Rivista di formazione e aggiornamento di pediatri e medici operanti sul territorio e in ospedale. Fondata nel 1982, in collaborazione con l'Associazione Culturale Pediatri.

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a cura di Maria Valentina Abate

UOC di Pediatria, Ospedale di Treviglio (Bergamo)

Indirizzo per corrispondenza: valentina_aba@yahoo.it

Sommario

Talassemia, terapia genica libera da trasfusioni 90% malati

Influenza, la vaccinazione protegge i bambini anche da altri ceppi

Sicurezza dei vaccini anti-Covid: il Rapporto AIFA

Covid: il cuore dei bambini si riprende in fretta dalla MIS-C

Covid e bambini: mal di testa e stato mentale alterato i sintomi neurologici più diffusi

Pubertà precoce, in Italia raddoppiati i casi nelle bambine durante la pandemia

Covid. Pediatri: “Il nostro lavoro è sommerso per il 90% dalla pandemia”

La Giornata contro le mutilazioni genitali femminili


Talassemia, terapia genica libera da trasfusioni 90% malati

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Il 90% dei pazienti con talassemia beta curati con una terapia genica che corregge l’errore alla base della malattia smette di aver bisogno di trasfusioni per almeno un anno. È il risultato di uno studio condotto in nove Centri, tra cui l’Ospedale Bambino Gesù di Roma, pubblicato sul New England Journal of Medicine.

La sperimentazione, partita nel 2016 ha coinvolto nove Centri tra Italia, Francia, Germania, Tailandia, Regno Unito e Usa. 23 i pazienti con beta-talassemia coinvolti, tutti dipendenti dalla trasfusione all’inizio dello studio: 8 bambini con meno di 12 anni e 15 dai 12 ai 50 anni.
La beta talassemia è dovuta a mutazioni a carico del gene HBB che possono causare una ridotta o assente sintesi delle catene beta dell’emoglobina, la molecola responsabile del trasporto dell’ossigeno nel sangue. La terapia genica oggetto dello studio si chiama betibeglogene autotemcel o beti-cel, ed è già stata approvata come farmaco orfano dall’Agenzia per i Farmaci Europea; corregge questo difetto nelle cellule staminali ematopoietiche del paziente, che, una volta prelevate e modificate, vengono reinfuse nel malato.
La sperimentazione ha mostrato un aumento della produzione di emoglobina in tutti i malati arruolati. In 20 dei 22 pazienti valutati (91%), la produzione di emoglobina era tale da liberarli dalla trasfusione per almeno un anno, in alcuni casi quasi per due anni. Il trattamento si è dimostrato efficace anche nei bambini al di sotto dei 12 anni: 6 su 7 non hanno avuto bisogno di trasfusione. Anche i due pazienti che, nonostante la terapia, hanno continuato ad aver bisogno delle trasfusioni, hanno comunque ridotto il fabbisogno di sangue: uno del 67,4% e l’altro del 22,7%.
“Questi dati suggeriscono che nella maggior parte dei pazienti con beta talassemia dipendente da trasfusioni, una sola infusione di beti-cel è potenzialmente curativa”, concludono i ricercatori.
“Quando si hanno dei dati di follow-up così importanti si può parlare di guarigione”. Franco Locatelli, direttore del dipartimento di Onco-Ematologia e Terapia Cellulare e Genica dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma, così commenta all’ANSA i dati della sperimentazione pubblicati sul New England Journal of Medicine che hanno mostrato l’efficacia di un approccio di terapia genica contro la beta talassemia. Il Bambino Gesù ha contribuito in maniera consistente alla sperimentazione, trattando un terzo dei pazienti arruolati.
Locatelli è il primo firmatario dello studio, “che ha documentato come la terapia genica, intesa come addizione di più copie sane del gene ammalato, sia stata in grado di determinare l’indipendenza trasfusionale nel 90% dei soggetti trattati”, spiega. “Il trattamento è stato inoltre in grado di determinare il raggiungimento di valori di emoglobina molto consistenti in una percentuale elevata dei pazienti che hanno ottenuto l’indipendenza trasfusionale. Questo risultato è persistente nel tempo”.
Il Bambino Gesù ha contribuito in maniera consistente alla sperimentazione, trattando un terzo dei pazienti arruolati: “il primo era un ventitreenne pugliese, poi ne sono venuti altri sei” ricorda Locatelli. Attualmente la terapia oggetto dello studio (betibeglogene autotemcel) è approvata dall’EMA per le persone dai 12 anni in su con una specifica caratteristica genetica (genotipo non-beta0/beta0) che hanno bisogno di trasfusioni e non abbiano condizioni incompatibili con il trapianto (per esempio problemi cardiaci o epatici). Lo studio ha però mostrato ottimi risultati anche nei bambini con meno di 12 anni: “è quindi prevedibile che le Agenzie regolatorie estendano le indicazioni anche ai bambini più piccoli”, dice ancora Locatelli. L’accesso al farmaco, tuttavia, al momento è complicato da disaccordi sul prezzo di rimborso tra l’azienda che ha sviluppato il prodotto e le agenzie del farmaco europee.
La terapia genica, tuttavia, non è l’unica terapia avanzata potenzialmente risolutiva della talassemia beta: “Abbiamo sviluppato un approccio basato sull’editing del genoma, attraverso cui viene riattivata la sintesi dell’emoglobina fetale”, conclude Locatelli. “Anche con questa strategia abbiamo ottenuto risultati importantissimi: tuti i pazienti trattati hanno smesso di ricevere supporto trasfusionale”.


Influenza, la vaccinazione protegge i bambini anche da altri ceppi

Evita complicanze se colpiti da varianti non incluse nel vaccino

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La vaccinazione antinfluenzale protegge i bambini dalle forme gravi di influenza anche quando vengono infettati da ceppi di virus influenzali diversi da quelli contenuti nel vaccino.
È quanto emerge da uno studio coordinato dai Centers for Disease Control and Prevention americani e pubblicato su Clinical Infectious Diseases.
L’attenzione dei ricercatori si è concentrata sulla stagione influenzale 2019-2020, in cui si è verificata “la più estesa epidemia nazionale di influenza nei bambini dal 1992 e sono state sollevate preoccupazioni sull’inefficacia della vaccinazione a causa della circolazione di due ceppi virali che non corrispondevano a quelli contenuti nel vaccino”, scrivono i ricercatori.
In quella stagione in Usa sono deceduti per complicanze dell’influenza 199 minori, la metà con meno di 5 anni.
Lo studio ha considerato 329 pazienti pediatrici ricoverati per gravi complicanze respiratorie dovute all’influenza in 17 ospedali americani; 160 erano vaccinati contro l’influenza. I ricercatori hanno stimato che l’efficacia complessiva del vaccino nel prevenire le forme severe di influenza era del 63%, che saliva al 75% per le forme influenzali eccezionalmente gravi da repentaglio la vita.
La ricerca ha inoltre valutato l’efficacia del vaccino contro le specifiche forme e varianti di virus influenzali circolanti in quella stagione (in genere il vaccino contiene uno o più varianti di virus influenzali di tipo A e di tipo B) dimostrando che il vaccino ha offerto una protezione del 78% contro la variante di tipo A contenuta nel vaccino e del 47% contro altre varianti di tipo A. Nel caso del tipo B, nessuno dei partecipanti aveva contratto un’influenza causata dal ceppo contenuto nel vaccino stagionale, che ha dimostrato un’efficacia del 75% contro le altre forme di virus influenzali di tipo B circolanti.
“L’intensificazione degli sforzi per la vaccinazione antinfluenzale nei bambini potrebbe portare a riduzioni apprezzabili delle malattie critiche e dei decessi per influenza in tutto il mondo”, concludono i ricercatori.


Sicurezza dei vaccini anti-Covid: il Rapporto AIFA

Su 108,5 milioni di somministrazioni gli eventi gravi sono lo 0,02%. Dei 758 decessi segnalati solo 22 sono correlabili. Per la dose booster meno eventi avversi e al momento nessun problema di sicurezza nella fascia 5-11 anni

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Pubblicato il rapporto annuale sulla sicurezza dei vaccini anti Covid che copre il periodo che va dal dicembre 2020 a dicembre 2021. Nel rapporto evidenziati i dati delle segnalazioni di eventi avversi provenienti dalla rete di farmacovigilanza italiana. In tutto segnalati 117.920 sospetti eventi avversi pari a 109 segnalazioni ogni 100mila dosi somministrate. Di queste l’83,7% è riferita a eventi non gravi e il 16,2% a eventi avversi gravi. L’analisi sugli eventi con esito fatale ha rilevato che dei 758 decessi segnalati solo 22 sono correlabili con la vaccinazione. L’AIFA ha pubblicato questa mattina i risultati del Rapporto annuale sulla sicurezza dei vaccini anti Covid che raccoglie i dati dell’attività di farmacovigilanza, sia passiva che attiva, dal 27 dicembre 2020 al 26 dicembre 2021. In questo arco di tempo sono state inserite complessivamente nella Rete Nazionale di Farmacovigilanza 117.920 segnalazioni di sospetto evento avverso successivo alla vaccinazione su un totale di 108.530.987 dosi di vaccino, con un tasso di segnalazione di 109 segnalazioni ogni 100.000 dosi somministrate, indipendentemente dal vaccino e dalla dose. L’AIFA ricorda che una segnalazione non implica necessariamente, né stabilisce in sé, una causalità tra vaccino ed evento, ma rappresenta un sospetto che richiede ulteriori approfondimenti, attraverso un processo definito “analisi del segnale”. Le segnalazioni riguardano soprattutto Comirnaty (68%), che è stato il vaccino più utilizzato e solo in minor misura Vaxzevria (19,8%), Spikevax (10,8%) e vaccino Covid‐19 Janssen (1,4%).


Tipologia eventi avversi. L’83,7% (n. 98.717) delle segnalazioni inserite è riferita a eventi non gravi, con un tasso di segnalazione pari a 91/100.000 dosi somministrate, e il 16,2% (n. 19.055) a eventi avversi gravi, con un tasso di 17,6 eventi gravi ogni 100.000 dosi somministrate, indipendentemente dal tipo di vaccino, dalla dose somministrata e dal possibile ruolo causale della vaccinazione.
Complessivamente quindi i sospetti eventi avversi gravi segnalati sono riferibili solo allo 0,002% delle somministrazioni effettuate.


Eventi avversi più comuni
Per tutti i vaccini gli eventi avversi più segnalati sono stati febbre, stanchezza, cefalea, dolori muscolari/articolari, dolore in sede di iniezione, brividi e nausea. Gli eventi riportati sono perlopiù non gravi e già risolti al momento della segnalazione.

Il tasso di segnalazione dopo la terza dose è di 21,7 segnalazioni ogni 100.000 somministrazioni, inferiore a quanto osservato per le dosi del ciclo primario.

La maggior parte delle segnalazioni dopo la vaccinazione eterologa è relativa alla somministrazione di un vaccino a mRNA dopo la prima somministrazione di un vaccino a vettore adenovirale e sono per la maggior parte non gravi e presentano le stesse caratteristiche del resto delle segnalazioni.

Nella popolazione pediatrica gli eventi avversi più frequentemente segnalati sono febbre, cefalea, stanchezza e vomito; il 69% delle reazioni nella popolazione pediatrica si sono risolte completamente o erano in miglioramento al momento della segnalazione. I tassi di segnalazione nella fascia d’età 5‐11 sono preliminari e al momento non emergono particolari problemi di sicurezza.

Vaccinazione anti-Covid-19 in gravidanza
Nonostante le preoccupazioni iniziali dovute principalmente alla mancanza di disponibilità di dati di immunogenicità, efficacia e sicurezza dei vaccini nelle donne in gravidanza, è apparsa evidente la necessità di vaccinare tale popolazione alla luce anche dei rischi legati all’insorgenza di malattia Covid-19 per la madre o il feto. Infatti, le pazienti in gravidanza affette da Covid-19 sintomatico sembrano essere a maggior rischio di malattia grave rispetto alle pazienti non in stato di gravidanza, soprattutto in presenza di comorbilità. L’AIFA sottolinea che le evidenze scientifiche ad oggi disponibili mostrano un buon profilo di sicurezza dei vaccini a mRNA per il trattamento del Covid-19 nelle donne in gravidanza, supportando e incentivando la vaccinazione in tale categoria di popolazione e che attualmente la vaccinazione anti-Covid-19 è indicata sia in gravidanza che in allattamento, in accordo alle posizioni in merito delle Società Scientifiche e alle Autorità Regolatorie sia nazionali e internazionali.
L’AIFA sottolinea poi che non vi sono evidenze che suggeriscano che i vaccini anti‐Covid‐19 possano influenzare negativamente la fertilità in entrambi i sessi.

L’effetto “nocebo”
L’AIFA ha riportato anche i dati sulle reazioni ansiose alla vaccinazione e gli eventi correlati allo stress da vaccinazione, ovvero quegli eventi determinati dalla risposta emotiva alla vaccinazione, il cosidetto effetto “nocebo”. Si tratta dei dati relativi a 12 studi internazionali, che hanno coinvolto un totale di 45.380 pazienti (22.802 che hanno ricevuto un vaccino e 22.578 un placebo), l’effetto nocebo ha rappresentato fino al 64% di tutte le reazioni avverse, con una frequenza di eventi avversi di tipo sistemico del 35,2% e di tipo locale del 16,2% nei pazienti trattati con placebo.

I decessi correlabili
Complessivamente sono stati segnalati 758 decessi di questi 580 sono stati ritenuti idonei alla valutazione del nesso di causalità secondo gli standard dell’Oms ma quelli risultati poi effettivamente correlabili alla vaccinazione sono solo 22 (il 3,8%, circa 0,2 casi ogni milione di dosi somministrate), sette in più rispetto ai 16 registrati nei precedenti nove rapporti mensili che hanno coperto il periodo 27 gennaio 2020/27 settembre 2021.
In base ai dati disponibili, osserva AIFA, è possibile che alcuni eventi attesi per i vaccini possano avere conseguenze clinicamente rilevanti in alcuni soggetti anziani fragili, specialmente se si presentano con particolare intensità (come l’iperpiressia), a fronte di un beneficio indubbio della vaccinazione in quella fascia della popolazione.

Queste le caratteristiche dei 22 decessi correlabili:
- 2 eventi sistemici che hanno scompensato pazienti fragili. Si tratta un uomo di 79 anni, con storia clinica di patologie cardiovascolari e di una paziente fragile di 92 anni, con storia clinica di demenza e diabete mellito. I due eventi avversi sistemici correlabile alla vaccinazione (iperpiressia, vomito) si sono hanno innescato uno scompenso delle condizioni cliniche fino al decesso;
- 10 trombosi con trombocitopenia dopo vaccini a vettore virale, per alcuni dei quali si sono recentemente resi disponibili i documenti clinici per la valutazione;
- 10 fallimenti vaccinali con malattia da SarS-CoV-2 comparsa tra 3 settimane e 7 mesi dal completamento del ciclo vaccinale. In due casi le pazienti presentavano condizioni cliniche e terapie compatibili con uno stato di immunosoppressione. In altri 8 casi, i pazienti avevano un’età compresa tra i 76 e i 92 anni, con una condizione di fragilità per pluripatologie.
L’AIFA precisa che, a fronte di nuove informazioni disponibili, il nesso di causalità di un caso con esito fatale a seguito di complicanze da porpora trombotica trombocitopenica, precedentemente ritenuto come correlato alla vaccinazione, è stato rivalutato e sulla base delle attuali conoscenze definito come indeterminato.
L’AIFA ha anche confrontato i decessi attesi con quelli osservati entro i 14 giorni dalla vaccinazione: per qualunque dose, i decessi osservati sono sempre nettamente inferiori ai decessi attesi. Non c’è quindi, nella popolazione di soggetti vaccinati, alcun aumento del numero di eventi rispetto a quello che ci si sarebbe aspettato in una popolazione simile ma non vaccinata.

Non sono vaccini sperimentali
L’AIFA interviene anche sul fatto, spesso richiamato da molti oppositori alla vaccinazione anti Covid, che questi vaccini siano sperimentali. ”Va infatti sottolineato con estrema chiarezza - si legge nel rapporto AIFA - che nessuna delle fasi dello sviluppo pre-clinico e clinico (test di qualità, valutazione dell’efficacia e del profilo di sicurezza) dei vaccini è stata omessa e il numero dei pazienti coinvolti negli studi clinici è lo stesso di vaccini sviluppati con tempistiche standard”.
“Lo sviluppo clinico in tempi molto rapidi - sottolinea ancora l’AIFA - è stato possibile grazie a grandi investimenti economici e di know-how, che hanno permesso alle Aziende farmaceutiche e alle Istituzioni accademiche e di Ricerca pubblica di affiancare temporalmente le diverse fasi di sviluppo clinico e di arruolare negli studi di fase 3 un numero molto elevato (decine di migliaia) di partecipanti.


Covid: il cuore dei bambini si riprende in fretta dalla MIS-C

In 3-4 mesi la funzionalità cardiaca torna normale

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La funzionalità cardiaca dei bambini che hanno sviluppato la sindrome infiammatoria multisistemica (MIS-C) come complicanza del Covid ritorna a livelli completamente normali entro 3-4 mesi.
Sono incoraggianti i risultati di uno studio coordinato dalla University of Pennsylvania e pubblicato sul Journal of the American Heart Association. La MIS-C insorge in media tra un mese e un mese e mezzo dopo Covid e può causare infiammazione in diverse parti dell’organismo, dal cuore ai polmoni, dai reni al tratto gastrointestinale. Si stima che nell’80-85% dei casi di MIS-C si riscontrino di anomalie nella funzionalità del ventricolo sinistro, la camera del cuore che spinge il sangue in tutto l’organismo.
Lo studio ha preso in considerazione 60 bambini con un’età media di 11 anni che erano stati ricoverati per MIS-C in due ospedali di Philadelphia tra aprile 2020 e gennaio 2021 e confrontato gli esami cardiologici durante il decorso della malattia e nei successivi mesi con quelli di altrettanti bambini che non avevano avuto MIS-C né Covid. Dopo un importante decadimento iniziale, che, per i problemi di contrattilità del ventricolo sinistro ha riguardato l’81% dei bambini, già dopo la prima settimana dal ricovero si osservava un miglioramento della funzionalità cardiaca ed entro tre-quattro mesi si aveva un pieno recupero. Lo studio non ha riscontrato anomalie durature alle coronarie. I ricercatori hanno inoltre eseguito approfondimenti che hanno escluso anche la persistenza di danni nascosti al cuore che non avessero nell’immediato ripercussioni cliniche. “La guarigione di questi bambini è stata eccellente”, ha affermato il coordinatore dello studio Anirban Banerjee. “I nostri risultati possono anche fornire una guida per un graduale ritorno alla pratica sportiva tre-quattro mesi dopo la risoluzione dei problemi cardiaci. I test necessari per l’autorizzazione includono l’elettrocardiogramma e l’ecocardiogramma”, conclude il cardiologo che consiglia anche l’esecuzione di una risonanza magnetica cardiaca per i bambini che hanno avuto le disfunzioni più gravi.


Covid e bambini: mal di testa e stato mentale alterato i sintomi neurologici più diffusi

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Per uno studio dell’Università di Pittsburgh pubblicato su Pediatric Neurology più del 40% dei bambini ricoverati positivi al test per SARS-Cov-2 ha sintomi neurologici. Tra i più comuni la cefalea e uno stato alterato della coscienza.

Il 44% dei bambini ricoverati in ospedale positivi al test per il Covid presenta sintomi neurologici. E questi bambini hanno un rischio maggiore di dover ricorrere a cure intensive.
Sono i primi risultati ottenuti dal braccio pediatrico del GCS-NeuroCovid, lo studio internazionale multicentrico avviato nella primavera del 2020 per studiare gli effetti del Sars-Cov-2 sul sistema nervoso di adulti e bambini. I dati della ricerca sono pubblicati su Pediatric Neurology.
A livello globale, la pandemia di coronavirus ha provocato circa 13,5 milioni di casi e 10.600 decessi in bambini e nei giovani adulti con meno di 20 anni. Tra gli adulti ricoverati con covid-19, nel 36-82% dei casi la malattia acuta è stata responsabile di sintomi neurologici - riportano gli autori nel testo del paper - a carico del sistema nervoso centrale e periferico. Alcuni di questi, per esempio il mal di testa o uno stato mentale alterato o l’encefalite si possono verificare anche nei bambini con covid-19 e con MIS-C, la sindrome infiammatoria multisistemica (per info su MIS-C vedi Istituto Superiore di Sanità e CDC - Centers for Disease Control and Prevention).
“Il virus può colpire i pazienti pediatrici in modi differenti - ha detto Ericka Fink, intensivista pediatrica presso UPMC Children’s Hospital di Pittsburgh, professore associato di Terapia Intensiva e pediatria alla University of Pittsburgh e autore principale del paper su Pediatric Neurology - provocando una malattia acuta, con sintomi che si manifestano subito dopo l’infezione, oppure sviluppando la MIS-C, settimane dopo aver eliminato il virus”. Come ha spiegato Fink in un comunicato del Children’s Hospital, capire se i pazienti pediatrici con Covid-19 acuto o MIS-C sviluppino o no manifestazioni neurologiche simili è proprio uno degli obiettivi del GCS-NeuroCovid.

Soprattutto cefalea e confusione mentale
Fink è i suoi colleghi hanno coinvolto 30 Centri di Terapia Intensiva pediatrica nel mondo e reclutato 1.493 pazienti di massimo 18 anni ricoverati in ospedale con test positivo al Covid. A 1.278 di loro, cioè all’86%, era stata diagnosticata un’infezione da SARS-CoV-2 acuta mentre a 215, quindi al 14%, MIS-C. Il risultato? I sintomi neurologici più comuni associati a entrambe le patologie sono stati mal di testa e encefalopatia acuta (uno stato di confusione mentale, perdita di attenzione e memoria, stato di agitazione, fino ad una alterazione dello stato di coscienza), per tutti invece perdita dell’olfatto, disturbi della vista, ictus e psicosi sono stati eventi rari. Nei pazienti con MIS-C i sintomi neurologici erano più comuni che non in quelli con SARS-Cov-2 acuto, e, sempre i bambini con MIS-C, avevano una probabilità più alta di averne due o più, di questi sintomi.

I numeri
In termini di numeri, complessivamente il 44% dei giovani pazienti reclutati aveva almeno un sintomo neurologico (rispettivamente 40% dei bambini con SARS-CoV-2 acuto e il 66% di quelli con MIS-C). I sintomi neurologici più comuni nei bambini con diagnosi acuta di SARS-CoV-2 e MIS-C sono stati mal di testa (16% nei primi e 47% nei secondi) ed encefalopatia acuta (15% e 22%). I bambini con questi sintomi neurologici avevano maggiori probabilità di aver bisogno di cure intensive (51% contro 22%).

Pochissimi decessi
“Per fortuna i tassi di mortalità nei bambini sono bassi, sia per il Sars-CoV-2 acuto che per la MIS-C”, ha commentato Fink i risultati della ricerca, di cui è l’autrice principale. “Ma - ha aggiunto - questo studio ci dice che la frequenza delle manifestazioni neurologiche è alta, e potrebbe essere anche più alta di quella misurata perché i sintomi di cui parliamo non sono sempre riportati in cartella clinica né sempre valutabili: per esempio non possiamo sapere se un bambino ha mal di testa”.

Tenere traccia: del Covid e di altre infezioni
I ricercatori stanno conducendo uno studio di follow-up per capire se il Covid-19 o la MIS-C possono avere effetti duraturi sulla salute o sulla qualità della vita dei bambini, a prescindere dal fatto che questi presentino o meno sintomi neurologici. “Un altro obiettivo a lungo termine della nostra ricerca - ha aggiunto e concluso Fink - è costruire un database che tenga traccia delle manifestazioni neurologiche nel tempo, non solo per SARS-CoV-2, ma anche per altre infezioni”.


Pubertà precoce, in Italia raddoppiati i casi nelle bambine durante la pandemia

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I casi di pubertà precoce o anticipata osservati nel semestre marzo-settembre 2020 in Italia sono più che raddoppiati rispetto allo stesso periodo del 2019: lo dimostra uno studio osservazionale coordinato dall’Ospedale Bambino Gesù che ha coinvolto i Centri di Endocrinologia pediatrica dell’Ospedale Gaslini di Genova, del Policlinico Federico II di Napoli, dell’Ospedale Pediatrico Microcitemico di Cagliari e della Clinica Pediatrica Ospedale di Perugia. In totale sono stati rilevati 338 casi contro i 152 dell’anno precedente, con un aumento pari al 122%. Il fenomeno ha interessato soprattutto bambine di età intorno ai 7 anni. Lo studio, pubblicato da Endocrine Connections, conferma i numeri della precedente ricerca del Reparto di Endocrinologia del Bambino Gesù, guidato dal prof. Marco Cappa nell’ambito dell’Unità di Ricerca di Terapie Innovative per le Endocrinopatie (Italian Journal of Pediatrics, 2021) e prova a gettare luce sulle cause. Attraverso interviste telefoniche alle famiglie dei pazienti sono stati raccolti i dati necessari per valutare anche i possibili fattori predisponenti.

La pubertà precoce
L’inizio della maturazione sessuale prima degli 8 anni nelle bambine e prima dei 9 anni nei maschi viene identificata come pubertà precoce. È annoverata tra le malattie rare. In Italia riguarda da 1 a 6 nati ogni 1000. Il corpo del bambino inizia a trasformarsi in adulto prima del tempo, con un’accelerazione dello sviluppo dei caratteri sessuali e una rapida chiusura delle cartilagini di accrescimento osseo: per effetto di questo processo, i bambini crescono velocemente in altezza, ma poi il picco si esaurisce e da adulti hanno una statura inferiore alla media. Se la diagnosi interviene precocemente - prima degli 8 anni - è possibile usare dei farmaci per rallentare la pubertà.

L’incremento dei casi nelle bambine
Nel nuovo studio multicentrico, il maggiore aumento dei casi è stato osservato nelle bambine (328 pazienti nel 2020 contro 140 nel 2019, con un incremento del 134%) e soprattutto nella seconda metà del periodo di osservazione (92 bambine tra marzo e maggio rispetto alle 236 bambine del periodo tra giugno e settembre 2020, con un incremento del 156%). Non è stato invece rilevato un aumento significativo dei casi nei maschi (10 pazienti nel 2010 contro i 12 del 2019). «Al momento non abbiamo spiegazioni per questa differenza tra i sessi - afferma Carla Bizzarri, pediatra endocrinologa del Bambino Gesù che ha coordinato lo studio -. Sappiamo però che la pubertà precoce è molto meno comune nel maschio rispetto alle femmina ed è più spesso il risultato di mutazioni genetiche predisponenti o disturbi organici dell’asse ipotalamo-ipofisario. Possiamo ipotizzare che l’impatto di fattori scatenanti ambientali, quali quelli correlati alla pandemia, sia meno significativo sui tempi della pubertà maschile». L’età media delle bambine osservate per pubertà precoce nello studio multicentrico è intorno ai 7 anni (senza differenze tra il 2019 e il 2020). Confrontando le popolazioni del 2019 e del 2020 non si evidenziano differenze significative dei parametri clinici ed auxologici (ovvero peso, altezza, BMI cioè l’indice di massa corporeo, peso alla nascita, età di inizio dei sintomi). In particolare, a differenza di quanto ci si sarebbe atteso dopo il primo lockdown del 2020, non è stato osservato un aumento significativo del peso e quindi del BMI. Nel 2020 risulta, invece, un aumento significativo dei casi di pubertà precoce a rapida evoluzione, cioè di quelli che richiedono una specifica terapia farmacologica (135 su 328 bambine osservate nel 2020 a fronte di 37 su 140 bambine osservate nel 2019, con una forbice di incremento dal 26% al 41%).

Abitudini alimentari e stili di vita
Nelle interviste alle famiglie delle bambine con pubertà precoce riguardo le abitudini alimentari e lo stile di vita, è emerso un aumento significativo dell’uso dei dispositivi elettronici (PC, tablet, smartphone) nel 2020 rispetto al 2019. L’aumento dell’uso complessivo settimanale di questi dispositivi è riconducibile all’introduzione della DAD (raramente usata nella scuola primaria prima del 2020), insieme alla persistenza del loro uso per lo svago nel tempo libero. Un uso maggiore dei dispositivi elettronici, d’altra parte, è stato rilevato, già nel periodo precedente la pandemia, nelle bambine a cui è stata diagnosticata una pubertà precoce a rapida evoluzione nel 2020. Il primo lockdown del 2020 ha provocato anche una drastica riduzione dell’attività fisica praticata da bambini e ragazzi, a causa del forzato confinamento domestico. In particolare, nel sottogruppo con pubertà precoce a rapida evoluzione del 2020, è stato rilevato uno stile di vita più sedentario, già evidente prima della pandemia. Riguardo alle abitudini alimentari, a fronte di un maggior senso di fame nelle pazienti del 2020 riferito dalle famiglie, non corrisponde un aumento significativo dell’uso di carni bianche o “cibo spazzatura”. Più della metà delle famiglie delle pazienti osservate nel 2020, infine, ha riferito di cambiamenti nel comportamento (59%) e segnalato un aumento rilevante di sintomi correlabili allo stress (63%). Anche se non è possibile definire un sicuro nesso causale, i risultati suggeriscono che un evento stressante (come il primo lockdown del 2020) possa aver innescato una precoce attivazione puberale in soggetti predisposti a causa di uno stile di vita più sedentario già evidente prima della pandemia.

Il ruolo dello stress
Diversi studi scientifici hanno analizzato l’impatto del Covid-19 e dell’isolamento sociale sulla salute mentale di bambini e adolescenti, segnalando un aumento significativo dei disturbi comportamentali ed emotivi a seguito della chiusura delle scuole. In particolare, un recente lavoro dell’Unità di Neuropsichiatria Infantile del Bambino Gesù ha descritto un disturbo da stress post-traumatico a causa della quarantena o dell’isolamento sociale nel 30% dei bambini osservati. «Al di là dell’esercizio fisico in sé - afferma la dott.ssa Bizzarri -, diversi studi hanno dimostrato un’associazione positiva tra attività fisica e benessere psicologico nei bambini e negli adolescenti. Lo stile di vita sedentario, invece, è stato correlato sia all’aumento della depressione che alla percezione di una qualità di vita meno soddisfacente. Recentemente, inoltre, si è visto come l’ansia e la tendenza all’isolamento sociale nelle ragazze in età prepuberale siano associate a un esordio puberale precoce». «Sappiamo oggi - prosegue la dott.ssa Bizzarri - che la secrezione dell’ormone ipotalamico che dà inizio allo sviluppo puberale (GnRH) è regolata a livello del cervello, ma i meccanismi responsabili non sono ancora completamente noti. Potremmo presumere che una disregolazione dei neurotrasmettitori cerebrali indotta dallo stress sia alla base dell’aumento di nuovi casi di pubertà precoce osservati durante la pandemia. Lo stress potrebbe agire come un fattore scatenante più potente sui neuroni che secernono GnRH nelle ragazze con ulteriori fattori di rischio, come uno stile di vita sedentario e un eccessivo uso di dispositivi elettronici già evidenti prima della pandemia. La verifica di questa ipotesi apre interessanti prospettive di sviluppo per la ricerca clinica nel campo della pubertà precoce dei prossimi anni».


Covid. Pediatri: “Il nostro lavoro è sommerso per il 90% dalla pandemia”

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Dopo due anni di emergenza i pediatri di famiglia fanno sapere di non riuscire più a rispondere a tutte le richieste e ai dubbi dei cittadini sul fronte Covid. Anche perché la situazione blocca quelle attività che sono il fondamento della professione: diagnosi, cura e prevenzione. “Abbiamo chiesto alla Regione gli incentivi previsti per assumere gli infermieri a darci una mano con le attività Covid, ma non li abbiamo mai ricevuti. È tutto sulle nostre spalle”.

La pressione sui medici delle attività legate al Covid-19 si fa sentire anche sul fronte dei pediatri di famiglia. “Il nostro lavoro è sommerso per il 90% da attività Covid - afferma Franco Pisetta, segretario regionale della FIMP Veneto - e dopo due anni di emergenza siamo ora al massimo coinvolgimento. Iniziamo al mattino presto e finiamo alla sera tardi, mentre al sabato e alla domenica molti di noi sono negli Hub per i vaccini anti Covid. Ma ciò che più dispiace è che non riusciamo più a fare prevenzione sui bambini, i bilanci di salute e altre attività legate alla prevenzione e alla educazione sanitaria per le famiglie, specialmente se si tratta di neo genitori. Sono tutte attività per cui abbiamo dato tutta la nostra vita fra studio e lavoro e che ora diventano sempre più impossibile da svolgere”.
Le attività Covid a cui fa riferimento il segretario dei pediatri sono diverse e se messe una in fila dietro l’altra tolgono spazio e lavoro a quelle che sono le attività principali del pediatra. Secondo il segretario dei pediatri, tutte queste attività come le decine e decine di telefonate quotidiane per la gestione dei bambini positivi e dei contatti, per spiegare procedure in costante cambiamento, per le ricette, le impegnative, i certificati e poi i tamponi e magari i vaccini.
“Da ottobre a dicembre vi è stata una epidemia di bronchioliti nei lattanti - considera Pisetta - con numerosi ricoveri, anche se la maggioranza è potuta rimanere sotto controllo a casa. Da novembre in poi abbiamo avuti i vaccini antinfluenzali e poi, con l’arrivo dell’inverno, Omicron ha dilagato. Da qui siamo ripartiti un’altra volta con tutte le attività Covid a spron battuto. Rispondiamo a più di 100 telefonate al giorno (della inevitabile durata di 5/10 minuti ciascuna). Nella prima ondata sembrava che i bambini fossero risparmiati dal SARS-CoV-2, ma poi abbiamo dovuto ricrederci. I bambini si infettano, alcuni anche con sintomatologia febbrile di rilievo almeno nella fase iniziale e un numero decisamente superiore rispetto alle prime ondate deve anche essere ricoverato. E poi la gestione dei casi e dei contatti scolastici è una criticità per tutti, ma per le famiglie in particolare per le quali siamo il primo riferimento e alle quali cerchiamo di fornire risposte e soluzioni”.
“Abbiamo chiesto alla Regione Veneto degli incentivi previsti da finanziamenti nazionali - spiega il segretario regionale della FIMP Veneto - per assumere degli infermieri in grado di darci una mano con le attività Covid, come i tamponi, gli adempimenti burocratici, i vaccini e molto altro ancora, ma non li abbiamo mai ricevuti e per cui è tutto sulle spalle del pediatra”.
Negli ultimi giorni i nuovi interventi governativi hanno portato alla semplificazione di alcune procedure, in particolare per il controllo dei contatti scolastici e le quarantene collegate. “Potrà essere solo la vaccinazione di massa, di tutta la popolazione, compresi tutti i bambini che, salvaguardando tutti i vaccinati dalle conseguenze gravi dell’infezione, potrà finalmente trasformare una grave pandemia in una infezione endemica, magari con vaccinazione annuale, e l’eventuale infezione individuale decorrere in maniera asintomatica o con una lieve sintomatologia con scarse necessità di ricovero”, conclude Pisetta.


La Giornata contro le mutilazioni genitali femminili

OMCEO Firenze: “Una pratica cruenta che deve essere abbandonata”

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Per la Giornata mondiale contro le mutilazioni genitali femminili e i matrimoni precoci/forzati incontro dell’Ordine in Palazzo Vecchio assieme al Comune. Spiega la coordinatrice del convegno: “Problema che riguarda tutto il mondo, pratica che deve scomparire: bambine, ragazze e donne che le subiscono incorrono in rischi gravi e talvolta irreversibili per la loro salute, pesanti le conseguenze psicologiche”.

Anche Firenze si unisce all’appello globale per abbandonare una delle pratiche più crudeli ancora diffuse in alcune culture: la mutilazione dei genitali femminili (MGF).
Nella Giornata mondiale contro le mutilazioni genitali femminili ed i matrimoni precoci/forzati, il 6 febbraio, l’Ordine dei Medici di Firenze insieme al Comune di Firenze organizza nel Salone dei Duecento in Palazzo Vecchio un incontro al fine di unire le forze per raggiungere l’abbandono della pratica, che consiste nella rimozione cruenta, parziale o totale, dei genitali femminili esterni o anche una lesione, pur minima, su di essi per motivi culturali o sociali, quindi non terapeutici. All’incontro ne discuteranno rappresentanti delle istituzioni, medici, avvocati, esperti internazionali.

“È un problema che riguarda tutto il mondo, una pratica che deve scomparire: bambine, ragazze e donne che subiscono mutilazioni dei genitali incorrono in rischi gravi e talvolta irreversibili per la loro salute e a pesanti conseguenze psicologiche”, afferma la dottoressa Maria Antonia Pata, coordinatrice dell’incontro. “Con questo convegno vogliamo riaprire un confronto tra numerosi esperti ed operatori del settore per sensibilizzare e ribadire ‘Zero Tolerance’ a questa pratica. Ringraziamo il Comune di Firenze per la sensibilità dimostrata su questo tema, in particolare l’assessore al Welfare Sara Funaro, i consiglieri Donata Bianchi presidente della Settima commissione consiliare, Mimma Dardano presidente della Quarta commissione consiliare e Nicola Armentano, medico e membro della stessa commissione”.

Secondo i dati UNICEF-UNFPA 2020, la pratica delle mutilazioni genitali femminili è prevalentemente diffusa in Paesi del Corno d’Africa-Medio Oriente come Iraq e Yemen in alcuni Paesi dell’Asia come Indonesia e Maldive. È dominante (al 90%) in Somalia, Guinea e Gibuti. Anche nei Paesi occidentali, in relazione ai nuovi scenari multietnici, è cresciuta considerevolmente la presenza di bambine e donne affette da mutilazioni o che rischiano di subirne. In Italia su circa 76.000 ragazze tra 0 e 18 anni provenienti da Paesi che praticano le mutilazioni circa il 15-24% sono a rischio, secondo i dati 2017-18 dell’Istituto Europeo per l’uguaglianza di genere.
Stime UNICEF del 2020 riferiscono che circa 200 milioni di ragazze e giovani donne nel mondo che vivono con gli esiti e retaggi di una qualunque forma di mutilazione.
Il convegno è organizzato in collaborazione con Associazione Nosotras, Associazione Volontari Ospedalieri, Associazione Good World Citizen, Scuola Fiorentina Dialogo Interreligioso, Associazione Medici Africani, Unione delle Comunità Africane in Italia. È stato invitato l’assessore regionale alla Sanità Simone Bezzini.


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