Rivista di formazione e aggiornamento di pediatri e medici operanti sul territorio e in ospedale. Fondata nel 1982, in collaborazione con l'Associazione Culturale Pediatri.
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UOC di Pediatria, Ospedale di Treviglio (Bergamo)
Indirizzo per corrispondenza: valentina_aba@yahoo.it

Sommario
Annegamento. OMS: “Ogni anno causa 236mila decessi. Soprattutto giovani e bambini”
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In occasione della Giornata mondiale per la prevenzione dell’annegamento l’Organizzazione lancia l’allarme. “Ogni anno, in tutto il mondo, centinaia di migliaia di persone annegano. La maggior parte di questi decessi è prevenibile attraverso soluzioni a basso costo basate sull’evidenza”.
L’annegamento è una delle principali cause di morte a livello globale per i bambini e i giovani di età compresa tra 1 e 24 anni, e la terza causa di decessi per lesioni in generale, l’annegamento provoca tragicamente oltre 236.000 vittime ogni anno. Sono i dati comunicati dall’OMS in occasione della Giornata mondiale per la prevenzione dell’annegamento.
Più del 90% dei decessi per annegamento si verifica nei paesi a basso e medio reddito, con i bambini di età inferiore ai 5 anni a più alto rischio. Queste morti sono spesso legate ad attività quotidiane e di routine, come fare il bagno, raccogliere acqua per uso domestico, viaggiare sull’acqua su barche o traghetti e pescare. Anche gli impatti di eventi meteorologici stagionali o estremi, compresi i monsoni, sono una causa frequente di annegamento e questi impatti sono ampiamente prevenibili attraverso una serie di interventi.
“Ogni anno, in tutto il mondo, centinaia di migliaia di persone annegano. La maggior parte di questi decessi è prevenibile attraverso soluzioni a basso costo basate sull’evidenza”, ha affermato il direttore generale dell’OMS, Tedros Adhanom Ghebreyesus. “Oggi, le città di tutto il mondo stanno illuminando i loro monumenti con una luce blu come un invito all’azione affinché ciascuno di noi faccia la propria parte per prevenire l’annegamento. Mettiamo fine all’annegamento”.
“L’annegamento è una sfida globale per la salute pubblica e in Bloomberg Philanthropies ci concentriamo sull’implementazione di soluzioni per prevenirlo. Oggi ci uniamo ai nostri partner in tutto il mondo per riconoscere la Giornata mondiale per la prevenzione dell’annegamento e agire”, ha affermato Michael R. Bloomberg, fondatore di Bloomberg Philanthropies e ambasciatore globale dell’OMS per le malattie e le lesioni non trasmissibili. “In molti casi, sappiamo cosa funziona per prevenire l’annegamento. Abbiamo sviluppato strumenti e linee guida per aiutare i governi a implementare soluzioni e, se facciamo di più insieme, possiamo davvero salvare migliaia di vite”.
L’OMS raccomanda 6 misure basate sull’evidenza per prevenire l’annegamento, inclusa l’installazione di barriere che controllano l’accesso all’acqua; addestrare gli astanti al salvataggio e alla rianimazione in sicurezza; insegnare ai bambini in età scolare le abilità di base del nuoto e della sicurezza in acqua; Fornitura di asili nido sorvegliati per bambini; definire e far rispettare norme sicure su navigazione, navigazione e traghetti; e il miglioramento della gestione del rischio di alluvione.
Aumenta nei giovani l’uso di psicofarmaci senza ricetta
“Situazione preoccupante”
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La notizia arriva dallo studio Espad condotto dall’Istituto IFC-CNR: in Italia è cresciuto il consumo di psicofarmaci senza prescrizione medica nelle fasce di età più giovani, in particolare tra le ragazze tra i 15 e 19 anni.
Un fenomeno che la ricercatrice dell’Istituto di Fisiologia Clinica del Consiglio Nazionale delle Ricerche (IFC-CNR), Sabrina Molinaro, definisce preoccupante.
“C’è un pattern di uso completamente differente rispetto alle altre sostanze, infatti le ragazze consumano più psicofarmaci dei ragazzi. Chiaramente stiamo parlando di misuso, quindi fuori da percorsi di trattamento”, ha chiarito Molinaro.
Per la ricercatrice, si tratta di “un mercato”, che comprende soprattutto “benzodiazepine e ansiolitici”, assunti senza prescrizione medica: “Se li procurano - dice Molinaro all’ANSA - in parte in casa, in parte attraverso false ricette”.
Nella classifica stilata dallo stesso studio, che riporta anche le sostanze psicoattive illegali più diffuse tra i giovanissimi, al primo posto c’è la cannabis, con il 18% degli studenti che ha assunto almeno una sostanza illegale nel 2021.
Al secondo posto ci sono le NPS (Nuove Sostanze Psicoattive).
“La classifica - sottolinea Molinaro - prende in considerazione solo le sostanze psicoattive illegali, quindi non comprende gli psicofarmaci senza ricetta medica”. “Se volessimo parlare di sostanze psicoattive in genere - ha concluso- al primo posto ci sarebbe l’alcol, poi la cannabis, poi gli psicofarmaci senza prescrizione medica e le NPS”.
Malattie infiammatorie croniche intestinali, occhio ai sintomi psicologici
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Ansia e depressione andrebbero considerati come sintomi delle malattie infiammatorie croniche intestinali. Anche considerando che possono impattare sull’efficacia dei trattamenti, spiegano gli esperti.
Si chiamano malattie infiammatorie croniche intestinali, perché colpiscono l’intestino. Ma colite ulcerosa e malattia di Crohn non colpiscono solo l’intestino, come dimostra la lunga lista di sintomi extraintestinali che possono interessare, per esempio, le articolazioni e gli occhi.
L’impatto dell’infiammazione può spingersi infatti ben oltre nel corpo, interessando altri distretti, anche il cervello, contribuendo spesso a generare stati di ansia e depressione. Che possono ripercuotersi anche sull’efficacia dei trattamenti.
A ricordarlo sono stati gli esperti riuniti nel corso dell’evento dedicato alle malattie infiammatorie croniche all’Humanitas University, promosso da Galápagos Biopharma Italy insieme all’IRCCS Istituto Clinico Humanitas.
Le malattie infiammatorie croniche intestinali
Le malattie infiammatorie croniche intestinali (acronimo MICI) si stima che colpiscano in Italia circa 250mila persone, per tutta la vita come suggerisce il nome, con andamento però spesso altalenante. A fasi acute delle malattie - accompagnate da dolori addominali, febbri, diarrea e frequenti corse al bagno, sangue nelle feci - si alternano fasi di relativo benessere, più o meno duraturo nei pazienti, tendenzialmente giovani quando scoprono la malattia. Pazienti che, non di rado, soffrono anche di ansia e depressione. Quanto queste sono conseguenza della malattia o quanto vanno considerati come sintomi, come altre manifestazioni extraintestinali delle malattie?
Focus sull’asse intestino-cervello
È partendo da questa domanda, e inseguendo il filone delle ricerche sull’asse intestino-cervello, che il team di Maria Rescigno, a capo Laboratorio di Immunologia delle Mucose e Microbiota di Humanitas e Prorettore Vicario con delega alla Ricerca di Humanitas University, ha analizzato se e in che modo l’infiammazione a livello dell’intestino riesce a propagarsi nel cervello.
Lo scorso autunno, in uno studio pubblicato su Science, insieme al suo team di ricercatori aveva dimostrato che effettivamente è così, identificando anche come avvenisse la propagazione dell’infiammazione: “A livello del cervello abbiamo identificato una nuova barriera vascolare nel plesso corioideo, una sorta di cancello che normalmente è aperto e permette un dialogo tra il cervello e il nostro organismo - ha spiegato Rescigno - tale cancello si chiude di fronte al pericolo di una forte infiammazione intestinale per impedire il suo propagarsi al cervello. Quando il dialogo tra cervello e organismo si arresta, il cervello si isola e va incontro a fenomeni di ansia e depressione”.
La chiusura di questo cancello, attraverso cui in condizioni normali passano anche sostanze nutritive, spiegano gli esperti, sarebbe correlata all’alterazione dell’integrità di un’altra barriera, quella vascolare a livello dell’intestino. Sarebbe questa permeabilità intestinale a favorire il passaggio dei batteri del microbiota intestinale e di molecole che possono arrivare fino al cervello, candidando questa via di comunicazione intestino-cervello a un possibile target nello sviluppo di nuovi trattamenti. Anche perché gli stati di ansia e depressione non solo peggiorano la qualità di vita dei pazienti, ma possono influenzare anche la loro risposta ai trattamenti.
L’importanza del supporto psicologico
Lo ha spiegato nel corso dell’evento Antonino Spinelli, Responsabile Unità Operativa Chirurgia del Colon e del Retto di Humanitas, co-direttore dell’IBD Center di Humanitas e docente di Humanitas University, citando i risultati di una ricerca recente: “Abbiamo appena pubblicato sul British Journal of Surgery uno studio condotto insieme all’Università di Barcellona, in cui osserviamo come i pazienti che hanno degli score di ansia e depressione maggiore prima dell’intervento chirurgico hanno outcome peggiori. È una correlazione forte tra la dimensione psicologica e una dimensione più strettamente biologica con implicazioni importanti. Nelle malattie infiammatorie infatti abbiamo una finestra temporale in cui operiamo, e possiamo migliorare questi aspetti e sperare così di ottimizzare l’outcome post-operatorio”.
Il vaccino per il morbillo protegge i bambini dalle malattie croniche intestinali
Taglia del 29% il rischio di morbo di Crohn e colite ulcerosa
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La vaccinazione contro morbillo, parotite e rosolia riduce di quasi il 30% il rischio che il bambino vada incontro in età pediatrica a una malattia infiammatoria intestinale, come morbo di Crohn o rettocolite ulcerosa.
È quanto emerge da uno studio condotto da ricercatori dell’University of Michigan pubblicato sulla rivista Inflammatory Bowel Diseases.
“Si ritiene che le infezioni siano un potenziale fattore scatenante per la malattie infiammatorie intestinali”, mentre “non è chiaro se la vaccinazione contro le infezioni infantili, come morbillo, parotite e rosolia, possa ridurre il rischio” di queste patologie, scrivono i ricercatori.
Lo studio ha preso in considerazione oltre 1,3 milioni di bambini americani, riscontrando 334 casi di malattie infiammatorie croniche intestinali. L’analisi dei dati ha mostrato che i bambini che avevano ricevuto almeno una dose di vaccino avevano un rischio del 29% più basso di sviluppare queste malattie. La riduzione del rischio rimaneva inalterata anche se si consideravano fattori come la familiarità e la nascita pretermine e se si analizzavano singolarmente le differenti malattie intestinali.
Non solo Covid. Dalla tubercolosi alla gotta tornano le malattie “storiche”: ecco le 6 che preoccupano
Cresce l’allerta per malattie che credevamo archiviate
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Arrivati nel 2022 si credeva che ci si fosse liberati dalle “malattie storiche“, ma così non è. Scarlattina e tubercolosi (per dirne alcune) stanno ora aumentando vertiginosamente. Il numero di persone che devono essere curate in ospedale per malnutrizione, scorbuto e difterite è aumentato del 23% in un’area del SSN, toccando il livello più alto degli ultimi cinque anni.
Dopo il Covid tornano le malattie storiche
Certo con la pandemia, consequenziale al Covid, che ha imposto importanti distanziamenti sociali sono diminuite diverse malattie infettive, altre si sono fatte largo, e le “malattie storiche” tornano a far capolino. La gotta ad esempio è aumentata. Gli esperti affermano che la condizione, che ha colpito Enrico VIII, che causa improvvisi e forti dolori articolari, è aumentata a causa dei troppi alimenti take-away che abbiamo consumato durante i lockdown.
Nel frattempo, gli studenti universitari inglesi sono stati avvisati di aggiornarsi sulle vaccinazioni, in particolare per meningite e morbillo, parotite e rosolia prima di tornare in aula a settembre.
E così il the Sun fa uno specchietto con una lista delle malattie di ieri che tornano ad affacciarsi oggi.
Gotta
La cosiddetta “malattia del re” tende a colpire coloro che esagerano con cibi ricchi e grassi e alcol, come Enrico VIII. Una specie di artrite, i malati sono colpiti da forti e improvvisi dolori articolari, irritabilità, viso rosso paonazzo, uno stomaco enorme perché dilatato, costipazione, vaghezza, propensione a raffreddori e a polmoniti.
Le accortezze: visita il tuo medico di famiglia e assicurati di attenerti a «un peso sano, seguire una dieta equilibrata e ridurre l’assunzione di alcol» per alleviare le possibilità di gotta, afferma la dottoressa Rachel Ward del SSN.
Tubercolosi
Anche i casi di tubercolosi, che possono rivelarsi mortali, sono aumentati del 7% nell’ultimo anno, con un focolaio in Galles a giugno.
L’infezione batterica, che colpisce principalmente i polmoni, viene trasmessa attraverso le goccioline d’acqua della tosse, e di solito è curabile con antibiotici. I segnali di pericolo includono tosse flemma e talvolta sanguinolenta, perdita di peso, sudorazione notturna, febbre alta, affaticamento fisico, perdita di appetito e collo gonfio.
Scarlattina
La dottoressa Rachel afferma inoltre che c’è stato un «marcato aumento dei casi di scarlattina dopo il Covid», in parte a causa dei bambini che sono tornarsi a radunarsi dopo le restrizioni. «Sebbene la scarlattina possa essere facilmente curata con antibiotici, se non trattata può portare a complicazioni».
I sintomi sono febbre, mal di gola, un’eruzione cutanea che può far sbucciare la pelle (di solito sulle mani e sui piedi), gote rosse e aspetto ‘lingua di fragola’” cioè con bolle e rossa.
Poliomielite
La poliomielite è rara ma può essere fatale. È stata quasi eliminata come malattia in Gran Bretagna, ma c’è stata una recente scoperta del poliovirus nelle acque reflue nel nord e nell’est di Londra.
Malnutrizione
Lo scorbuto porta a esaurimento, lividi, dolori articolari e gengive sanguinanti e colpisce quando una persona non assume abbastanza vitamina C, mentre il rachitismo influisce sullo sviluppo osseo nei bambini e di solito è il risultato di una carenza di vitamina D o di calcio. Alla base di queste c’è una malnutrizione. «È così difficile mettere in tavola cibi freschi e sani con il costo della vita che sale -spiega la dottoressa - ma ci sono modi per ottenere cibo sano a buon mercato o gratuitamente, come le dispense e i frigoriferi della comunità».
Parotite, morbillo e rosolia
Il vaccino MPR è per morbillo, parotite e rosolia, contro i quali la maggior parte di noi è stata vaccinata durante l’infanzia, ma i nostri figli potrebbero non aver ricevuto le dosi del siero.
Il morbillo è una malattia infettiva molto contagiosa dovuta al morbillivirus e si trasmette tramite goccioline di saliva presenti nelle secrezioni di naso, bocca, gola. A febbre, congiuntivite e faringite segue un’eruzione cutanea che da dietro le orecchie si diffonde per tutto il corpo. In alcuni casi il morbillo può causare complicanze, soprattutto nei bambini sotto i cinque anni e nelle persone che hanno più di vent’anni.
La parotite, comunemente detta orecchioni, è una malattia infettiva contagiosa dovuta a un virus. La malattia coinvolge soprattutto le prime vie aeree e le ghiandole salivari. Il contagio avviene mediante saliva infetta. A sintomi non specifici (mal di testa, febbre, malessere) segue dolore alle orecchie e alla zona parotidea (all’altezza della mandibola). Le parotidi poi si gonfiano, da qui il nome orecchioni.
La rosolia è una malattia infettiva causata dal rubivirus, è contagiosa e si trasmette tramite goccioline di saliva infette emesse parlando, starnutendo o tossendo. Il virus si localizza in diversi tessuti dell’organismo, compresi i linfonodi. Si manifesta con un esantema che da dietro le orecchie raggiunge il viso e si diffonde poi a tutto il collo.
La dottoressa Rachel afferma: «Durante il Covid abbiamo assistito a un calo del numero di bambini che ricevevano il vaccino MPR. Ci sono preoccupazioni che questo porterà a un’ondata di queste malattie potenzialmente mortali». Necessario quindi riprendere in mano le cartelle cliniche dei piu’ piccoli e dare uno sguardo alle vaccinazioni fatte.
OMS, campanello di allarme per la polio. È importante vaccinarsi
Dopo recenti casi a New York, Israele, UK. Il vaccino è sicuro
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I recenti casi di polio a livello mondiale rappresentano “un campanello d’allarme per tutti.
È nostra responsabilità condivisa eradicare la polio a livello globale.
Tutti coloro che non sono vaccinati, o i cui figli hanno saltato le vaccinazioni programmate, dovrebbero effettuare la vaccinazione il prima possibile. I vaccini contro la poliomielite si sono dimostrati molto efficaci e sicuri”. Lo ha affermato il direttore dell’OMS Europa, Hans Kluge, in conferenza stampa. Dato “il nostro mondo interconnesso, il virus della poliomielite rilevato di recente a New York - ha detto- è geneticamente legato ai virus rilevati in Israele e UK”.
Dermatite atopica, costi da 4 ai 20mila euro annui a paziente
Colpito il 2-5% della popolazione e fino al 20% dei bambini
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“Il costo medio annuo per ogni singolo paziente affetto da dermatite atopica è di 4284 euro, e si arriva addirittura a 6268 euro se si guarda alla fascia di età 46-60 anni.
In alcuni casi si può arrivare anche a superare i 20.000 euro a paziente per ogni anno”.
Così Francesco Saverio Mennini, research director Eehta del CEIS della Facoltà di Economia dell’Università di Roma Tor Vergata, ha sintetizzato i dati di un recente studio del CEIS nel corso del webinar “Dermatite Atopica: tra impatto economico e qualità della vita” promosso dall’EEhta del CEIS con il patrocinio della Sitha e con il contributo non condizionante di Sanofi.
La dermatite atopica colpisce circa il 2-5% della popolazione italiana adulta e fino al 20% dei bambini, con pesanti ricadute sul benessere emotivo e sociale.
“Nelle sue forme più severe ha un impatto devastante sulla qualità di vita”, ha affermato Giampiero Girolomoni, direttore dell’UOC Dermatologia dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata Verona. “Se il prurito si prolunga nel tempo, la malattia finisce per condizionare ogni aspetto della quotidianità. Può condizionare drammaticamente la vita sociale e nei giovani persino le future scelte di carriera, visto che anche studiare diventa difficile. Serve una medicina “illuminata”, che sappia portare il paziente per mano lungo tutto il percorso, senza perdere neanche un istante”, ha concluso.
Disturbi alimentari, come intercettare i primi segnali nei bambini
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Sempre più giovani, a partire da 9 anni, soprattutto le bambine. In Italia ne soffrono circa tre milioni di adolescenti. Capirlo non è impossibile. Su Jama Pediatrics.
Sempre prima. E sempre peggio. Anoressia, bulimia, binge eating disorder sono un’epidemia nella pandemia Covid, e ha riguardato soprattutto gli adolescenti. Sì, perché è proprio in quella “terra di mezzo” tra l’infanzia e l’età adulta che queste problematiche si “slatentizzano”, per citare l’espressione più utilizzata dagli specialisti. È perlopiù tra i 9 e i 14 anni, infatti, che si possono registrare i primi segni di questi disturbi.
La diagnosi precoce fa la differenza
Sapere quali segnali cogliere per sospettare la diagnosi di un disturbo del comportamento alimentare è fondamentale per i genitori. Di norma queste problematiche - secondo i dati del Ministero della Salute, in Italia sono circa tre milioni i giovani che ne soffrono - si manifestano tra i 15 e i 19 anni. Ma i problemi spesso covano sotto la cenere da tempo.
“Negli ultimi vent’anni si è assistito al manifestarsi sempre più precoce dei disturbi alimentari: soprattutto tra le bambine non è raro rilevare casi tra gli 8 e i 9 anni, nel momento in cui iniziano a percepire la propria immagine corporea - afferma dal suo osservatorio Giuseppe Banderali, direttore dell’unità operativa complessa di pediatria dell’ospedale San Paolo di Milano -. Ecco perché, a partire da questa età, un genitore deve essere preparato a registrare eventuali campanelli di allarme”.
Quando i pasti sono al centro di tutto
Che sono tanti, e diversi e non si limitano al rifiuto del cibo. “A eccezione del disturbo evitante restrittivo dell’assunzione di cibo, il problema è la percezione che si ha del proprio corpo e del cibo: quando i pasti e ciò che si mangia finisce al centro di tutto, è il caso di alzare il livello di guardia, aggiunge l’esperto, che è anche vicepresidente della Società Italiana di Pediatria.
Cogliere in anticipo i segnali dell’anoressia
Nella maggior parte dei casi, come detto, alla base di questi disturbi vi è un’attenzione ossessiva nei confronti del proprio corpo. Non stupisce, dunque, che in partenza quasi tutti i casi condividano l’eccesso di peso. Uno studio appena pubblicato su Jama Pediatrics ha confermato come un elevato indice di massa corporea rappresenti un fattore di rischio: potenzialmente in grado di lasciare spazio tanto all’anoressia (si evita di mangiare avendo come obiettivo il dimagrimento) sia la bulimia (non si riesce a evitare di mangiare, ma si fa il possibile per ridurre al minimo le “conseguenze” sulla forma fisica).
L’anoressia
Nelle manifestazioni, i disturbi del comportamento alimentare hanno delle caratteristiche peculiari. Partiamo dal più diffuso, l’anoressia (42,3 per cento del totale). Un problema prevalentemente femminile (in 9 casi su 10), caratterizzata dalla restrizione calorica finalizzata al raggiungimento di un peso corporeo eccessivamente basso e da una paura eccessiva di diventare grassi.
L’autostima legata alla forma fisica
Pensieri fissi che portano i ragazzi a mettere la forma fisica al primo posto della scala di valori che determina l’autostima: anche nel momento in cui il basso peso inizia a rappresentare un serio rischio per la salute. Banderali: “L’anoressia non è una malattia acuta: dei segnali che precedono il manifestarsi della malattia ci sono sempre - aggiunge l’esperto -. Bisogna prestare attenzione, per esempio, a una serie di comportamenti ripetitivi come il guardarsi sempre allo specchio, fare eccessivamente confronti con la forma fisica di un coetaneo, praticare sport fino allo sfinimento. Seguire uno stile alimentare corretto ed equilibrato è importante. Ma quello che diciamo ai genitori è di lasciare liberi i bambini in determinati contesti, come le feste di compleanno. La continua stigmatizzazione di alcuni comportamenti, come il bere bevande gasate o esagerare ogni tanto con i dolci, può determinare un effetto opposto nella testa del ragazzo, che arriva ad azzerare completamente questi consumi”.
Bulimia
Il secondo disturbo più frequente è la bulimia (18,2 per cento), caratterizzata dalle abbuffate di cibo e dai comportamenti compensatori adottati subito dopo: per evitare che l’eccessivo apporto di cibo modifichi la forma del corpo. A differenza dell’anoressia, questo disturbo tende a comparire con una prevalenza molto simile tra ragazzi e ragazze. “Anche in questo caso si possono intercettare alcuni comportamenti ripetitivi”, spiega Arianna Banderali, psicoterapeuta e dirigente medico nell’unità di disturbi alimentari e riabilitazione nutrizionale della casa di cura Villa Garda. I due fratelli sono in vacanza assieme. Ma non si tirano indietro dal confronto.
Abbuffata e poi vomito o lassativi
“Alla base, c’è sempre un’abbuffata di cibo che è anche vicepresidente dell’Associazione Italiana Disturbi dell’Alimentazione e del Peso (AIDAP) -. Subito dopo, compaiono i comportamenti compensativi che puntano a eliminare l’effetto dell’elevato apporto di cibo sull’organismo. Su tutti, il vomito. Ma non è l’unico. C’è chi assume anche lassativi e chi si sfinisce con lo sport nel tentativo di bruciare tutte le chilocalorie in più assunte. Se si intercetta uno di questi comportamenti e soprattutto se si ha un figlio che fa di tutto per non mangiare con i propri genitori o coetanei, è il caso di alzare il livello di guardia”. Stringendo le maglie dei controlli, confrontandosi con il proprio ragazzo. Ed, eventualmente, parlandone con un pediatra.
Come riconoscere gli altri disturbi del comportamento alimentare?
Fin qui, le indicazioni per i disturbi più noti. Ma non gli unici. C’è per esempio il disturbo da alimentazione incontrollata (binge eating disorder). Le prime manifestazioni (abbuffate) sono analoghe a quelle che si rilevano in caso di bulimia. Oltre che nell’origine, talvolta da ricondurre a problemi di natura emotiva, la differenza è rappresentata dall’assenza dei comportamenti compensatori. La similitudine tra le due condizioni non impedisce comunque il passaggio da una (binge eating disorder) all’altra (la bulimia).
Quando sono troppo selettivi a tavola
“Di norma la tendenza a compensare l’eccessivo apporto di cibo compare nel momento in cui un ragazzo percepisce il proprio peso corporeo come eccessivo”, aggiunge l’esperta. Nell’ultima versione del manuale per la diagnosi dei disturbi mentali (DSM-5) inoltre stata riportata un’altra condizione. Si tratta del disturbo da evitamento o restrizione dell’assunzione di cibo (ARFID), che si riscontra nel momento in cui un bambino è molto selettivo a tavola e tende a escludere la maggior parte dei cibi: al punto da non soddisfare più le sue necessità nutrizionali, andare incontro a una perdita di peso significativa e vivere i pasti come occasioni di forte tensione emotiva.
Una malattia complessa
“Non siamo di fronte al classico figlio che non mangia uno o più pietanze, cosa piuttosto diffusa - chiarisce il pediatra -. Ma a una malattia particolarmente complessa, che si manifesta nel momento in cui i comportamenti di evitamento determina una significativa perdita di peso e un’alterazione della crescita: in termini di peso e altezza”. Anche in questi casi, che di norma derivano da un trauma nel corso dell’infanzia o dall’eccessiva ansia di uno o di entrambi i genitori, una “spia” è rappresentata dal desiderio dei bambini di mangiare da soli: evitando tutte le occasioni conviviali.
Oltre 90 i Centri di cura sul territorio nazionale
Anche per far fronte a un bisogno di salute crescente, l’Istituto Superiore di Sanità ha pubblicato l’elenco delle strutture che si occupano della diagnosi e della cura dei disturbi del comportamento alimentare. Dalla mappatura - l’elenco annovera 91 presidi pubblici, ma sarà integrato anche con quelli della sanità privata convenzionata - emerge una maggiore capillarità nelle Regioni del Nord Italia. Spicca l’Emilia Romagna, con sedici Centri.
Gli interventi disponibili nei Centri
Diverse le tipologie di intervento disponibili, sovente integrate: psicoterapeutico (individuale, famigliare o di gruppo), psicoeducativo, nutrizionale, farmacologico e di riabilitazione fisica e sociale. Percorsi residenziali - che prevedono il ricovero - sono previsti nel 17 per cento delle strutture.
Lo schema corretto: 3 pasti e 2 spuntini
“La riabilitazione nutrizionale punta a ripristinare l’adozione di uno schema alimentare corretto: strutturato su tre pasti principali e due spuntini - conclude la psicoterapeuta -. I dati scientifici ci dicono che il recupero di una condizione di normalità come questa riduce del 70 per cento le abbuffate nelle persone che soffrono di bulimia. E, naturalmente, concorre al graduale recupero del normale peso corporeo. Accanto a questo percorso, si aggiunge una terapia cognitiva che punta a ripristinare l’accettazione di piatti o alimenti fino a quel momento temuti. Una volta raggiunto anche questo obbiettivo, le persone sono pronte a lasciare una struttura e a riprendere progressivamente in mano la propria vita”.
OMS, solo il 44% dei neonati sono allattati esclusivamente al seno
Settimana mondiale 1-7 agosto, promuoverlo anche nelle emergenze
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Solo il 44% dei neonati viene allattato esclusivamente al seno nei primi sei mesi di vita, meno dell’obiettivo del 50% entro il 2025.
A dirlo sono l’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS) e l’UNICEF, che, in occasione della Breastfeeding Week, in corso dal primo al 7 agosto, chiedono ai governi maggiori risorse per sostenere l’allattamento, in particolare per le famiglie più vulnerabili che vivono in contesti di emergenza.
Poiché le crisi globali continuano a minacciare la salute e l’alimentazione di milioni di neonati, l’importanza vitale dell’allattamento al seno “è più critica che mai”.
Durante le emergenze, comprese quelle in Afghanistan, Yemen, Ucraina, Corno d’Africa e Sahel, l’allattamento al seno garantisce una fonte di cibo sicura e “offre una potente linea di difesa contro le malattie e tutte le forme di malnutrizione infantile”.
Tuttavia, il disagio emotivo, l’esaurimento fisico, la mancanza di privacy e la scarsa igiene vissuta dalle madri in contesti di emergenza fanno sì che molti bambini stiano perdendo i benefici dell’allattamento al seno. Tanto che meno della metà di tutti i neonati vengono allattati nella prima ora di vita, il che li rende più vulnerabili alle malattie e alla morte.
Ecco perché l’UNICEF e l’OMS chiedono a governi e società civile di intensificare gli investimenti in politiche di sostegno all’allattamento, soprattutto in contesti di insicurezza alimentare; fornire agli operatori sanitari le competenze necessarie per offrire supporto alle madri, proteggendoli dall’influenza di marketing dell’industria e attuare politiche che forniscano alle madri il tempo, lo spazio e il sostegno di cui hanno bisogno.
I bimbi nati pretermine sono più a rischio di disturbi dell’attenzione
+23% iperattività e +17% ADHD per nati a 37-38 settimane
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Nascere con qualche settimana di anticipo aumenta il rischio di sviluppare disturbi da deficit di attenzione e iperattività (ADHD).
È quanto emerge da uno studio della Rutgers University, pubblicato su Journal of Pediatrics.
Lo studio ha analizzato i dati riguardanti circa 1400 bambini nati negli Stati Uniti tra il 1998 e il 2000 e in un follow-up a 9 anni li ha incrociati con gli elementi emersi dalle interviste con le madri e gli insegnati, ai quali stato chiesto di valutare i propri studenti utilizzando una scala di valutazione che include sintomi di iperattività, ADHD, comportamento oppositivo e problemi cognitivi o disattenzione.
L’analisi ha fatto emergere che i bambini nati a 37-38 settimane avevano punteggi significativamente più alti nelle scale di valutazione degli insegnanti per iperattività, ADHD e problemi cognitivi o disattenzione rispetto ai bambini a 39-41 settimane.
In particolare, i ricercatori hanno scoperto che a ogni settimana di età gestazionale a termine in più corrispondeva una riduzione del 5-6% dei punteggi di iperattività, ADHD e problemi cognitivi.
La nascita a 37-38 settimane era associata a punteggi di iperattività più alti del 23% e a punteggi ADHD più alti del 17% rispetto alla nascita tra 39 e 41 settimane.
“I risultati si aggiungono alle prove già esistenti che raccomandano di ritardare i parti elettivi almeno fino a 39 settimane di gestazione e suggeriscono che screening regolari per i sintomi dell’ADHD sono importanti per i bambini nati tra la 37 e la 38 settimana”, ha affermato Nancy E. Reichman, tra gli Autori dello studio.
Ipertensione tra bambini e adolescenti legata a uno stile di vita non sano
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Una Consensus conference pubblicata dallo European Heart Journal e curata da un team italiano guidato da Giovanni de Simone, dell’Università Federico II di Napoli, pone l’accento sulla diffusione dell’ipertensione tra bambini e adolescenti, legata soprattutto a obesità addominale.
Inattività, dieta ricca di zuccheri e sale ed eccesso di peso sono responsabili dell’aumento della pressione sanguigna in nove bambini e adolescenti su dieci. È quanto emerso da un Consensus paper pubblicato sullo European Heart Journal, a cura di un team italiano guidato da Giovanni de Simone, dell’Università Federico II di Napoli.
Secondo gli esperti, tra le raccomandazioni a livello di alimentazione utili da seguire, figurano mangiare verdure fresche, frutta e altri cibi ricchi di fibre, limitare il consumo di sale ed evitare bevande aggiunte di zuccheri e il consumo di grassi saturi.
Inoltre, bambini e adolescenti dovrebbero fare almeno un’ora di attività fisica da moderata a intensa ogni giorno, come correre, andare in bicicletta o nuotare, e passare non più di due ore in attività sedentarie.
Diversi studi hanno evidenziato come l’ipertensione tra i bambini stia diventando più comune e parte di questo aumento è dovuto all’obesità, soprattutto a livello addominale. Meno del 2% dei bambini normopeso, infatti, soffre di ipertensione, contro il 5% dei bambini sovrappeso e del 15% di quelli obesi. Una diagnosi precoce di elevata pressione sanguigna è fondamentale, poi, in modo che possa essere gestito al meglio lo stile di vita. Per la diagnosi basta una singola misurazione della pressione, anche se è indicata una seconda visita per conferma.
Qualora fosse evidenziata ipertensione, secondo de Simone e colleghi, bisognerebbe indagare la storia medica e fare esami ad hoc per determinare le possibili cause. Tra le informazioni da raccogliere ci sono il peso, l’età gestazionale, il fumo, l’assunzione di sale e il consumo di alcool e l’esercizio fisico. Mentre tra i possibili sintomi figurano mal di testa, sanguinamento dal naso, vertigini, alterazioni visive, difficoltà di attenzione, respiro corto e dolore al petto.
Alimentazione. Il consumo di cibi ultra-processati aumenta in modo rilevante il rischio di mortalità
Lo studio italiano
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L’etichetta nutrizionale non basta è il grado di lavorazione industriale quello più importante nell’evidenziare il maggiore rischio di mortalità. Questi i risultati dello studio, pubblicato sul British Medical Journal, del Dipartimento di Epidemiologia e Prevenzione dell’IRCCS Neuromed, in collaborazione con l’Università dell’Insubria di Varese e Como, l’Università di Catania e Mediterranea Cardiocentro di Napoli che ha analizzato l’impatto combinato sulla salute del sistema di etichettatura Nutri-Score e del grado di trasformazione degli alimenti.
Gli alimenti non sono caratterizzati solo dalla loro composizione e qualità nutrizionale, ma anche dal grado di lavorazione a cui sono sottoposti. E proprio quest’ultimo elemento è cruciale per conoscere il reale effetto del cibo sulla salute, e la sua indicazione sulle etichette aiuterebbe i consumatori a scegliere con maggiore consapevolezza.
In sostanza, per fare realmente prevenzione a tavola bisognerebbe prestare attenzione anche alla lavorazione industriale che, se eccessiva, rappresenta un’insidia per la nostra salute: le insidie si nascondono infatti anche in prodotti apparentemente insospettabili, come fette biscottate, alcuni cereali per la colazione, cracker e yogurt alla frutta.
È quanto emerge da uno studio italiano realizzato dal Dipartimento di Epidemiologia e Prevenzione dell’IRCCS Neuromed di Pozzilli (IS) in collaborazione con l’Università dell’Insubria di Varese e Como, l’Università di Catania e Mediterranea Cardiocentro di Napoli. La ricerca, pubblicata sul British Medical Journal, che le ha dedicato anche un editoriale, ha indagato quale aspetto dell’alimentazione definisca meglio il rischio di mortalità.
I ricercatori hanno monitorato per 12 anni lo stato di salute di oltre 22mila persone che hanno partecipato al Progetto epidemiologico Moli-sani e lo hanno correlato con le loro abitudini alimentari, prendendo in considerazione sia gli aspetti nutrizionali che quelli legati al grado di trasformazione dei cibi.
“I nostri risultati - dice Marialaura Bonaccio, epidemiologa del Dipartimento di Epidemiologia e Prevenzione dell’IRCCS Neuromed di Pozzilli e primo autore dello studio - confermano che il consumo sia di alimenti di scarsa qualità nutrizionale che quello di cibi ultra-processati aumenta in modo rilevante il rischio di mortalità, in particolare per le malattie cardiovascolari. Quando però abbiamo tenuto conto congiuntamente sia del contenuto nutrizionale della dieta che del suo grado di lavorazione industriale, è emerso che quest’ultimo aspetto è quello più importante nell’evidenziare il maggiore rischio di mortalità. In realtà, oltre l’80% degli alimenti classificati come non salutari dal Nutri-Score sono anche ultra-lavorati. Questo - prosegue - suggerisce che il rischio aumentato di mortalità non è da imputare direttamente (o esclusivamente) alla bassa qualità nutrizionale di alcuni prodotti, bensì al fatto che questi siano anche ultra-lavorati”.
Si stima che nel mondo una morte su cinque sia dovuta a una scorretta alimentazione, per un totale di 11 milioni di morti all’anno, ricorda Augusto Di Castelnuovo, ricercatore del Mediterranea Cardiocentro di Napoli: “Ecco perché migliorare le abitudini alimentari è in cima alla lista delle priorità delle agenzie di salute pubblica e dei governi di tutto il mondo”.
Una soluzione suggerita per fare scelte alimentari più salutari è quella di utilizzare un sistema di etichettatura per i prodotti commerciali. Già utilizzate da tempo su base volontaria in alcuni Paesi europei, come Francia e Spagna, ora le etichette alimentari sono al vaglio della Commissione Europea che vorrebbe identificare un unico sistema da applicare in tutti gli Stati membri.
Il Nutri-Score, sviluppato in Francia, è dato come favorito. Il sistema valuta la qualità nutrizionale di un alimento (ad esempio in base al contenuto di grassi, sale, fibre, etc.), con una scala di cinque colori, che vanno dal verde (cibo più salutare) al rosso e a cui corrispondono le prime cinque lettere dell’alfabeto, A-B-C-D-E.
Ma la qualità nutrizionale non è l’unico fattore da tenere in considerazione. La classificazione NOVA, in particolare, invece di valutare un alimento sulla base delle caratteristiche nutrizionali guarda piuttosto a quanto quel prodotto sia stato lavorato a livello industriale. Il sistema NOVA identifica, nello specifico, gli alimenti cosiddetti ultra-processati, ossia quei cibi fatti in parte o interamente con sostanze che non vengono utilizzate abitualmente in cucina (proteine idrolizzate, maltodestrine, grassi idrogenati…) e che contengono generalmente diversi additivi, come coloranti, conservanti, antiossidanti, anti-agglomeranti, esaltatori di sapidità ed edulcoranti.
Fanno parte di questa categoria bevande zuccherate e gassate, prodotti da forno preconfezionati, creme spalmabili, ma anche prodotti apparentemente insospettabili, come fette biscottate, alcuni cereali per la colazione, cracker e yogurt alla frutta. In base al sistema NOVA, proposto una decina di anni fa da un team di ricercatori brasiliani, una fettina di carne sarebbe preferibile a un hamburger vegano, semplicemente perché la prima non ha subito manipolazioni industriali e verosimilmente non contiene additivi alimentari, mentre il secondo è il risultato di un’articolata lavorazione industriale al termine della quale la percentuale di alimento rimasto integro diventa marginale.
“L’obiettivo di aiutare le persone a compiere scelte alimentari più salutari è sicuramente da condividere - commenta Licia Iacoviello, Direttore del Dipartimento e professore ordinario di Igiene all’Università dell’Insubria di Varese e Como - Tuttavia, il Nutri-Score, così come anche altri sistemi di etichettatura, elaborati in Italia e in altri Paesi, rischia di veicolare solo parzialmente il messaggio volto a migliorare le scelte a tavola. Se le lettere e i colori del Nutri-Score ci aiutano a confrontare rapidamente prodotti della stessa categoria, permettendoci di scegliere quello migliore dal punto di vista nutrizionale, questo sistema non fornisce tuttavia nessuna indicazione sul grado di trasformazione dell’alimento. I nostri dati indicano che c’è bisogno di considerare non solo le caratteristiche nutrizionali, ma anche il grado di lavorazione dei cibi. Ecco perché pensiamo, anche in sintonia con altri ricercatori internazionali, che bisognerebbe integrare ogni sistema di etichettatura nutrizionale con informazioni riguardanti il livello di trasformazione”.
“Per una strategia di prevenzione che sia realmente efficace, dobbiamo concentrarci soprattutto su quegli alimenti che il Nutri-Score classifica come validi da un punto di vista nutrizionale ma che sono anche molto lavorati. È il caso ad esempio di alcune bevande che pur avendo un ridotto contenuto di zuccheri, risultando quindi adeguate sul piano nutrizionale tanto da conquistarsi una lettera B del Nutri-Score, di fatto sono molto lavorate. Ma anche yogurt e dolci freddi, che vantano pochi grassi ma contengono una lista corposa di additivi alimentari”.
“Un difetto comune a tutti i sistemi di etichettatura nutrizionale è quello di isolare il singolo prodotto dall’alimentazione globale. Per migliorare davvero l’alimentazione, dovremmo ritornare all’antica lezione della Dieta Mediterranea, che è uno stile di vita caratterizzato da una sapiente scelta degli alimenti e del modo di combinarli e consumarli. Non è una lista della spesa, ma riflette una storia centenaria che rischia di sparire se consideriamo gli alimenti come atomi che non comunicano tra loro. Dobbiamo inoltre ricordare che l’alimentazione dei popoli mediterranei è basata principalmente su prodotti freschi o minimamente lavorati. Pertanto, un’azione completa di prevenzione a tavola dovrebbe prestare attenzione anche alla lavorazione industriale che, se eccessiva, rappresenta una documentata insidia per la nostra salute”.
Impotenza e criptorchidismo, dramma intimo per gli uomini italiani
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Quello dell’impotenza non è più solo un problema della maturità. La maggioranza dei giovani italiani non si è mai fatta visitare da un andrologo, eppure fra i 14 e i 20 anni uno su tre ha già patologie andrologiche con ricadute sulla fertilità in un caso su dieci. Aumentare la consapevolezza dei giovanissimi, informarli e fare prevenzione è l’obiettivo della campagna ‘Amore senza ostacoli’ della Società italiana di andrologia (Sia), che per tutto il prossimo anno scolastico, fino a giugno 2023, porterà gli esperti in 100 scuole di tutto il Paese. Ben 10.000 adolescenti saranno coinvolti in incontri in cui sarà possibile parlare delle principali malattie andrologiche, delle regole di prevenzione e di come prendersi cura della propria salute sessuale senza cadere nella trappola delle fake news, ma affidandosi a fonti certe e autorevoli. “Solo il 2% dei giovani si controlla. La prevenzione deve cominciare invece fino dall’adolescenza: problemi che in questa fase non sono vere e proprie patologie vanno individuati per essere affrontati evitando successive conseguenze come nel caso del varicocele e del rischio di infertilità. La campagna di prevenzione vuole intercettare i giovani e far capire loro che devono e possono rivolgersi all’andrologo senza paura”. “Gli specialisti affronteranno temi relativi alla prevenzione e alla conoscenza delle malattie andrologiche, lasciando ai ragazzi il Vocabolandro, un vocabolario dell’andrologia in cui trovare informazioni corrette e verificate. Dalla A di azoospermia alla Z di zinco, un minerale importante per il benessere degli spermatozoi, il vocabolario sarà una guida per conoscere le principali malattie legate ai genitali, il corretto uso del profilattico, l’igiene intima, l’alimentazione, l’alcool e i rischi legati all’uso delle droghe”.
“In un ragazzo su 3 si è individuato un problema andrologico come varicocele, criptorchidismo, pene ricurvo congenito o altri disturbi comuni che nella metà dei casi possono interferire con la sessualità e nel 10% con la fertilità - sottolinea Nicola Mondaini, ideatore e coordinatore della campagna e professore di Urologia all’Università Magna Graecia di Catanzaro -. Il preservativo, per esempio, è utilizzato da meno di un ragazzo su due nella fascia dai 16 ai 18 anni e solo il 7% di chi lo usa lo ritiene uno strumento per prevenire le malattie sessualmente trasmesse. Queste patologie sono invece molto diffuse fra i ragazzi eppure non se ne parla mai”.
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