea
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Il 73% degli insegnanti e l’88% dei genitori concordano nell’assegnare alla scuola un ruolo importante nell’educazione alimentare dei più piccoli, ma solo 1 bambino su due (49%) ha accesso al servizio mensa, con punte che toccano il 67% nel Sud e Isole; questo perché solo il 29% degli edifici è dotato di una mensa, con grandi difformità territoriali: 46% nel Nord, 21% nel Centro, 15% nel Sud 17%, nelle Isole.
È quanto emerge da un’analisi di Elior, leader della ristorazione, commissionato a The European House-Ambrosetti in occasione della riapertura delle scuole.
Quasi tutti gli intervistati attribuiscono molta importanza all’educazione alimentare, dove per l’89% dei genitori la famiglia continua a rivestire il ruolo primario, ma solo il 13% segue i principi della dieta mediterranea. Quasi un terzo delle è consapevole di quante porzioni di frutta e verdura vadano mangiate, ma solo l’8% riesce a convincere i propri figli a consumarle regolarmente. A questo si aggiunge che il 25% dei bambini non pratica attività fisica, soprattutto al Sud e Isole.
Nonostante genitori e insegnati riconoscano il ruolo fondamentale della scuola nel diffondere comportamenti corretti, solo il 12% dei genitori e il 16% dei professori inserirebbe la materia nel programma didattico. Dall’analisi emerge inoltre che il grado di preparazione degli insegnanti sul tema è considerato medio (punteggio di 3,4 su 5) e solo il 7% delle attività di educazione alimentare nelle scuole coinvolge specialisti. Il 18% ritiene che gli insegnanti possano anche solo fornire le basi della materia, mentre il restante 6% pensa che ci siano altre priorità da insegnare a scuola.
Covid, uno studio conferma la sicurezza dei vaccini nei bimbi sotto 5 anni
Analisi CDC-FDA, 98,1% reazioni classificate come non serie
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Un’analisi condotta da ricercatori dei Centers for Disease Control and Prevention (CDC) e della Food and Drug Administration (FDA) americani ha confermato la sicurezza dei vaccini a mRNA contro il Covid-19 nei bambini al di sotto dei 5 anni.
Lo studio è stato pubblicato sul bollettino settimanale dei CDC.
Lo scorso 17 giugno l’FDA ha approvato in via emergenziale il vaccino Pfizer-BioNTech per i bambini da 6 mesi a 4 anni e quello Moderna per i bimbi dai 6 mesi ai 5 anni.
Al 21 agosto, secondo lo studio, circa 1 milione di bambini in questa fascia di età aveva ricevuto il vaccino (599.457 quello Pfizer-BioNTech e 440.773 quello Moderna).
I ricercatori hanno analizzato due diversi sistemi di raccolta delle reazioni avverse. Il primo, denominato v-safe, è un sistema che consente ai cittadini di partecipare, dopo l’adesione al momento della vaccinazione, al monitoraggio della sicurezza dei vaccini attraverso l’invio di questionari online o attraverso il telefonino. Dei 23.266 bambini coinvolti in questo sistema di sorveglianza, più di 5mila hanno riportato una reazione locale sul sito di iniezione; quasi 11mila una reazione sistemica. Le reazioni più comuni tra i bambini fino a 2 anni sono state irritabilità, pianto, febbre, difficoltà a dormire; in quelli più grandicelli, dolore al braccio, fatigue e febbre.
Il sistema standard di sorveglianza degli eventi correlati alle vaccinazioni ha intercettato invece circa mille segnalazioni. Il 98,1% di esse sono state classificate come non serie. Il più frequente problema riscontrato (455 casi) sono stati gli errori effettuati dal personale, per esempio l’uso di un dosaggio scorretto. Gli eventi avversi più comuni sono stati febbre (197 casi), reazione cutanea (95), vomito (79), orticaria (66), fatigue (60). Sono stati segnalati anche 19 reazioni severe (in più di un terzo dei casi si è trattato di convulsioni): su alcune di esse le autorità sanitarie stanno ancora svolgendo indagini per verificare l’effettivo legame con la vaccinazione.
Fibrosi cistica,50% dei bimbi può sopravvivere oltre 50 anni
Da 2015 abbiamo nuovi farmaci che prendono di mira proteina CFTR
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Sino a ottanta anni fa si moriva di fibrosi cistica subito dopo la diagnosi.
Oggi oltre il 50% dei bambini nati dal 2015 in poi, anno in cui sono stati usati per la prima volta i nuovi farmaci modulatori della proteina CFTR, può sopravvivere oltre i 50 anni.
A fare il punto è Salvatore Leonardi, professore associato di Pediatria presso l’Università di Catania e Consigliere della Società Italiana per le Malattie Respiratorie Infantili (SIMRI), in occasione del 25° Congresso nazionale della società scientifica, che si è tenuto a Verona a ottobre 2022.
La fibrosi cistica era conosciuta già oltre duemila anni fa.
Gli antichi romani la definivano la malattia del bacio salato e la associavano ad alti tassi di mortalità. Secondo i dati del Registro i pazienti affetti dalla malattia in Italia sono 6000, di cui circa la metà ha meno di 18 anni. “Fino a ieri - ricorda lo specialista - avevamo dei farmaci dedicati alla cura dei sintomi della fibrosi cistica, che hanno permesso di migliorare le aspettative di vita: gli antibiotici, i fluidificanti, gli antinfiammatori e gli enzimi pancreatici”. Nel 1989, però, è stato identificato il gene responsabile dell’anomalia della proteina CFTR che regola gli scambi degli ioni di sodio e cloro a livello degli epiteli ghiandolari e che determina la malattia.
Questo ha portato alla formulazione dei modulatori della proteina CFTR che hanno cambiato l’aspettativa di vita. “Grazie all’arrivo dei questi farmaci - conclude Leonardi - il 50% dei pazienti nati dal 2015 in poi, anno in cui sono stati usati per la prima volta, potrebbe sopravvivere oltre i 50 anni. Un risultato inaspettato se immaginiamo che quando è stato scoperto il fenotipo clinico, 83 anni fa, i bambini morivano poco dopo la diagnosi”.
Come far dormire un bimbo che piange, la ‘formula’ scientifica
5 minuti camminando, 8 seduti prima di rimetterlo in culla
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È l’incubo di ogni genitore: un bambino esausto che non smette di piangere quando è ora di andare a dormire.
Oppure che sembra essersi addormentato, ma d’improvviso si risveglia in preda alle lacrime e appare inconsolabile.
Una soluzione per far trascorrere una notte serena ai piccoli e anche ai genitori, specie nei primi mesi, esiste e sta in una coppia magica di numeri: cinque e otto.
Cinque sono i minuti nei quali tenere in braccio i bimbi e camminare, senza movimenti improvvisi, da cinque a otto quelli in cui attendere seduti sempre con il bimbo in braccio prima di metterlo delicatamente nella culletta, in modo da prevenire un successivo risveglio. A spiegare come far addormentare un bambino che piange in modo scientifico è uno studio del Riken Center for Brain Science in Giappone, pubblicato su Current Biology.
“Molti genitori soffrono per il pianto notturno dei bambini - spiega l’autrice principale dello studio Kumi Kuroda - questo è un grosso problema, soprattutto per le mamme e i papà inesperti, che può portare a stress genitoriale e persino a maltrattamenti infantili in un minimo numero di casi”. I ricercatori hanno confrontato le risposte di 21 bambini in quattro condizioni: in braccio alle mamme mentre camminavano, in braccio alle mamme sedute, sdraiati in una culla o in un lettino a dondolo. Il team ha scoperto che quando la madre camminava mentre teneva il bambino, il piccolo che piangeva si calmava e la frequenza cardiaca rallentava entro 30 secondi. Un effetto calmante simile si verificava quando i bambini venivano posti in un lettino a dondolo, ma non quando la madre teneva il bambino seduto o lo metteva in una culla classica. Ciò suggerisce che tenere soltanto in braccio un bambino potrebbe essere insufficiente per calmarlo se piange: è il movimento ad avere effetti calmanti, soprattutto se si protrae per 5 minuti. Tanto che tutti i bambini che piangevano nello studio hanno smesso di farlo e quasi la metà di loro si è addormentata. Ma quando le madri hanno cercato di metterli subito a letto, un terzo dei piccoli è tornato in allerta entro 20 secondi. Ecco allora la seconda strategia: tenerli altri cinque-otto minuti in braccio, anche da seduti, prima di metterli con tutta la delicatezza possibile nel loro lettino.
Scuola ed epilessia. Più di un insegnante su due non saprebbe comportarsi in caso di crisi
Ecco come non commettere errori
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Dalla Lega Italiana contro l’Epilessia le indicazioni sui comportamenti corretti: sbagliato “tirare fuori la lingua” durante una crisi. e anche l’invito a cancellare pregiudizi: “Nella maggior parte dei casi gli studenti con epilessia non hanno ritardi di apprendimento, deficit cognitivi o difficoltà relazionali”.
Quasi la metà degli insegnanti italiani ha o ha avuto, nella propria classe, un bambino con epilessia. Eppure, più di un docente su due, il 64% del totale, non saprebbe comportarsi in modo corretto nel caso uno dei suoi studenti avesse una crisi in aula.
È quanto ricorda la Lega italiana Contro l’Epilessia (LICE) in occasione del ritorno a scuola per oltre 8 milioni di studenti italiani, circa 220mila dei quali con disabilità (MIUR). Secondo una recente indagine della LICE, infatti, solo una minoranza del corpo insegnanti sarebbe in grado di fronteggiare correttamente un possibile crisi epilettica in aula.
“Un personale adeguatamente formato - spiega la Prof.ssa Laura Tassi, presidente della LICE - sarebbe in grado di assistere in maniera adeguata ed efficace un’eventuale crisi che dovesse manifestarsi in classe e, all’occorrenza, somministrare i farmaci salvavita ai bambini e ai ragazzi che vivono con l’epilessia. Si tratta di rafforzare un percorso virtuoso ancora poco efficace, che vede una collaborazione più stretta tra epilettologo, la famiglia e gli insegnanti. Non c’è l’obbligo, infatti, da parte del personale scolastico di somministrare farmaci, ma solo una raccomandazione confermata dalle linee guida adottate a livello nazionale e regionale. Troppo spesso invece, in caso di crisi, viene chiamata l’ambulanza”.
Sono proprio i bambini i più colpiti dall’epilessia. Seppur si possa presentare a qualsiasi età, nella grande percentuale dei casi questa condizione neurologica si manifesta entro i 12 anni. In Italia si registrano circa 500-600 mila casi. Se si interviene con una corretta e precoce diagnosi e una terapia adeguata la patologia può essere tenuta sotto controllo in circa il 70% dei casi, ma il restante 30% ha purtroppo una forma farmacoresistente, di cui solo una parte può essere trattata chirurgicamente.
Secondo un recente monitoraggio della LICE, il 44% degli insegnanti ha o ha avuto nella propria classe un bambino o ragazzo con epilessia, ma solo nei 2/3 dei casi ne erano stati informati dalla famiglia, a riprova della difficoltà dei genitori di parlare della malattia.
“Esistono e sopravvivono ancora troppi falsi miti e luoghi comuni legati all’epilessia e alle crisi epilettiche - spiega il prof. Oriano Mecarelli, Past President LICE - soprattutto su cosa fare quando si assiste ad una crisi convulsiva. Ma anche sulle presunte conseguenze che questa condizione avrebbe sulle capacità cognitive di un bambino. Questa condizione, infatti, risente moltissimo dei pregiudizi e delle paure degli altri ed è ancora diffusa, per esempio, l’idea che l’epilessia riduca la capacità di apprendimento, che il bambino con epilessia necessiti di un supporto scolastico, che possa avere disturbi del comportamento o problemi di relazione con gli altri bambini. Nella maggior parte dei casi non è così, tranne che nelle forme più gravi, l’epilessia non incide sulle capacità di apprendimento o su quelle relazionali, e il bambino può prendere parte a tutte le attività che vengono svolte in classe e fuori classe”.
Cosa fare in caso di crisi a scuola?
Il 90% delle crisi dura meno di 2 minuti. In alcuni casi possono durare di più, ma solo molto raramente è necessaria un’assistenza medica urgente e il ricovero in ospedale. Chiamare un’ambulanza non è quasi mai necessario, mentre la priorità per chi assiste ad un episodio convulsivo è quella di non commettere errori nei soccorsi.
La maggior parte degli episodi non necessita di manovre particolari, ma solo della vicinanza al bambino durante l’episodio critico e subito dopo, in attesa che si riprenda. La classe va tranquillizzata e invitata a prendersi cura del compagno insieme all’insegnante. Nei casi invece in cui le crisi comportino una caduta a terra, rigidità, scosse agli arti e forte salivazione, introdurre, per esempio, le mani o un oggetto nella bocca non è manovra consigliabile né tantomeno utile, pericolosa sia per chi la pratica che chi la subisce. È un falso mito, infatti, che vi sia necessità di afferrare la lingua ed estrarla dalla bocca, pena la sua discesa verso le cavità aeree rendendo così impossibile il respiro.
È anche errato trattenere o cercare di immobilizzare il bambino, pensando di arrestare o di rendere la crisi meno forte. È invece consigliabile mettere qualcosa di morbido sotto il capo per evitare eventuali contusioni, togliere gli occhiali, slacciare vestiti stretti e girare il paziente su un fianco appena possibile per facilitare la respirazione e la fuoriuscita della saliva. Bisogna poi attendere che la crisi si concluda e offrire sostegno e aiuto.
La crisi della natalità mette a rischio la tenuta della società
Un’iniziativa dei ginecologi riporta l’attenzione sulla necessità di creare momenti informativi e occasioni di confronto per supportare i giovani che lo desiderano a diventare genitori
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I dati ISTAT dicono che nei primi sei mesi di quest’anno i nuovi nati sono diminuiti del 3% rispetto allo stesso periodo del 2021 quando il bilancio delle nascite è stato di 399 mila bambini. Secondo le previsioni dell’Istituto nazionale di statistica nel 2022 l’Italia potrebbe toccare la soglia mai raggiunta di 385-380mila nascite, una previsione che ci porta ad essere tra i Paesi meno fecondi in Europa e nel mondo. «Se dovessimo mantenere lo stesso trend andremo a chiudere l’anno registrando un saldo negativo di 12 mila nascite», precisa Gian Carlo Blangiardo, presidente dell’ISTAT. «La prospettiva di arrivare a 360 mila nascite entro il 2070 è purtroppo uno scenario più che plausibile, che si porta dietro conseguenze pesantissime sulla vita di tutti: di chi ha figli, ma anche di chi non li ha. In prospettiva, la denatalità associata a un invecchiamento della popolazione avrà ripercussioni sull’economia e sulla tenuta del Paese».
Nell’ultimo report pubblicato dall’ISTAT sulle «Previsioni della popolazione residente e delle famiglie», il quadro di crisi demografica in cui ci troviamo è descritto in maniera ancora più ampia. Si stima che la popolazione passi da 59,2 milioni al 1° gennaio 2021, a 54,2 mln nel 2050 (-5 mln) fino a 47,7 mln nel 2070 (-11,5 mln). Certo sono solo previsioni che, come specifica l’ISTAT, sono tanto più incerte quanto più ci si allontana dall’anno base, ma comunque fotografano una tendenza di diminuzione di popolazione che gli esperti considerano come certa. Sugli effetti della diminuzione di nascite nel nostro Paese il commento di Gigi de Palo, presidente degli Stati Generali della Natalità, che ha partecipato di recente all’evento organizzato a Napoli dalla Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia (SIGO) dal titolo Natalità: quale futuro. «Se il trend negativo continuasse ci sarà un crollo del Pil, del welfare, del sistema pensionistico e di quello sanitario nazionale gratuito. Siamo di fronte alla tempesta perfetta - spiega de Palo -, dopo il Covid, la guerra e ora la crisi energetica che portano tante coppie ad aspettare anni migliori per fare un figlio. Siamo stati il primo Paese al mondo ad avere più over 65 rispetto agli under 15 e già adesso gli over 65 superano gli under 25. Se in Italia ci saranno sempre più anziani e sempre meno lavoratori, chi pagherà le pensioni dei giovani di oggi quando saranno anziani, visto che non nascono più bambini? Se diminuiscono i lavoratori e aumenterà il numero di anziani non autosufficienti chi sosterrà i costi di una sanità pubblica e gratuita?».
Da piazza del Plebiscito, sede dell’evento SIGO, tante le voci istituzionali e del mondo scientifico per informare e aiutare i giovani che lo desiderano a diventare genitori. «L’idea di realizzare un grande evento in piazza in cui si affrontassero a 360 gradi tutte le problematiche riguardanti la natalità - spiega N. Colacurci presidente SIGO -, è nata dalla convinzione che una società scientifica come la SIGO debba aprirsi alla popolazione e condividere con le coppie le problematiche, le ansie, i desideri, per rendere nuovamente centrale il desiderio di gravidanza. Le donne e gli uomini che sono venuti a trovarci hanno potuto testare il loro potenziale riproduttivo attraverso controlli clinici mirati e hanno potuto partecipare a tanti momenti di approfondimento ricevendo tutte le informazioni per vivere al meglio il periodo della gravidanza, quello della nascita e i primi anni di vita del bambino. Dal nostro osservatorio è emersa l’urgenza di spiegare soprattutto ai più giovani come tutelare la propria fertilità e sono certo che iniziative come la nostra siano importanti per portare la scienza vicino alla vita delle persone e diventare un supporto concreto a chi un figlio lo desidera», conclude Colacurci.
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