Rivista di formazione e aggiornamento di pediatri e medici operanti sul territorio e in ospedale. Fondata nel 1982, in collaborazione con l'Associazione Culturale Pediatri.

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a cura di Maria Valentina Abate

UOC di Pediatria, Ospedale di Treviglio (Bergamo)

Indirizzo per corrispondenza: valentina_aba@yahoo.it

Sommario

Virus respiratorio sinciziale, reparti pediatrici sotto pressione

Curva in crescita per l'influenza, superato il milione di casi

Influenza, promosso il vaccino spray nei bambini

Covid: al Meyer tampone unico scova anche il virus respiratorio sinciziale

Fibrosi cistica, il 50% dei bimbi può sopravvivere oltre i 50 anni

Giornata mondiale della prematurità. In Italia i tassi di mortalità tra i più bassi del mondo

Emicrania, ne possono soffrire anche i bambini

Denti da correggere, sbagliato aspettare la dentizione permanente

Scuola, quanti sono gli insegnanti di sostegno in Italia e come sono distribuiti: “Gli studenti disabili del Nord sono stati dimenticati”


Virus respiratorio sinciziale, reparti pediatrici sotto pressione

All’Umberto I di Roma: “In media 5-6 bambini al giorno attendono ricovero”

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Il virus respiratorio sinciziale (VRS), la principale causa di bronchiolite nei bambini, sta mettendo in crisi i reparti pediatrici. Come a Roma, al Pronto Soccorso pediatrico del Policlinico Umberto I, dove “Ci sono in media 5-6 bambini al giorno che attendono di essere ricoverati perché non ci sono posti letto, anche se recentemente ne abbiamo aggiunti altri perché non sapevamo più dove sistemare i piccoli pazienti”, ci informa Fabio Midulla, presidente della Società italiana per le malattie respiratorie infantili (SIMRI), responsabile del Pronto Soccorso pediatrico del Policlinico Umberto I di Roma.
Anche a Napoli le strutture sono ormai sature: “Registriamo 300 accessi al giorno, con punte di 350-380 nel fine settimana. I reparti sono al completo e stiamo vivendo forti criticità al Pronto Soccorso”, ci racconta con un po’ di preoccupazione il dottor Vincenzo Tipo, responsabile del Pronto Soccorso dell’ospedale pediatrico Santobono di Napoli. All’ospedale Meyer di Firenze la situazione è un po’ meno al limite, con “21 bambini ricoverati in reparto che hanno un’età inferiore all’anno, 4 in Rianimazione e 4 in Terapia Sub Intensiva. Riempiono per circa la metà la capacità ricettiva dell’ospedale. Di fatto, la spinta principale dei ricoveri è legata a questa patologia”, afferma il dottor Massimo Resti, direttore del Dipartimento specialistico interdisciplinare del Meyer. Tra queste varie emergenze, ci sono alcune eccezioni più a Sud, grazie al clima più clemente e alla possibilità di stare più all’aperto. Per esempio in Calabria, “Finora si è verificato solo un caso di bronchiolite da VRS, ma in generale questo tipo di epidemia arriva mesi dopo rispetto al resto d’Italia e senza aggravare la struttura ospedaliera”, sottolinea la dottoressa Emanuela Pietragalla, della Terapia Intensiva Neonatale dell’ospedale di Catanzaro.
Il VRS è ben conosciuto in Pediatria, ma quest’anno è arrivato inaspettato, con un anticipo di circa due mesi. Ed è la principale causa della bronchiolite, un’infezione polmonare che può essere grave nel primo anno di vita. “Come il virus dell’influenza provoca epidemie annuali. Si trasmette per via aerea - attraverso l’inalazione di goccioline generate da uno starnuto o dalla tosse - o per contatto diretto delle secrezioni nasali infette con le membrane mucose degli occhi, della bocca o del naso”. La speranza è che l’ondata epidemica da VRS, così come si è anticipata, si concluda prima. La ragione? Non deve sovrapporsi con il picco influenzale stagionale che generalmente si attende dopo le feste di Natale. Viceversa, l’alternativa sarebbe bloccare le attività programmate per dare precedenza a queste epidemie coincidenti.
Ma perché un anticipo e aumento repentino di casi da VRS? “L’impennata è anomala per almeno due motivi: questo virus colpisce in genere lattanti e neonati; quest’anno ha interessato anche bambini di età maggiore con manifestazioni cliniche nelle basse vie respiratorie e la necessità di ricovero e di supporto di ossigeno; inoltre c’è una concomitanza di altri virus respiratori che sono più aggressivi rispetto alla norma, come il semplice virus del raffreddore”. A questo bisogna aggiungere che “Le mamme durante la pandemia del Covid si sono ammalate meno del virus e così non hanno trasmesso gli anticorpi ai neonati per proteggerli dal virus sinciziale; un’altra ipotesi è che durante la pandemia i bambini si sono ammalati raramente e quindi il loro sistema immunitario è stato ‘meno allenato’ a fronteggiare questi fenomeni”.
“Bisogna però lanciare un messaggio positivo”, ci preme a dire Massimo Resti. “Noi conosciamo bene la patologia, sappiamo come curarla. Dobbiamo in realtà avere qualche attenzione in più. Le mamme, per esempio, devono evitare di portare i più piccoli al supermercato o al centro commerciale: in questo periodo, meno i bambini circolano nei luoghi affollati, meglio è. La maggior parte dei piccoli risolve il problema a casa; nei casi gravi si ricorre al ricovero, dove vengono curati con il supporto di ossigeno, mentre i piccoli pazienti più fragili, nati pretermine, che presentano immunodeficienza, si curano con gli anticorpi monoclonali”.


Curva in crescita per l'influenza, superato il milione di casi

I bambini sono ancora i più colpiti, con 21,25 casi per mille

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Continua a crescere l'incidenza delle sindromi simil-influenzali, che ha raggiunto questa settimana i 4,8 casi per mille.
Con 283mila nuovi casi registrati negli ultimi 7 giorni, il totale delle persone infettate dall'inizio della stagione ha di poco superato il milione di unità.
Si conferma la maggiore diffusione dell'infezione tra i bambini al di sotto dei 5 anni, che hanno tassi di incidenza 4 volte più alti della media nazionale pari a 21,25 casi per mille. È quanto emerge dal rapporto settimanale della rete di Sorveglianza InfluNet dell’Istituto Superiore di Sanità.


Influenza, promosso il vaccino spray nei bambini

L'83% dei genitori e il 93% degli operatori è molto soddisfatto

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È efficace, non ha effetti collaterali particolarmente rilevanti e, soprattutto, presenta un alto gradimento da parte dei genitori e del personale sanitario.
Uno studio coordinato da ricercatori dell'Ospedale dei Bambini "Vittore Buzzi" di Milano pubblicato sull'Italian Journal of Pediatrics promuove la prima esperienza di immunizzazione contro l'influenza con il vaccino spray avvenuta nella stagione dello scorso anno in Lombardia.
La ricerca ha seguito 3226 bambini e ragazzi dai 2 ai 17 anni vaccinati in sei Centri vaccinali di Milano con il vaccino tetravalente a virus vivo attenuato (LAIV) spray. Dopo 1 e 3 mesi i ricercatori hanno intervistato i genitori per avere informazioni su eventuali reazioni avverse e per ottenere un giudizio sull'esperienza con la nuova modalità di vaccinazione.
Aveva avuto eventi avversi il 24,8% dei bambini, ma solo nell'1,3% dei casi erano di particolare entità. Il più comune evento avverso era la rinite (52,5%), seguito da febbre (24,4%) e malessere generale (9,3%). I bambini più piccoli avevano un rischio leggermente più alto di disturbi dopo la vaccinazione.
Mentre dallo studio non sembra che la presenza di allergia, la più comune malattia cronica dell'infanzia, esponga il bambino a un maggior rischio di effetti collaterali.
Per quanto riguarda il giudizio su questa modalità di vaccinazione, l'83,3% dei genitori erano molto soddisfatti e dichiaravano che anche per il futuro avrebbero preferito la vaccinazione spray rispetto alla tradizionale iniezione. Ancora più alta la soddisfazione tra i sanitari: oltre il 93% la giudicava un'esperienza eccellente e che meritava di essere ripetuta.


Covid: al Meyer tampone unico scova anche il virus respiratorio sinciziale

Grazie a test molecolare, 'prima volta in Italia'

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Un tampone molecolare unico per rilevare contemporaneamente e rapidamente la presenza del coronavirus e del virus respiratorio sinciziale responsabile dell'epidemia di bronchioliti che sta colpendo tanti piccolissimi e che ha messo a dura prova la capacità di accoglienza di molti ospedali, compreso il pediatrico fiorentino.
Lo rende noto lo stesso Meyer che parla di “piccola rivoluzione procedurale che permette di isolare immediatamente i casi positivi, attraverso la creazione di percorsi separati che tutelano tutti i piccoli pazienti e le famiglie che si rivolgono all'ospedale”.


Fibrosi cistica, il 50% dei bimbi può sopravvivere oltre i 50 anni

Da 2015 abbiamo nuovi farmaci che prendono di mira la proteina CFTR

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Sino a ottanta anni fa si moriva di fibrosi cistica subito dopo la diagnosi.
Oggi oltre il 50% dei bambini nati dal 2015 in poi, anno in cui sono stati usati per la prima volta i nuovi farmaci modulatori della proteina CFTR, può sopravvivere oltre i 50 anni.
A fare il punto è Salvatore Leonardi, professore associato di Pediatria presso l'Università degli studi di Catania e Consigliere della Società Italiana per le Malattie Respiratorie Infantili (SIMRI), in occasione del 25° Congresso nazionale della società scientifica, che si è tenuto a Verona fino al 26 ottobre 2021.
La fibrosi cistica era conosciuta già oltre duemila anni fa.
Gli antichi romani la definivano la malattia del bacio salato e la associavano ad alti tassi di mortalità. Secondo i dati del Registro i pazienti affetti dalla malattia in Italia sono 6000, di cui circa la metà ha meno di 18 anni. "Fino a ieri - ricorda lo specialista - avevamo dei farmaci dedicati alla cura dei sintomi della fibrosi cistica, che hanno permesso di migliorare le aspettative di vita: gli antibiotici, i fluidificanti, gli antinfiammatori e gli enzimi pancreatici". Nel 1989, però, è stato identificato il gene responsabile dell'anomalia della proteina CFTR che regola gli scambi degli ioni di sodio e cloro a livello degli epiteli ghiandolari e che determina la malattia.
Questo ha portato alla formulazione dei modulatori della proteina CFTR che hanno cambiato l'aspettativa di vita. "Grazie all'arrivo dei questi farmaci - conclude Leonardi - il 50% dei pazienti nati dal 2015 in poi, anno in cui sono stati usati per la prima volta, potrebbe sopravvivere oltre i 50 anni. Un risultato inaspettato se immaginiamo che quando è stato scoperto il fenotipo clinico, 83 anni fa, i bambini morivano poco dopo la diagnosi".


Giornata mondiale della prematurità. In Italia i tassi di mortalità tra i più bassi del mondo

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Ogni anno nascono in Italia 30mila neonati prematuri, ma le infezioni da SARS-Cov-2 fanno impennare il tasso di bambini nati prima della 37ª settimana di gestazione. Per i neonatologi della SIN prioritario sostenere l’apertura h24 delle TIN e il follow-up. Il 17 novembre oltre 200 piazze, monumenti e ospedali si sono illuminate di viola per sensibilizzare l’opinione pubblica e le Istituzioni sulla nascita pretermine.

Ogni anno nascono nel mondo circa 15 milioni di neonati prematuri, cioè prima della 37ª settimana di gestazione, in Italia sono oltre 30mila, il 6,9% delle nascite, tasso che con la pandemia è aumentato all’11,2% nei parti da donne con infezione da SARS-Cov-2 (Registro CovidSIN).
La nascita prematura comporta preoccupazioni e ansie nei genitori, che si trovano davanti a un evento di cui, spesso, conoscono poco. Ma l’Italia è tra i Paesi con il più basso tasso di mortalità al mondo di neonati molto prematuri, cioè di peso inferiore a 1500 grammi (11,9% media italiana dal Network InnSin rispetto alla media internazionale del 14,6% del Vermont Oxford Network).
A puntare i riflettori sulla prematurità, la Società Italiana di Neonatologia (SIN) in occasione della Giornata Mondiale che si celebra il 17 novembre. Una giornata che vedrà, su iniziativa della SIN e Vivere onlus Coordinamento Nazionale delle Associazioni per la Neonatologia, oltre 200 piazze, monumenti e ospedali di tutta Italia illuminati di viola per sensibilizzare l’opinione pubblica e le Istituzioni sulla nascita pretermine.
Da Nord a Sud, dal palazzo della Regione Lombardia a Milano, al Palazzo del Podestà in Piazza Maggiore a Bologna, dai palazzi Ca' Farsetti e Ca' Loredan a Venezia alla Reggia di Caserta, sono già tantissime le adesioni a conferma della grande attenzione sulla nascita pretermine. Si tratta di un problema grave di sanità pubblica, ricorda una nota della SIN, che può mettere seriamente a rischio la vita dei neonati e che rappresenta una sfida per la neonatologia e per la società, su cui è fondamentale fare informazione e prevenzione. Il tema della campagna di quest’anno è Zero separation, “Agiamo adesso. Non separare i neonati prematuri dai loro genitori”, promossa dalla European Foundation for the Care of Newborn Infants (EFCNI), per continuare a difendere il ruolo prioritario di mamma e papà, ancor di più in periodo Covid.
“Le cause della mortalità di questi neonati prematuri non può ricercarsi solo nella rete dei Punti nascita - afferma il Presidente della Società Italiana di Neonatologia (SIN) Luigi Orfeo - sono tanti e diversi i fattori che influiscono sull’esito di una nascita pretermine come l’incidenza della povertà, l’accessibilità alle cure e alla prevenzione, la mancanza di servizi e infrastrutture nelle zone disagiate, percorsi di accompagnamento alla gravidanza poco diffusi ecc. Noi neonatologi facciamo del nostro meglio per migliorare la rete dei Punti nascita italiani e ci stiamo impegnando per garantire l’accesso dei genitori senza limitazioni di orari, nelle Terapie Intensive Neonatali (TIN), dove i bambini nati pretermine vengono trasferiti e dove possono restare anche per mesi; per continuare a promuovere l’importanza dell’allattamento al seno e della donazione del latte materno, attraverso le Banche del Latte Umano Donato (BLUD) e per il riconoscimento dei Servizi di Follow-up neonatale”.

L’impatto della pandemia sull’assistenza in TIN
Tra l’autunno del 2020 e il primo trimestre del 2021, la SIN, grazie ai suoi due Gruppi di Studio della Care Neonatale e della Qualità delle Cure e a Vivere onlus, ha condotto l’Indagine conoscitiva nazionale sulle pratiche di assistenza neonatale durante la pandemia da Covid-19, che ha coinvolto i Punti nascita italiani di secondo livello. Da questa analisi è emerso che, dopo un primo periodo di incertezze dovute alla mancanza di conoscenze sul Covid-19, i Centri, che prima dell’impatto della pandemia erano più “aperti” ai genitori, hanno continuato a esserlo, contemperando le esigenze di sicurezza, con percorsi che garantissero il contatto genitoriale.
La SIN ha, infatti, supportato da subito i reparti con Indicazioni precise e tempestive volte a prevenire l’infezione da Covid-19, come ad esempio l’utilizzo di mascherine, la corretta igiene delle mani, il triage con controllo della temperatura, ma sostenendo sempre l’ingresso e la vicinanza dei genitori in TIN.
L’accesso della donna non sospetta per Covid-19 alla TIN o al reparto di Patologia Neonatale è praticamente sempre stato garantito (98,9% dei Centri). In particolare, nel 54,4% la durata o la frequenza degli accessi sono rimaste uguali al periodo pre-epidemico, nel restante 44,4% dei casi hanno subito una riduzione. Prima della pandemia, il 71% dei Centri garantiva alle madri un accesso libero h24, mentre il 20% consentiva l’accesso per un tempo superiore a 6 ore, mentre il restante 8,9% a orari definiti per un tempo inferiore a 6 ore. La kangaroo mother care, fondamentale per lo sviluppo dei nati pretermine e per l’avvio precoce dell’allattamento materno, è stata praticata o incoraggiata nel 67,8% dei Centri, ridotta di durata o frequenza nel 31% dei Centri, sospesa solo nell’1,1% dei casi.
“Dal contatto pelle-a-pelle, al rooming-in, all’apertura delle TIN 24/24 h, i neonati prematuri hanno bisogno di stare con mamma e papà, per gli innumerevoli benefici che comporta questa vicinanza, di gran lunga superiori ai problemi che possono scaturire dal coronavirus - aggiunge il Presidente della SIN Orfeo - i genitori non sono semplici visitatori, ma sono parte integrante delle cure e dobbiamo quindi fare tutto il possibile per promuovere il contatto con i loro piccoli, nonostante le limitazioni dovute dalla pandemia”.

L’appello per la donazione del latte materno per i neonati prematuri
Il latte materno rappresenta l’alimento ideale per i neonati prematuri e una protezione ineguagliabile contro le infezioni, tra cui quella da Sars-CoV-2, per la naturale trasmissione degli anticorpi dalla madre al neonato durante l’allattamento, a seguito dell’infezione o della vaccinazione. Una grande opportunità per soddisfare le necessità dei neonati pretermine (e/o a termine patologici) è rappresentata dalle Banche del Latte Umano Donato (BLUD), che forniscono questo alimento “salvavita”, quando il latte della mamma è insufficiente o del tutto assente.
Il Covid ha causato una forte riduzione della donazione del latte umano nel nostro Paese, a causa del timore di recarsi presso le strutture per donare, la sospensione del servizio di raccolta a domicilio da parte di alcune Banche e le incertezze sul comportamento da tenersi per la donazione all’inizio della pandemia. Nonostante ciò, l’Italia resta uno dei Paesi più attivi in Europa, con due nuove BLUD inaugurate nel 2020, per un totale di 40 Banche dislocate da Nord a Sud.

Il follow-up dei neonati pretermine
L’eccellenza delle cure offerte ai neonati prematuri e/o a rischio nella fase acuta in TIN deve pro-seguire dopo la dimissione, attraverso i servizi e i programmi di follow-up, mirati alla precoce identificazione delle anomalie di sviluppo e all’attuazione di interventi precoci individualizzati, per migliorare la qualità di vita dei bambini e delle loro famiglie. La complessità dei neonati dimessi dalle terapie intensive sottolinea sempre più la necessità di servizi multidisciplinari, integrati con il territorio e con i pediatri di famiglia.

Il quadro complessivo del follow-up neonatale in Italia, emerso dall’indagine conoscitiva della SIN, appare positivo e consolidato
I Servizi di Follow-up attivi da più di cinque anni in Italia hanno una diffusione capillare. La maggior parte gestisce grandi volumi di bambini complessi ed è diffusa la valutazione delle aree di rischio storiche, in particolare per quanto riguarda l’area neuromotoria, la crescita e la nutrizione, vista e udito e disturbi respiratori. Il follow-up è garantito, nella maggior parte dei Servizi, fino a 2-3 anni.
Restano però diverse aree di criticità. In primo luogo, la strutturazione di un network stabile tra Servizi di Follow-up e con gli altri servizi e professionisti che entrano nel percorso di presa in carico dei bambini, che manifestano conseguenze dalla nascita prematura, è ancora molto iniziale e richiede una decisa implementazione. In secondo luogo, sono ancora pochi i servizi che riescono a prolungare il follow-up fino all’ingresso del bambino a scuola, come sarebbe invece auspicabile.
È stata inoltre evidenziata una rilevante difficoltà nel garantire la presenza continuativa del neuropsichiatra infantile nell’ambito dell’équipe multiprofessionale e una presa in carico tempestiva e di adeguata intensità degli utenti e delle famiglie da parte dei servizi di Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza.
Fiduciosa nei grandi passi avanti che a livello istituzionale sono stati fatti nel corso dell’ultimo anno, la SIN continua quindi a sostenere la necessità di un riconoscimento ufficiale, da parte del SSN, dei Servizi di follow-up multidisciplinari, per garantire a tutti i neonati prematuri e alle loro famiglie omogeneità nelle cure e livelli di assistenza sempre più elevati, con risorse strutturali e di personale adeguate.

Puntare sugli standard
Il tasso di sopravvivenza dei neonati prematuri è in continuo miglioramento, grazie ai progressi in ambito medico-scientifico, tuttavia, esistono ancora grandi disomogeneità nell’assistenza dei piccoli pretermine. L’organizzazione delle cure, la formazione dei professionisti sanitari e le strutture variano ampiamente, non soltanto in Europa, ma anche tra Regioni e tra i vari ospedali di una stessa Regione.
Cure neonatali eque e di elevata qualità per tutti: è questo l’obiettivo degli European Standards of Care for Newborn Health, un progetto realizzato dalla European Foundation for the Care of Newborn Infants e alla cui stesura ha collaborato anche la SIN. Realizzati da 220 esperti provenienti da più di 30 Paesi, supportati da 108 società e associazioni sanitarie e da 50 organizzazioni di genitori e presentati nel 2018 al Parlamento Europeo a Bruxelles, gli Standard Assistenziali Europei per la Salute del Neonato sono l’unico esempio in ambito medico di raccomandazioni, rigorose dal punto di vista metodologico, sviluppato in maniera corale, che ha visto la collaborazione tra professionisti e stakeholder, e, per la prima volta, i pazienti (genitori), coinvolti in ogni fase. Grazie alla collaborazione tra la SIN e Vivere onlus e al contributo di Gina Ancora, consigliere della SIN, l’Italia è stato il primo Paese a tradurre gli standard nella propria lingua.


Emicrania, ne possono soffrire anche i bambini

Molto spesso è stagionale e c’entra il “mal di scuola”

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Nei piccolissimi il sintomo di questo problema sono spesso le coliche gassose. Il dolore di capo in genere compare intorno ai 7-8 anni e può essere forte e debilitante.

Anche i più piccoli possono soffrire di mal di testa e la forma più frequente è l’emicrania, che affligge circa un bambino su dieci. Alla base c’è in genere una forte predisposizione genetica: quasi sempre ne soffre un genitore, anche se magari non ne è consapevole perché ha dei mal di testa molto saltuari.

Come si manifesta l’emicrania nei bambini?
«Essendoci una base ereditaria, l’emicrania è presente a partire dalla nascita, sebbene le manifestazioni possano essere diverse a seconda dell’età e la gravità possa variare nel corso della vita - premette Massimiliano Valeriani, responsabile del Centro cefalee dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma -. Per esempio nei bambini di pochi mesi, l’emicrania non si manifesta con il classico mal di testa: il sintomo più tipico sono le coliche gassose. Nel bambino più grande possono essere presenti altri sintomi sempre riconducibili alla sindrome emicranica come il mal d’auto, i mal di pancia frequenti oppure i dolori agli arti che spesso i pediatri definiscono come dolori di crescita. Il mal di testa legato all’emicrania in genere compare intorno ai sette, otto anni».

Che cosa fare?
Quando un bambino ha mal di testa bisogna innanzitutto capire se si tratti di una cefalea primaria, essa stessa malattia come l’emicrania, oppure di una cefalea sintomatica di un’altra malattia. «Sicuramente l’emicrania è la causa più frequente di mal di testa nel bambino, però spesso sono chiamati in causa altri fattori, a partire dalle malattie respiratorie delle vie aeree superiori (dal raffreddore all’influenza) o condizioni più gravi che vanno valutate dal pediatra o da uno specialista in materia», sottolinea Massimiliano Valeriani». «C’è poi un mito da sfatare che riguarda la sinusite: i seni frontali si formano verso i sette, otto anni, quindi è impossibile che il mal di testa in un bambino di 4-5 anni sia dovuto a questa condizione», aggiunge il responsabile del Centro cefalee.

Quali sono le caratteristiche dell’attacco di emicrania?
«È un mal di testa molto forte e debilitante, anche se nel bambino può durare poco, solo qualche minuto. Spesso è accompagnato da altri sintomi quali fastidio alla luce o per i rumori, vertigini nonché nausea e vomito. La presenza di vomito in contemporanea con il mal di testa può spaventare molto i genitori, ma bisogna ricordarsi che potrebbe appunto essere parte integrante di un attacco emicranico e quindi benigno».

Quali sono i fattori scatenanti?
«Sono diversi e tra questi ce ne sono alcuni difficilmente controllabili, come quelli ambientali, dalle temperature eccessive alla troppa umidità. Altri fattori sono, invece, modificabili come le irregolarità nel ciclo sonno-veglia. Per quanto riguarda i fattori di tipo alimentare bisogna fare molta attenzione perché a volte alcuni medici forniscono liste con alimenti da evitare, ma non esistono cibi in assoluto da eliminare. Vanno limitati solo quegli alimenti per i quali il paziente stesso (o i genitori nel caso dei più piccoli) si accorge dell’esistenza di un legame con l’emicrania. Tra i fattori scatenanti dell’attacco emicranico, e comunque aggravanti la severità stessa dell’emicrania, hanno un ruolo di primo piano quelli emotivi legati all’ansia e allo stress, soprattutto in relazione alla scuola. Molti bambini mostrano una sorta di stagionalità della sindrome emicranica: stanno peggio durante il periodo scolastico e migliorano, spesso in maniera sorprendente, in estate quando lo stress è minore». L’andamento dell’emicrania varia nel corso della vita. Tra i fattori che possono influenzarlo ci sono quelli ormonali. Prima della pubertà la prevalenza dell’emicrania è uguale nei due sessi, mentre dopo è maggiore nelle femmine (4 a 1 nell’adulto). La donna adulta di solito ha sollievo in gravidanza e soprattutto dopo la menopausa che può determinare anche la scomparsa degli attacchi.

Come si può curare?
«Ci sono due strategie principali: la terapia dell’attacco emicranico e la terapia profilattica per ridurre la frequenza degli attacchi quando questi superano i quattro, cinque al mese, interferendo dunque in modo notevole sulla quotidianità. Per il trattamento dell’attacco si usano alcuni antidolorifici e antinfiammatori non steroidei, mentre i triptani (terapia migliore nell’adulto) si possono usare solo dopo i 12 anni a dosaggi ridotti. Per la profilassi si usano farmaci mutuati dall’emicrania dell’adulto. Accanto ai farmaci, ci sono diversi integratori, dal magnesio al partenio, che vengono molto usati nel bambino in quanto privi di effetti collaterali. Non esistono studi che ne dimostrino l’efficacia in modo inequivocabile, tuttavia diversi soggetti sembrano trarne beneficio, complice anche l’effetto placebo, che nel bambino può toccare punte del 60 per cento».


Denti da correggere, sbagliato aspettare la dentizione permanente

Tra i 4 e i 7 anni meglio sottoporre il bambino alla prima visita: è possibile intercettare problemi e risparmiare interventi che si potrebbero rendere necessari nella pubertà

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La pandemia per molti sta significando la perdita del lavoro, problemi economici, preoccupazioni. Così, come segnala l’Associazione Specialisti Italiani in Ortodonzia (ASIO), sui canali social pullulano le offerte di trattamenti ortodontici low cost da fare a distanza o i bite automodellanti per risolvere il bruxismo, ovvero il digrignamento di denti notturno che riguarda tanti adulti ma anche molti bimbi. Peccato che difficilmente possano dare risultati clinici soddisfacenti, stando a recenti dati raccolti dall’università del Michigan, perciò, sebbene i genitori siano attenti a garantire ai loro figli cure adeguate e resistano abbastanza alla tentazione del risparmio, gli esperti mettono in guardia e ribadiscono l’importanza di cure ortodontiche adeguate.
«Il concetto “ordino online e risparmio” non può e non deve valere per le cure mediche», osserva Giorgio Iodice, presidente Asio. «Le terapie ortodontiche lo sono e devono avere a monte un’accurata diagnosi, un piano di trattamento individuale, un monitoraggio continuo e minuzioso durante e dopo l’intervento: la scelta della terapia più corretta per risolvere malocclusioni, problemi di allineamento dentale o bruxismo notturno deve essere fatta da uno specialista, non in autonomia con un clic online».

Lo specialista «adatto»
La ricerca di soluzioni sul web ha però preso piede soprattutto fra gli adulti, perché come racconta Letizia Perrillo, presidente della Società Italiana di Ortodonzia (SIDO) e direttore della Scuola di ortognatodonzia dell’università della Campania Luigi Vanvitelli di Napoli, «Per alcuni genitori la pandemia è vissuta come l’occasione per “investire” sul sorriso dei figli: non avendo spese per viaggi o altri svaghi, i risparmi vengono usati per iniziare una terapia ortodontica». L’essenziale è che sia uno specialista a seguire le cure per un bambino perché tutti gli ortodonzisti sono dentisti, ma non tutti i dentisti sono ortodonzisti: la fase di sviluppo è delicata e serve assicurarsi di risolvere eventuali alterazioni in bocca perché non comportino problemi peggiori più avanti, da adolescenti o adulti, ma anche essere certi di non esagerare, intervenendo quando non c’è bisogno.

Controlli periodici
Il momento per la prima visita, come spiega Iodice, è «Fra i quattro e i sette anni, quando inizia la prima fase di permuta dei denti da latte, c’è l’eruzione dei primi denti permanenti e si possono intercettare alcuni problemi di sviluppo osseo. Dopo la prima visita spesso non si deve fare alcun trattamento ortodontico, ma solo programmare controlli ogni sei o dodici mesi per il monitoraggio; in alcuni casi invece si deve intervenire, per esempio per correggere difetti di crescita delle ossa mascellari o una carenza di spazio per i denti permanenti».

Anomalie e abitudini viziate
Ritardare la prima visita è uno degli errori più comuni dei genitori, che spesso pensano si debba aspettare la dentizione permanente prima di valutare se la struttura di denti e bocca sia corretta: anche per questo gli esperti Asio raccomandano di portare il bambino dallo specialista senza indugio in caso ci siano campanelli d’allarme indicativi di possibili alterazioni. «Al primo controllo si valutano anomalie nella quantità, la posizione, il colore, la forma o la dimensione dei denti, le abitudini viziate come succhiarsi il dito o la presenza di alterazioni del morso, le eventuali carie o perdite di denti che potrebbero creare premesse per difetti di occlusione successivi e così via». Interventi precoci
«Su malocclusioni come il morso crociato è bene intervenire già a quattro anni, perché possono portare ad asimmetrie nella crescita ossea e quindi del viso; altre, come l’affollamento eccessivo dei denti oppure gli incisivi anteriori troppo sporgenti che potrebbero rompersi in caso di trauma, si possono correggere intorno ai sei-otto anni. Questa prima fase serve a intercettare i problemi e valutare se sia opportuno un intervento precoce: in alcuni casi lo è, perché se il bambino collabora una terapia tempestiva (che di solito si basa su apparecchi relativamente semplici, ndr) aiuta a risolvere i problemi prima che comportino danni ulteriori e diventino perciò più complessi da trattare in seguito». In fase puberale
Il secondo momento di valutazione è infatti la pubertà, fra i dodici e i quattordici anni al massimo, quando tutti i denti permanenti sono ormai usciti: a questo punto può essere utile perfezionare l’allineamento e tutto è più facile se già si sono eliminati prima eventuali grossi difetti, come conclude Perrillo: «La terapia in due fasi, quando serve, è complessivamente più lunga ma rende tutto più facile e spesso meno costoso: in alcuni ragazzini che arrivano dal dentista solo in adolescenza può essere per esempio necessario associare all’apparecchio un’estrazione dentale che invece si sarebbe potuta evitare, agendo in una fase precedente della crescita».


Scuola, quanti sono gli insegnanti di sostegno in Italia e come sono distribuiti: “Gli studenti disabili del Nord sono stati dimenticati”

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Il Coordinamento italiano insegnanti di sostegno: “È incomprensibile perché al Nord i corsi di specializzazione siano rivolti a un numero di persone inferiore al fabbisogno. Solo in Lombardia fino a qualche giorno fa mancavano ancora 800 docenti tra posti comune e di sostegno”.

A due mesi e mezzo dal suono della prima campanella, sono molti gli alunni disabili che non hanno ancora conosciuto il loro insegnante di sostegno oppure che hanno avuto assegnato un precario senza specializzazione. Il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi aveva annunciato in pompa magna che dal primo settembre i docenti sarebbero stati tutti al loro posto, ma la promessa del professore è smentita dai fatti. Dati ufficiali a livello nazionale, relativi ai maestri o ai professori di sostegno che non sono ancora arrivati in aula, non ci sono. Ad avere il polso della situazione son le associazioni che si occupano dei diversamente abili. Secondo il rapporto di Save the Children presentato in questi giorni in Italia nell’anno scolastico 20/21 c’erano 268.671 disabili e 152.521 docenti di sostegno (tra specializzati e non). Il problema maggiore riguarda - a detta di Evelina Chiocca, presidente del Coordinamento italiano insegnanti di sostegno (CIIS) - in modo particolare la Lombardia e il Veneto ma anche la capitale secondo Ernesto Ciriaci, presidente del “MiSoS”, Movimento insegnanti di sostegno specializzati. “Il Nord è il grande dimenticato in questa vicenda. E’ incomprensibile perché in Settentrione i corsi di specializzazione siano rivolti a un numero di persone inferiore al fabbisogno. Solo in Lombardia fino a qualche giorno fa mancavano ancora 800 docenti tra posti comune e di sostegno”. La presidente del “CIIS” racconta di una mamma che proprio in queste ore l’ha chiamata per raccontarle che da un mese non si trova un supplente all’insegnante di sostegno assente. Tuttavia anche in Sicilia la situazione è paradossale: su oltre 23mila e 500 cattedre quasi dodici mila sono state assegnate a insegnanti di sostegno precari e in parecchi casi (il 20% circa) senza titolo di specializzazione. Lo sa bene Giovanna Suarez, mamma di un ragazzo disabile e membro dell’ANFFAS, Associazione nazionale famiglie di persone con disabilità intellettiva: “Per mio figlio sono state fatte quattro nomine, ma non hanno ancora trovato il docente di sostegno. Fino a giugno ci sarà un precario senza specializzazione”. Il problema principale, per quanto concerne gli insegnanti di sostegno, è che l’Italia è divisa in due. Al Nord non si trovano i docenti di sostegno specializzati perché l’Università non li ha formati. Al Sud ci sono invece migliaia di professionisti disoccupati. Parlano i numeri: negli atenei delle otto Regioni meridionali e peninsulari l’offerta formativa è pari a circa 13mila posti contro i 3500 dell’intero Centro Nord. La Sicilia - da sola - fa corsi per 5mila persone. Al contrario, in Toscana si arriva a 985 posti, in Emilia 750 e in Lombardia 720. Detto questo, l’anno scolastico 2021/2022 è cominciato con 278mila disabili in classe e solo 112.370 specializzati di ruolo e non. Le altre sono cattedre “in deroga”, cioè docenti senza la specializzazione. In quest’ultime settimane molti dirigenti per trovare i docenti di sostegno sono ricorsi alle cosiddette “Mad” (messe a disposizione) andando a pescare tra i curriculum di migliaia di candidati che si sono proposti alle scuole pur non avendo competenze specifiche per insegnare.

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