Rivista di formazione e aggiornamento di pediatri e medici operanti sul territorio e in ospedale. Fondata nel 1982, in collaborazione con l'Associazione Culturale Pediatri.

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a cura di Maria Valentina Abate

UOC di Pediatria, Ospedale di Treviglio (Bergamo)

Indirizzo per corrispondenza: valentina_aba@yahoo.it

Sommario

Covid. “Il 76% dei bambini ricoverati non è vaccinato”. Il monitoraggio dei pediatri ospedalieri

Picco dei contagi, nei bimbi aumenta il rischio della sindrome MIS-C

USA: i vaccini per i bambini sono sicuri, 8 miocarditi su 7 milioni di dosi

Bimbi con asma difficile più a rischio di ricovero per Covid

Covid, nei bambini guariti aumenta il rischio di diabete

Con dieta mediterranea e mindfulness maggiori probabilità di avere neonati “giusti” per età gestazionale

Tumori infantili. Nuove possibilità di cura grazie ai meccanismi di regolazione basati sull’RNA

Alimentazione e obesità. Mangiare veloce fa male al metabolismo e raddoppia il rischio di colesterolo

Ipertensione, quando mette a rischio il cervello dei giovani

Dislipidemia

Malattie da accumulo lisosomiale: fino a 14 anni il ritardo diagnostico


Covid. “Il 76% dei bambini ricoverati non è vaccinato”. Il monitoraggio dei pediatri ospedalieri

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I dati raccolti nel primo monitoraggio dell’Associazione degli Ospedali Pediatrici Italiani riguardano la giornata di lunedì 10 gennaio 2022: nei principali ospedali pediatrici italiani erano 212, in tutto, i bambini ricoverati: 192 nell’area medica e 20 nell’area intensiva. Del 212 bambini ricoverati, 134 sono nella fascia età tra 0 e 4 anni mentre 78 hanno un’età compresa tra i 5 e i 18 anni. La variabile della vaccinazione pesa in modo significativo sulla gravità dell’infezione: su 13 piccolissimi ricoverati in Terapia Intensiva o sub intensiva, ben 9 hanno genitori non vaccinati.

Il 76% dei ricoveri in area medica tra i 5 e i 18 anni riguarda pazienti non vaccinati. E il 69% dei ricoveri in area intensiva dei piccoli fino a 4 anni riguarda bambini che hanno genitori non vaccinati. Sono questi alcuni dei dati più significativi che emergono dalla rilevazione di AOPI, l’Associazione degli Ospedali Pediatrici Italiani, che ha attivato un sistema di monitoraggio settimanale dei pazienti Covid - bambini e adolescenti - ricoverati sia in area medica che in area critica. La raccolta dati, effettuata dalle quindici realtà italiane più importanti nell’ambito delle cure dei più piccoli e dei giovanissimi, servirà per fornire un quadro aggiornato dell’andamento dei ricoveri in età pediatrica e della gravità delle condizioni cliniche dei piccoli pazienti. Uno strumento di controllo che sarà utile al fine di fornire dati utili a prendere decisioni strategiche. Tra i parametri presi in considerazione nel monitoraggio, oltre alle fasce di età, c’è anche la percentuale di pazienti che hanno ricevuto il vaccino.

I dati
I dati raccolti nel primo monitoraggio riguardano la giornata di lunedì 10 gennaio 2022: nei principali ospedali pediatrici italiani erano 212, in tutto, i bambini ricoverati: 192 nell’area medica e 20 nell’area intensiva. Si tratta di numeri decisamente superiori a quelli registrati nel corso delle precedenti tre ondate dell’epidemia e indicano che adesso i bambini sono più colpiti dal virus rispetto al passato, anche se per fortuna, nella maggior parte dei casi, i sintomi restano lievi. Del 212 bambini ricoverati, 134 sono nella fascia età tra 0 e 4 anni mentre 78 hanno un’età compresa tra i 5 e i 18 anni. La variabile della vaccinazione pesa in modo significativo sulla gravità dell’infezione: su 13 piccolissimi ricoverati in Terapia Intensiva o sub intensiva, ben 9 hanno genitori non vaccinati.
“Questi dati ci spingono a lanciare con convinzione un appello: è importante vaccinare al più presto tutti i bambini. E per quelli che sono in una fascia di età che ancora non può accedere alla vaccinazione, è importante che siano i genitori a proteggerli, vaccinandosi”.


Picco dei contagi, nei bimbi aumenta il rischio della sindrome MIS-C

Ospedale pediatrico Meyer di Firenze: può colpire dopo l’infezione

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I numerosi casi di Covid che si stanno registrando nei bambini, sebbene per la maggior parte non siano gravi, potrebbero provocare nelle prossime settimane un aumento di piccoli pazienti colpiti da sindrome infiammatoria multisistemica (MIS-C), una risposta iper-infiammatoria al virus che può provocare conseguenze molto gravi.
A spiegarlo è la dottoressa Francesca Bellini, direttore sanitario dell’ospedale pediatrico Meyer di Firenze.
“Sappiamo che nei bambini a distanza di circa un mese dall’infezione da Covid, anche se asintomatica, può verificarsi questa sindrome infiammatoria multisistemica, grave e pericolosa.
Per questo temiamo che questi grandi numeri di contagi possano avere effetti a distanza nelle prossime settimane”.
Al momento nell’ospedale pediatrico fiorentino non c’è nessun paziente ricoverato in Rianimazione a causa del Covid, sebbene si stia assistendo al picco dei ricoveri. “Abbiamo un piano progressivo di espansione di letti dedicati al Covid. Un mese fa eravamo al livello uno, con tre letti in area ordinaria e due in area critica. Ora siamo al livello quattro, con 22 letti disponibili in area ordinaria, dove attualmente sono ricoverati 18 bimbi”. Di questi casi, il 40% si trova ricoverato per altre patologie e ha scoperto di essere positivo al Covid al momento dell’ingresso in ospedale. “Sono numeri preoccupanti per la tenuta dell’ospedale e per il mantenimento delle altre attività”. Tra i pazienti Covid, anche “due adolescenti che sono in ospedale per disturbi psichiatrici che sono effetto indiretto della pandemia”. Per quanto riguarda i piccoli pazienti che si trovano in ospedale per problemi legati direttamente al Covid, i sintomi principali sono tosse, faringite, polmonite e disturbi gastrointestinali.


USA: i vaccini per i bambini sono sicuri, 8 miocarditi su 7 milioni di dosi

Effetti collaterali lievi

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Solo 8 casi di miocardite su 7.141.428 milioni di dosi somministrate in bambini al di sotto degli 11 anni.
I dati sulla sicurezza dei vaccini anti-Covid-19 nei bambini arriva dal meeting dell’Advisory Committee on Immunization Practices (ACIP) dei CDC americani.
Nel complesso, il rapporto ha riportato sintomi lievi (febbricola, mal di testa, nausea o vomito), che insorgono nella maggior parte dei casi il giorno stesso della vaccinazione e più spesso dopo la seconda dose.
Meno di 1 bambino su 10 ha disturbi tali da non dover andare a scuola il giorno seguente e circa l’1% ha dovuto rivolgersi al proprio medico.
Nel complesso il 97% delle segnalazioni riportate sono definite lievi. Tra quelle considerate severe, il sistema di sorveglianza americano ha rilevato 8 casi di miocardite, l’effetto collaterale dei vaccini a mRNA che più ha attirato l’attenzione negli ultimi mesi. In tutti i casi si è trattato di forme non gravi: 5 si sono già risolti, 1 è in via di risoluzione, sugli altri due si è in attesa di maggiori informazioni. I CDC stanno ancora indagando su altri 6 casi di sintomatologia potenzialmente compatibili con la miocardite.
Dal report non emergono effetti collaterali diversi da quelli che erano stati riscontrati nelle sperimentazioni cliniche.
Il rapporto ha riportato anche il caso di due decessi successivi alla vaccinazione, ma il nesso con il vaccino non è stato dimostrato. Si trattava di due bambine di 5 e 6 con “storia medica complessa”, spiega il rapporto, entrambe affette da paralisi cerebrale spastica complicata da ulteriori patologie.


Bimbi con asma difficile più a rischio di ricovero per Covid

Gli esperti: dare priorità a loro per il vaccino

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I bambini con asma mal controllato (ad esempio quelli che hanno dovuto ricorrere a cure ospedaliere per un attacco di asma) sono fino a sei volte più a rischio di ricovero in caso di Covid e per questo vanno vaccinati presto: è quanto affermato da esperti delle Università di Edimburgo, Aberdeen, Glasgow, Strathclyde e St Andrews in un articolo su Lancet Respiratory Medicine.
Per lo studio gli esperti si sono serviti dei dati raccolti nell’ambito del vasto progetto di ricerca scozzese EAVE II Covid-19 surveillance platform, contenente qualcosa come 750.000 dati anonimi relativi a bambini e ragazzi di 5-17 anni, inclusi 63.463 bambini con asma.
Tra questi ultimi ci sono stati 4339 casi confermati di Covid-19 tra 1° marzo 2020 e 27 luglio 2021, di cui 67 sono finiti in ospedale. Tra i bambini senza asma ci sono stati 40.231 casi confermati di Covid-19, di cui 382 finiti in ospedale.
Ebbene, è emerso che 255 ogni 100.000 bambini asmatici con malattia non sotto controllo sono stati ricoverati per Covid-19 contro 54 ogni 100.000 bambini senza asma e 91 per 100.000 coetanei con la malattia respiratoria ma sempre sotto controllo.
I ricercatori suggeriscono quindi di dare priorità ai bambini con asma per la vaccinazione anti-Covid in questa fascia di età, specie a quelli la cui malattia respiratoria non è ben sotto controllo ed è già stata di per se stessa causa di ricoveri o terapie ripetute con cortisonici.


Covid, nei bambini guariti aumenta il rischio di diabete

I bambini colpiti dal Covid-19 sono a maggior rischio diabete rispetto a chi non contrae la malattia: è il risultato di uno studio dei CDC americani su oltre 80mila under-18. Ecco cosa ne pensa l’Endocrinologia italiana

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I bambini guariti dal Covid-19 sono più esposti al rischio di contrarre il diabete: è quanto afferma uno studio dei CDC (Centers for Disease Control and Prevention) degli Stati Uniti.

Cosa dice il report
Gli studiosi americani hanno osservato e descritto il rischio di diabete 30 giorni dopo l’infezione da SARS-CoV-2 tra 80.893 pazienti di età inferiore ai 18 anni dal 1° marzo 2020 al 28 giugno 2021. “Le persone con meno di 18 anni infettate dal Covid-19 hanno avuto maggiori probabilità di ricevere una nuova diagnosi di diabete 30 giorni dopo l’infezione rispetto a quelle senza Covid-19 e quelle con infezioni respiratorie acute prepandemiche”, scrivono i ricercatori. Ebbene, le nuove diagnosi di diabete avevano il 166% in più di verificarsi in bambini contagiati dal virus rispetto agli altri e del 116% in più tra quelli con Covid-19 rispetto ai virus respiratori pre-pandemici.
Il rapporto ha confrontato i bambini che hanno preso la malattia rispetto a chi non è mai stato infettato, mostrando come nel primo caso “l’incidenza del diabete è stata significativamente più alta”. Inoltre, i ricercatori scrivono come sia molto complesso il meccanismo di come SARS-CoV-2 possa portare alla diagnosi della malattia “e potrebbe differire in base al diabete di tipo 1 e di tipo 2” anche se è stato osservato come l’aumento maggiore si sia avuto con il diabete 1. “L’associazione osservata dell’aumento del rischio di diagnosi del diabete in seguito all’infezione da SARS-CoV-2 non sarebbe spiegata esclusivamente da cure ritardate”, sottolineano i ricercatori.

Come incide il Covid-19
Ma cosa accade all’organismo degli adolescenti colpiti dal virus? In che modo si arriva alla diagnosi della malattia? I ricercatori hanno ipotizzato che il diabete sarebbe causato dall’attacco diretto del Covid alle cellule pancreatiche “che esprimono i recettori dell’enzima 2 di conversione dell’angiotensina, attraverso l’iperglicemia da stress derivante dalla tempesta di citochine e le alterazioni del metabolismo del glucosio causate dall’infezione, o attraverso la precipitazione del prediabete al diabete”. Una percentuale di questi nuovi casi, probabilmente, si è verificata in persone con prediabete, che si verifica in un adolescente su cinque negli Stati Uniti.
Secondo i CDC americani, i sintomi che indicano l’insorgenza del diabete nei piccoli possono includere minzione frequente, aumento della sete, aumento della fame, perdita di peso, stanchezza o affaticamento, mal di stomaco e nausea o vomito. “Questi risultati sottolineano l’importanza della prevenzione del Covid-19 tra tutti i gruppi di età, compresa la vaccinazione per tutti i bambini e gli adolescenti idonei e la prevenzione e il trattamento delle malattie croniche”, scrivono i ricercatori americani.

“Servono più endocrinologi”
Dopo questo studio, è allerta nell’Associazione Medici Endocrinologi (AME) italiana: dal momento che i bambini guariti da Covid sono “più a rischio diabete, servono più endocrinologi per il post-pandemia”, afferma con una nota l’Associazione. “L’endocrinologo è destinato a diventare una figura chiave per affrontare le emergenze post-Covid. Servono più specialisti e, in generale, una nuova organizzazione dell’Endocrinologia nelle strutture ospedaliere”, afferma l’AME dopo la pubblicazione del report del CDC americano che conferma l’associazione tra infezione Covid-19 ed esordio di diabete di tipo 1 nella popolazione giovanile.
“I nuovi dati non fanno altro che confermare le numerose segnalazioni presenti in letteratura già nei primi mesi del 2020, provenienti anche da accreditati gruppi di studio italiani, riguardo alla possibile correlazione tra Covid e malattie autoimmuni, in particolare il diabete tipo 1”, sottolinea all’ANSA Franco Grimaldi, presidente AME, il quale spiega come sia ben conosciuto il rischio maggiore di sviluppare questa malattia nei bambini dopo infezioni virali. “Sappiamo che i bambini vaccinati per il rotavirus hanno meno probabilità di sviluppare il diabete mellito di tipo 1 - sottolinea - Ma nel caso specifico del Covid-19 resta da verificare se si tratta di un reale aumento della patologia o un anticipato esordio in soggetti predisposti. Solo l’osservazione nei prossimi anni potrà darci risposte in tal senso”.
È per questo che l’Associazione chiede di ripensare e rivedere il ruolo dell’Endocrinologia considerata, da Grimaldi, “la Cenerentola della Sanità a causa dei numerosi tagli subiti”. Per questa ragione, il 20 gennaio l’AME ha presentato al Ministero della Salute il nuovo report sul posizionamento strategico e organizzativo dell’assistenza endocrinologica.


Con dieta mediterranea e mindfulness maggiori probabilità di avere neonati “giusti” per età gestazionale

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Uno studio spagnolo sulle donne in gravidanza ha riscontrato che la dieta mediterranea e la mindfulness per ridurre lo stress sono interventi efficaci per evitare che nascano bambini troppo piccoli per età gestazionale.

Scegliere la dieta mediterranea o ridurre lo stress praticando la mindfulness durante la gravidanza può ridurre il rischio di dare alla luce neonati piccoli per età gestazionale. E’ quanto emerge da uno studio pubblicato da JAMA.
I ricercatori - coordinati da Eduard Gratacos dell’Università di Barcellona - hanno assegnato a caso 1221 donne con gravidanze non gemellari dalla 19° alla 23° settimana di gestazione a partecipare a un programma alimentare basato sulla dieta mediterranea, un programma di riduzione dello stress tramite la mindfulness o a un gruppo di controllo che ha ricevuto solo l’assistenza abituale in gravidanza.
L’endpoint primario del trial era evitare che i bambini nascessero piccoli per la loro età gestazionale (SGA), definita dai ricercatori come un peso alla nascita al di sotto del 10° percentile. 1.184 donne hanno completato il trial, delle quali 392 erano assegnate al gruppo della dieta mediterranea e 391 randomizzate a seguire il programma per la riduzione dello stress.
Le donne nel gruppo della dieta hanno ricevuto due ore al mese di educazione individuale o di gruppo su come seguire una dieta mediterranea, e una fornitura di noci e olio di oliva per integrare gli alimenti consumati a casa fino alla fine dell’intervento, a 23-26 settimane di gestazione.
Le donne nel gruppo della mindfulness hanno ricevuto 8 settimane di terapia che prevedevano una seduta di un intero giorno e sessioni settimanali da 2,5 ore.
Rispetto al gruppo di controllo, le donne avevano significativamente meno probabilità di nascite SGA sia nel gruppo della dieta mediterranea (odds ratio 0,58), sia in quello della riduzione dello stress (OR 0,66). Nel complesso sono nati 88 (21,9%) bambini SGA nel gruppo di controllo, rispetto ai 55 (14,0%) nel gruppo della dieta mediterranea e ai 61 (15,6%) in quello della riduzione dello stress.
“Il rapporto tra un cattivo o sub-ottimale stile di vita e la nascita di bimbi piccoli per la loro età gestazionale, nonché altre complicazioni della gravidanza, è ben noto”, osserva l’autore principale dello studio”. Tuttavia, fino a oggi, nessuno studio clinico aveva affrontato la questione se interventi strutturati sullo stile di vita focalizzati sulla nutrizione o sullo stress siano in grado di ridurre le nascite di bambini piccoli per la loro età gestazionale”.
“Anche se il meccanismo esatto non è chiaro, entrambi gli interventi utilizzati nello studio sono stati associati a riduzioni di infiammazione, stress ossidativo e invecchiamento cellulare, tutti processi che sono stati documentati nella limitazione della crescita fetale e nell’insufficienza placentale”.
Lo studio si è anche focalizzato su un endpoint secondario composito di esiti perinatali avversi, tra cui parto pretermine, pre-eclampsia, mortalità perinatale, SGA grave, acidosi neonatale, basso indice di Apgar o importanti morbilità neonatali. Rispetto al gruppo di controllo, le donne avevano una probabilità significativamente inferiore di esiti perinatali avversi sia nel gruppo della dieta mediterranea (OR 0,64), sia in quello della riduzione dello stress (OR 0,68).


Tumori infantili. Nuove possibilità di cura grazie ai meccanismi di regolazione basati sull’RNA

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Un gruppo di ricercatori della Sapienza di Roma, in collaborazione con l’Istituto Italiano di Tecnologia, ha scoperto come l’interazione tra due specifiche molecole di RNA favorisca in laboratorio la crescita di cellule di rabdomiosarcoma, uno dei tumori maligni più ricorrenti in età pediatrica. I risultati dello studio sostenuto da Fondazione AIRC sono stati pubblicati sulla rivista Molecular Cell e aprono nuove strade al trattamento di tumori maligni infantili.

L’interesse della scienza per gli RNA circolari (circRNA) è in crescita per le caratteristiche peculiari di questa classe emergente di molecole e per il loro ruolo in diverse condizioni patologiche tra cui il cancro.
In uno studio del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza Università di Roma e dell’Istituto italiano di tecnologia (IIT), i ricercatori hanno individuato un inedito meccanismo molecolare alla base della regolazione dell’espressione di diverse proteine. Si tratta dell’interazione tra molecole di RNA (in particolare tra un RNA circolare, circZNF609, e alcuni RNA messaggeri). In esperimenti di laboratorio i ricercatori hanno scoperto che, in un caso specifico, l’interazione con l’mRNA che contiene le istruzioni per la proteina CKAP5, a sua volta coinvolta nel controllo della duplicazione cellulare, regola la capacità proliferativa delle cellule di rabdomiosarcoma, un tumore maligno pediatrico.
I risultati dello studio sostenuto dalla Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro sono stati pubblicati sulla rivista Molecular Cell e rappresentano un ulteriore progresso nella comprensione delle diverse funzioni che l’RNA svolge nelle cellule. In particolare, è stata così chiarita una nuova rilevante funzione delle molecole di RNA circolari.
Nello specifico, i ricercatori hanno dimostrato come questo meccanismo di regolazione genica sia capace di regolare la crescita delle cellule di rabdomiosarcoma, uno dei tumori maligni più ricorrenti in età pediatrica e che fa parte dei cosiddetti sarcomi dei tessuti molli, tumori che si sviluppano nei muscoli, nel grasso e nel tessuto connettivo.
Spiega Irene Bozzoni della Sapienza, coordinatrice dello studio: “Impedendo l’interazione tra le due molecole di RNA, siamo riusciti a rendere le cellule tumorali in coltura più sensibili a diversi trattamenti chemioterapici generalmente usati nella cura del rabdomiosarcoma, ma spesso inefficaci nei casi più gravi”.
Si è inoltre evidenziato che questo meccanismo è presente anche in altri tipi di tumore, come la leucemia mieloide cronica e il neuroblastoma, rendendo questo circuito molecolare un interessante candidato per nuove terapie mediche basate sull’RNA.
Tali risultati sottolineano l’importanza dello studio delle interazioni tra RNA non codificanti e mRNA per l’identificazione di nuovi meccanismi di regolazione di importanti processi cellulari.


Alimentazione e obesità. Mangiare veloce fa male al metabolismo e raddoppia il rischio di colesterolo

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Mangiare in meno di 20 minuti raddoppia il rischio di colesterolo alto, pranzare e cenare restando seduti a tavola almeno 20 minuti aiuta invece il metabolismo e consente anche di tenere meglio sotto controllo l’introito calorico e quindi il peso. Lo dimostra una ricerca dell’Università “Federico II” di Napoli in corso pubblicazione su Journal of Translational Medicine, condotto su quasi 200 obesi.

Mangiare con lentezza fa bene alla salute: il ‘lasciapassare’ per i lunghi pranzi e cenoni del periodo natalizio arriva ora dalla ricerca scientifica, secondo cui i tempi dilatati a tavola possono essere ‘alleati’ di benessere. Se non si esagera con gli strappi alla regola e si mastica pian piano si riduce infatti il rischio di sviluppare il colesterolo alto, come dimostra uno studio in corso di pubblicazione sul Journal of Translational Medicine coordinato da Annamaria Colao, presidente della Società Italiana di Endocrinologia.
Prendersi tempo per mangiare, consumando i pasti in almeno 20 minuti, diminuisce il rischio di colesterolo alto anche in persone a rischio come quelle con obesità e aiuta pure a mangiare un poco di meno, controllando meglio l’introito calorico.
Lo studio che conferma quanto sia importante mangiare lentamente è stato condotto da Giovanna Muscogiuri, ricercatrice in Endocrinologia, insieme a Luigi Barrea, professore di Scienze e Tecniche Dietetiche Applicate, e al gruppo di ricerca del Centro Italiano per la cura e il benessere dei pazienti con obesità del Dipartimento di Medicina Clinica e Chirurgia - Unità di Endocrinologia dell’Università Federico II di Napoli, diretto da Annamaria Colao.
Lo studio ha coinvolto 187 persone con obesità delle quali sono state indagate le abitudini a tavola, compresa la durata dei pasti: mettendo a confronto chi pranza e cena in meno 20 minuti con chi prolunga oltre il piacere della tavola, è emerso chiaramente che consumare i pasti in gran velocità raddoppia il rischio di sviluppare il colesterolo alto, specialmente in chi è ultra-rapido a cena.
“Il colesterolo è un fattore di rischio noto per malattie cardiovascolari come infarto e ictus, ma non è il solo elemento metabolico che peggiora con un pasto troppo frettoloso – spiega Annamaria Colao, presidente della Società Italiana di Endocrinologia (SIE) – Studi precedenti hanno mostrato che mangiare troppo rapidamente si associa a un aumento del consumo di cibo e anche il nostro lavoro lo conferma, aggiungendo che chi pasteggia in pochi minuti consuma più spesso un pasto completo con primo, secondo, contorno e frutta. Inoltre fra i cibi che possono essere mangiati più velocemente ci sono quelli ultra-processati (come alcuni insaccati) che, oltre a essere molto calorici e poco sani, ci rendono anche meno capaci di controllare l’introito calorico”.
Il risultato è che ingurgitare cibo alla velocità della luce si associa a un maggior rischio non solo di colesterolo alto, ma anche di sovrappeso e obesità. “L’obesità si sconfigge a tavola, concedendoci il tempo di acquisire la consapevolezza di quello che stiamo mangiando – sottolinea Colao - I nostri tempi ci ‘obbligano’ a una grande frenesia e velocità d’azione che travolgono anche uno dei momenti fondamentali della vita quotidiana, l’alimentazione. Mangiare in modo diverso, rispettando ritmi più lenti ci aiuterebbe molto a prevenire le malattie del metabolismo: è perciò necessario riappropriarci del tempo e vivere il momento del pasto come una coccola quotidiana. A maggior ragione possiamo farlo durante le Feste natalizie. Trascorrere qualche minuto in più a tavola per maturare la consapevolezza del cibo potrebbe giocare un ruolo chiave nella prevenzione dell’obesità e delle malattie metaboliche a essa correlate”.


Ipertensione, quando mette a rischio il cervello dei giovani

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Valori oltre la norma sono frequenti anche sotto i 50 anni. E causano ictus, depressione e declino delle capacità cognitive. Uno studio australiano lancia l’allarme.
La pressione alta è diventata un “disturbo endemico”, con le persone che ne soffrono passate da 650 milioni nel 1990, a 1,3 miliardi nel 2019. Arterie, cuore e cervello gli organi più colpiti, e non è un problema concreto per la salute solo oltre una certa età.

Gli studi
Secondo una nuova analisi condotta dalla Australian National University (ANU), a valori elevati di pressione sanguigna in giovane età corrispondono rischi superiori di invecchiamento cerebrale accelerato una volta superati i 50 anni. I risultati arrivano da un grande studio longitudinale pubblicato su Frontiers in Aging Neuroscience. Il team ha esaminato 2000 scansioni tridimensionali del cervello di individui sani tra i 44 e i 76 anni, incrociandole con letture della pressione monitorata ripetutamente, e ne ha poi stimato, tramite processi di machine learning, l’età “osservata”. Età che può risultare talvolta in contrasto con quella cronologica.

I danni al cervello
La conclusione è chiara: a parità di altri fattori di rischio, chi ha la pressione più alta ha un cervello “più invecchiato”, con micro-danni ben visibili a livello dei vasi sanguigni che predispongono all’insorgenza di ictus, demenza, depressione, declino delle capacità di pensiero e altre condizioni neurologiche. I ricercatori hanno notato il trend anche in chi, pur presentando valori nel range “di sicurezza” dei 120/80 mmHg, mostrava pressioni spostate verso la parte superiore della forbice. Rispetto a chi ha una pressione intorno ai 135/85 mmHg - spiega Walter Abhayaratna, professore di Medicina Cardiovascolare alla ANU, tra gli autori - chi si aggira sul valore ottimale di 110/70 mmHg arriva a 50 anni con un cervello fino a sei mesi più giovane”. Una differenza di età cerebrale che, se in presenza di altri fattori di rischio, potrebbe trasformarsi più avanti in demenza o altre condizioni cognitive gravi.

Attenzione dai 20 anni in su
L’attenzione degli studiosi è però rivolta in particolare ai giovani tra i 20 e i 30 anni. “Se, come abbiamo notato, i danni concreti dell’ipertensione cominciano a essere significativi già su individui quarantenni - spiega Nicholas Cherubin, primo autore dell’analisi - significa che i primi effetti negativi potrebbero iniziare a manifestarsi verso i 20 anni, per poi “lavorare” e degradare le funzionalità con il tempo”. Insomma, secondo la tesi di Cherubin, che è capo del Centre for Research on Ageing, Health and Wellbeing della ANU e da anni studia i fattori che influenzano la salute cognitiva e mentale, il cervello di un ventenne sarebbe già potenzialmente soggetto al deterioramento indotto dall’ipertensione. Che fare allora? “Sarebbe ovviamente meglio introdurre cambiamenti allo stile di vita e alla dieta per evitare che la pressione salga, invece che aspettare che diventi un problema”, risponde l’esperto. Se la correlazione tra pressione alta e malattie cardiovascolari è ormai ben nota e studiata, la medicina inizia solo ora a esplorare quella con le condizioni neurologiche e il deterioramento delle funzioni cognitive. Ma analisi come quelle condotte da Cherubin e colleghi vanno ad ampliare una letteratura scientifica sempre più corposa, che ne raccomanda un attento monitoraggio già a partire dai 20 anni e renderà (forse) necessario un aggiornamento delle linee guida e dei valori considerati oggi “normali”.

Dislipidemia

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Quando fare lo screening per la dislipidemia nel bambino e nell’adolescente?
Le linee guida per la definizione dello stato di salute cardiovascolare e la riduzione del rischio pubblicate nel 2011 raccomandano che tutti i bambini con BMI > 95° percentile siano sottoposti a uno screening per dislipidemia a partire dai 9 anni di vita.
Lo screening è indicato a partire dai due anni di vita (anche se il BMI non raggiunge il 95° percentile) se è presente una storia di familiarità per dislipidemia (uno o entrambi i genitori con dislipidemia nota o colesterolo totale > 240 mg/dl) o per patologia cardiovascolare in genitori, zii, nonni o fratelli (cardiopatia ischemica o vasculopatia cerebrale o periferica prima dei 55 anni se maschio o prima di 65 anni se femmina).
Si raccomanda che il prelievo sia effettuato dopo almeno 12 ore di digiuno.

Quali sono i valori di riferimento per la valutazione della dislipidemia?
L’Expert Panel on Integrated Guidelines for Cardiovascular Health and Risk Reduction in Children and Adolescents ha proposto dei valori di riferimento per la definizione di valori bassi, accettabili, borderline ed elevati dei lipidi, riportati in tabella, che risultano di facile uso. È importante sottolineare che non vi è accordo unanime sull’uso di tali cut-off, poiché non considerano le differenze legate all’età e al genere. Esistono infatti altri valori di riferimento più fini in relazione alla ripartizione per età e sesso, ma in ogni caso non sono rappresentativi della popolazione italiana. Inoltre, è necessario tener presente che le concentrazioni dei lipidi correlano col rischio cardiovascolare in modo continuo e in sinergia con gli altri fattori di rischio (BMI, ipertensione, diabete, familiarità cardiovascolare ecc.). Pertanto, è necessario che il pediatra, per definire lo stato di salute o, meglio, di alterato profilo di rischio cardiovascolare, basi la sua valutazione sulla globalità di tutti i fattori di rischio rilevati, anziché su parametri dicotomici.


Vista la difficoltà di definire in modo univoco le alterazioni dei lipidi, al pari degli adulti è stata analizzata l’utilità del rapporto TG/HDL-C (valori ≥ 2,2) che è facile da ottenere, non richiede una ripartizione per età o sesso e che identifica un fenotipo lipidico pro-aterogeno utile per identificare bambini obesi con un peggior profilo di rischio cardio-metabolico.

Come differenziare le forme di dislipidemia primitiva?
Anche se nel bambino obeso la dislipidemia di gran lunga più comune è la combinazione di alti trigliceridi e basso HDL, il pediatra deve tener presente che esistono forme di dislipidemia primitiva, che potrebbero richiedere indagini di secondo livello, come il dosaggio dell’Apo-B, elettroforesi delle lipoproteine, test genetici. Le più comuni sono l’ipercolesterolemia familiare pura (molto probabile in bambini italiani con LDL-C > 150 mg/dl, TG nella norma e genitore con ipercolesterolemia) e l’iperlipemia familiare combinata (fenotipicamente spesso sovrapponibile alla dislipidemia associata a obesità, talvolta presente solo come ipertrigliceridemia, differenziabile dalla forma primitiva grazie a un valore elevato di Apo-B e fenotipo fluttuante con fasi di ipercolesterolemia o ipertrigliceridemia/ipercolesterolemia nel bambino e nei familiari).

Quali sono le raccomandazioni sul trattamento della dislipidemia?
La modifica dello stile di vita, nutrizionale e comportamentale, è considerata il cardine della terapia nei bambini obesi con dislipidemia.
Nei bambini con età inferiore a 10 anni non è indicata alcuna terapia farmacologica, a meno che non vi sia una grave iperlipidemia familiare. Nei bambini con età superiore a 10 anni, la terapia farmacologica dovrebbe essere istituita dopo il persistere di una iperlipidemia resistente alla terapia non farmacologica.
Dato l’alto rischio cardiovascolare e, per talune forme, la morbilità pancreatica associata alle dislipidemie gravi secondarie o genetiche, è importante che il pediatra indirizzi il bambino a un ambulatorio specializzato in dislipidemie in caso di TG > 500 mg/dl e/o LDL-C > 250 mg/dl, in modo da garantire diagnosi e terapia tempestive.


Malattie da accumulo lisosomiale: fino a 14 anni il ritardo diagnostico

Fondamentale lo screening neonatale e una comunicazione che aumenti l’informazione e la consapevolezza: se ne è parlato a un corso dedicato al ruolo dei media

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Ereditarie, progressive, meno rare di quanto dicano i numeri, con un ritardo nella diagnosi mediamente di 10-14 anni, tanto che l’iter diagnostico si trasforma per i pazienti e le loro famiglie in una angosciante “odissea diagnostica”; poco note tra gli operatori sanitari e l’opinione pubblica e poco studiate nelle scuole di specializzazione. Eppure, proprio le malattie da accumulo lisosomiale, come la malattia di Gaucher, la malattia di Fabry, e la sindrome di Hunter, hanno cambiato il modo di fare Medicina.
Un nuovo caso su 7700 nascite ogni anno, sono i numeri ufficiali delle malattie da accumulo lisosomiale, ma è solo la punta dell’iceberg, perché in realtà queste gravi patologie genetiche sono molto più diffuse di quanto dicano le cifre delle diagnosi cliniche a loro volta inferiori al numero delle diagnosi da screening neonatale. Peraltro un suo incremento potrebbe contribuire ad accelerare la diagnosi e a intraprendere tempestivi trattamenti per migliorare la presa in carico del paziente e migliorare la prognosi, spesso severa di queste malattie.
Gli esperti puntano a creare una nuova comunicazione che aumenti la conoscenza e la consapevolezza delle malattie da accumulo lisosomiale tra gli operatori sanitari, in primis pediatri e internisti, e nell’opinione pubblica.
Le malattie da accumulo lisosomiale sono patologie croniche di origine genetica che si manifestano nei primissimi anni di vita per difetto o assenza di uno degli enzimi contenuti nei lisosomi, vescicole presenti all’interno della cellula e considerati come “centri di riciclo” delle sostanze di rifiuto (macromolecole).
“Malattia di Gaucher, malattia di Fabry e sindrome di Hunter (mucopolisaccaridosi di tipo II), appartengono al gruppo delle malattie da accumulo lisosomiale che include oltre 50 patologie e rientrano dal punto di vista epidemiologico nel grande gruppo delle malattie rare”, dichiara Maria Alice Donati, direttore SOC Malattie Metaboliche Ereditarie, Centro Clinico Screening Neonatale, AOU Meyer, Firenze. “I dati derivati dalle diagnosi cliniche per Gaucher parlano di 1 caso su 60.000 nati/anno, per Fabry di 1 caso su 40.000 e per Hunter di 1 caso su 100.000, tuttavia i numeri derivati dalle diagnosi di screening neonatale sono molto superiori. La caratteristica comune a queste patologie è il meccanismo di progressivo accumulo nei lisosomi cellulari di macromolecole di rifiuto e la conseguente progressività del decorso. La sintomatologia all’inizio è molto sfumata, tanto che può confondersi con malattie più comuni, fino a diventare severa con il coinvolgimento di numerosi organi e sistemi. Possono passare molti anni prima che i sintomi diventino specifici, peculiarità della sintomatologia è la grande eterogeneità. Esiste in ogni caso un punto di non ritorno nella storia clinica, per questo è fondamentale ampliare lo screening neonatale che attualmente in Italia è effettuato nell’ambito di progetti pilota: per Gaucher nel Triveneto, per Fabry è attivo in Toscana e in una parte del Veneto mentre non è sostenuto scientificamente per Hunter”.
Le malattie da accumulo lisosomiale seguono una trasmissione ereditaria che avviene attraverso entrambi i genitori portatori sani dell’alterazione genica, con una modalità che nella malattia di Gaucher è definita autosomica recessiva, per cui la malattia si manifesta solo quando sono mutati entrambi i geni paterno e materno; nella malattia di Fabry e nella sindrome di Hunter, invece, l’alterazione genica si trasmette con meccanismo X-linked, legato al sesso. L’iter diagnostico è una corsa a ostacoli, una vera e propria odissea. Mediamente una diagnosi certa si ottiene a distanza di 10-14 anni dalla comparsa del primo segno o sintomo. Il forte ritardo diagnostico compromette l’intervento terapeutico che, oggi, grazie alla ricerca scientifica attivissima su questo fronte, ha a disposizione numerose ed efficaci opzioni che possono mitigare la sintomatologia e migliorare la prognosi.
“I sintomi sfumati, almeno all’inizio, eterogenei e confondenti così come il mancato orientamento del paziente verso una figura specialistica di riferimento ritardano la diagnosi, anche perché queste malattie sono poco conosciute e, quindi, poco riconosciute, tanto che si parla di ‘segni e sintomi invisibili’ sebbene si manifestino sintomi suggestivi che possono far scattare bandierine rosse”.
“Da qui la necessità di potenziare la formazione dei medici e di cambiare il modo di comunicare queste patologie. Arrivare il più precocemente possibile a una diagnosi è fondamentale, perché oggi disponiamo di diverse opzioni terapeutiche e l’esperienza ci insegna che se i trattamenti vengono iniziati tempestivamente si evitano i danni cellulari che a un certo punto dell’evoluzione della malattia diventano irreversibili. La terapia madre è l’enzimatica sostitutiva per tutte e tre le malattie, che consiste nell’inserire l’enzima mancante o carente che arriva nei lisosomi e smaltisce l’accumulo di macromolecole. Altri approcci terapeutici sono per la malattia di Gaucher gli inibitori del substrato che agiscono a monte dell’accumulo e per la malattia di Fabry la terapia cosiddetta ‘chaperonica’, con piccole molecole che fanno funzionare meglio l’enzima difettoso. Più complessa la questione per la sindrome di Hunter, nella quale la terapia enzimatica sostitutiva presenta un grosso limite: non supera la barriera emato-encefalica e, quindi, non raggiunge il sistema nervoso centrale. La ricerca sta cercando di ovviare questo ostacolo sperimentando altre modalità di somministrazione. Il futuro, invece, è rappresentato dalla terapia genica”.
Le malattie da accumulo lisosomiale sono patologie croniche. Negli anni il quadro clinico subisce una progressiva evoluzione e possono insorgere comorbidità e complicanze varie. Ne consegue che la presa in carico da parte delle strutture ospedaliere deve essere a 360 gradi.
“È complessa e impegnativa la gestione dei pazienti con malattia di Gaucher, malattia di Fabry e Sindrome di Hunter, anche perché è a lungo termine”, spiega Marco Spada, Direttore SC di Pediatria, Centro di Riferimento Regionale malattie Metaboliche Ereditarie, AOU Città della Salute e della Scienza di Torino, Ospedale Infantile Regina Margherita.
“È importante curare bene e nei tempi giusti i pazienti e che questi vengano seguiti da una figura specialistica in grado di operare una grande regia, in genere il pediatra esperto in malattie ereditarie rare e metaboliche. L’attuale approccio assistenziale è multidisciplinare. Nelle malattie di Gaucher e Fabry è indispensabile avvalersi di ematologo, neurologo, nefrologo e cardiologo; nell’Hunter, o MPS II, si ha bisogno anche dell’ortopedico, del reumatologo e dello pneumologo. Grazie ai diversi trattamenti oggi a disposizione, la gestione complessiva e la qualità di vita dei pazienti sono migliorate. Le terapie sono disponibili su tutto il territorio nazionale e non richiedono ricovero ma possono essere eseguite in regime ambulatoriale o di day hospital, in alcune Regioni italiane è attivo il servizio di cure domiciliari riservate ai pazienti stabili. Sicuramente la risposta delle strutture ospedaliere è buona, un ulteriore passo in avanti sarà quello di permettere a tutti i pazienti l’accesso alle cure a domicilio”.

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