Rivista di formazione e aggiornamento di pediatri e medici operanti sul territorio e in ospedale. Fondata nel 1982, in collaborazione con l'Associazione Culturale Pediatri.
M&B Pagine Elettroniche
Striscia... la notizia
UOC di Pediatria, Ospedale di Treviglio (Bergamo)
Indirizzo per corrispondenza: valentina_aba@yahoo.it

Sommario
Sindrome da rientro? Ne soffrono anche i piccoli
Vai alla fonte
Anche per i bambini la ripresa della consueta routine può non essere esente da un certo numero di fastidi. I consigli per i genitori su come affrontare il problema.
Nervosismo, tristezza, ansia ma anche fatica ad addormentarsi, risvegli notturni, scarso appetito e apatia. Anche per i bambini il rientro alla quotidianità dopo la pausa estiva non è esente da stress.
La depressione post vacanza esiste infatti anche nei bambini. Come per gli adulti è sostanzialmente un problema di adattamento. Se i grandi infatti possono soffrirne anche solo dopo aver goduto di un breve periodo di vacanza, è normale che ne soffrano anche i bambini, soprattutto tenendo presente che il loro periodo di vacanza è solitamente più lungo di quello degli adulti.
Sono molti, infatti, i casi in cui l’inserimento di bambini e ragazzi in classe è accompagnato da episodi di ansia, angoscia, demotivazione e tristezza. Come negli adulti nei bambini la gravità di questa sindrome dipenderà da molteplici fattori che vanno dall’aver svolto o meno i compiti delle vacanze, l’aver seguito una routine alimentare e del sonno simile a quella normale nel periodo scolastico.
Fondamentale anche il fatto se i bambini considerano l’ambiente scolastico, compagni di classe e insegnanti, come una realtà positiva o negativa oppure se si trovano, ad esempio, a cambiare scuola.
I sintomi della sindrome post-vacanza nei bambini non sono molto diversi da quelli degli adulti, sebbene siano particolarmente evidenti le somatizzazioni sotto forma di disagio corporeo diffuso, dal mal di stomaco, al vomito, dalla diarrea ai disturbi del sonno, in particolare incubi ed enuresi.©
Altri sintomi a cui i genitori dovrebbero prestare attenzione sono la mancanza di appetito e l’apatia, la scarsa motivazione e la riluttanza, il pianto, soprattutto quando si va a scuola, e l’irritabilità o aggressività. Come nel caso degli adulti, se i sintomi persistono per più di due settimane è necessario rivolgersi a un professionista per capire se c’è un altro problema di fondo.
A questo punto viene spontaneo chiedersi come aiutare i piccoli nel processo di adattamento? Ecco alcune linee guida per rendere più piacevole il rientro a scuola:
- Riprendere, un po’ prima dell’inizio della scuola, una routine quotidiana (per quanto riguarda i pasti, il bagno e l’ora di andare a letto) simile a quella che avranno all’inizio della scuola.
- Incoraggiare la comunicazione e l’espressione delle emozioni del bambino ovvero ascoltarlo con attenzione, e soprattutto non sottovalutare i suoi stati d’animo, cercando di capire perché si sente così.
- Rafforzare i piccoli risultati scolastici prima di iniziare. Dare un’occhiata ai nuovi libri o preparare lo zaino per il primo giorno possono essere azioni che possono rinforzare positivamente lo stato d’animo.
- Puntare sugli aspetti positivi parlando di quanto sarà bello ritrovarsi con gli amici e raccontare delle vacanze, imparare cose nuove, iniziare la sua attività sportiva preferita, oppure immaginare le escursioni che si faranno.
Vaccino anti-Covid fascia 5-11 anni, Pfizer: «Forte risposta immunitaria»
Vai alla fonte
I dati sulla fascia di età 5-11 anni con dose di vaccino inferiore rispetto agli adulti mostra un’immunità molto alta. Secondo Pfizer si potrebbe iniziare con le somministrazioni dall’inizio della stagione invernale.
Sui vaccini per i più piccoli le case farmaceutiche stanno correndo. Entro la fine dell’anno, hanno comunicato Pfizer e BioNTech, dovrebbero essere disponibili i primi risultati per i soggetti di età inferiore ai 5 anni. Intanto i primi dati per la fascia 5-11 sono disponibili e arrivano direttamente dalla sperimentazione di fase 2/3.
I dati presentati nell’ambito di questo studio riguardano i 2.268 partecipanti di età compresa tra 5 e 11 anni che hanno ricevuto una dose di 10 mg in un regime a due dosi. La media geometrica dei titoli di anticorpi neutralizzanti (Gmt) era 1197,6, e questo dato - si legge nella nota - ha dimostrato «forte risposta immunitaria in questa coorte di bambini un mese dopo la seconda dose».
Ciò si confronta bene, nel senso che è un dato non inferiore, con la media dei titoli anticorpali (1146,5) delle persone tra i 16 e i 25 anni, utilizzate come gruppo di controllo per questa analisi e a cui è stato somministrato un regime a due dosi di 30 mg. Il vaccino «è stato ben tollerato, con effetti collaterali generalmente paragonabili a quelli osservati nei partecipanti di età compresa tra 16 e 25 anni».
Dati coerenti con quelli delle popolazioni anziane
«Siamo lieti di poter presentare alle autorità di regolamentazione i dati per questo gruppo di bambini in età scolare prima dell’inizio della stagione invernale», ha affermato Ugur Sahin, Ceo e co-fondatore di BioNTech. «Il profilo di sicurezza e i dati sull’immunogenicità nei bambini di età compresa tra 5 e 11 anni vaccinati a una dose inferiore, pari a un terzo di quella usata per adolescenti e adulti, di età dai 12 anni in su, sono coerenti con quelli che abbiamo osservato con il nostro vaccino in altre popolazioni più anziane a una dose più elevata». Lo studio di fase 1/2/3 ha inizialmente arruolato fino a 4500 bambini di età compresa tra 6 mesi e 11 anni negli Stati Uniti, Finlandia, Polonia e Spagna, da oltre 90 Centri.
Covid: pediatri, vaccino diritto per tutti bimbi e ragazzi
Porta quasi a zero il rischio morte e al minimo quello di forme gravi
Vai alla fonte
Bambini e ragazzi, anche under-12, hanno tutti il diritto alla tutela della loro salute grazie al vaccino contro il Covid. Lo sottolineano l’Associazione degli Ospedali Pediatrici Italiani (AOPI) e la Società Italiana di Pediatria (SIP), che rappresentano una gran parte delle istituzioni pediatriche nelle quali afferiscono pazienti con forme gravi di Covid.
“In Italia - ricordano AOPI e SIP -grazie all’eccellenza dell’assistenza garantita all’età 0-18 anni dall’SSN, il numero di decessi in età evolutiva dovuti al Covid è contenuto, ma sono numerosi i casi di forme gravi che hanno necessitato di cure intensive (sindrome infiammatoria multiorgano pediatrica - MIS-C) curate e guarite”. “In accordo con i suggerimenti dell’American Academy of Pediatrics, di altre società scientifiche e in particolare la European Academy of Pediatrics - evidenziano - esprimiamo apprezzamento per l’opportunità offerta agli adolescenti (12-16 anni) di potere tutelare la propria salute. Auspichiamo la possibilità che il vaccino contro il Covid, confermando i promettenti dati ad oggi disponibili, dimostri la propria efficacia e sicurezza anche da 0 a 12 anni in modo che, completato l’iter previsto dalle norme, anche i più piccoli possano usufruire della stessa possibilità di prevenzione”.
“I dati della letteratura scientifica internazionale -aggiungono - confermano che, seppur raramente, il Covid può determinare il decesso anche in età evolutiva e che non sono rari i casi gravi, in particolare la MIS-C. Sosteniamo con fermezza il diritto di tutti in età evolutiva a poter fruire delle vaccinazioni disponibili per le fasce di età in cui già esiste un vaccino autorizzato (12-16 anni) e di poter offrire, appena disponibili, la stessa opportunità anche agli under 12”. “Ad oggi - concludono i due presidenti Alberto Zanobini e Annamaria Staiano - la vaccinazione è il solo provvedimento che porta quasi a zero il rischio morte e rende minimo il rischio di contrarre forme cliniche gravi. È importante che le stesse opportunità di salute vengano offerte anche ai cittadini dell’età evolutiva. I benefici della vaccinazione per bambini e adolescenti sono molteplici: proteggere la salute; normalizzare la vita (scuola, socializzazione); ridurre la circolazione virale nell’intera popolazione”.
Appendicite pediatrica, quando la diagnosi è ritardata
Vai alla fonte
Nei bambini la diagnosi tardiva di appendicite può dipendere da uno scarso quadro sintomatologico. In questi casi è sono utili gli esami diagnostici di imaging, che non trovano ancora larga diffusione.
Molti bambini ricevono una diagnosi tardiva di appendicite perché presentano meno sintomi evidenti della patologia e vengono sottoposti poco frequentemente a esami di imaging, che in questi casi risultano essere molto indicati. È quanto emerge da uno studio condotto da Kenneth Michelson e colleghi, del reparto di medicina d’urgenza presso il Boston Children’s Hospital. I ricercatori hanno esaminato i dati relativi a 748 pazienti trattati in diversi Pronto Soccorso statunitensi tra il 1° gennaio 2010 e il 31 dicembre 2019. I soggetti avevano meno di 21 anni e avevano ricevuto una diagnosi di appendicite.
L’analisi ha incluso 277 controlli (37%), ai quali l’appendicite era stata diagnosticata alla prima visita in Pronto Soccorso, e 471 casi (63%) di diagnosi tardiva, in cui pazienti non avevano ricevuto la diagnosi alla prima visita ma al secondo consulto in Pronto Soccorso.
Per valutare le singole caratteristiche dell’appendicite e la probabilità pre-test di appendicite è stato utilizzato il Pediatric Appendicitis Risk Calculator (pARC). I pazienti con una diagnosi ritardata presentavano una probabilità pre-test di appendicite dal 39% al 52% più bassa rispetto ai bambini che avevano ricevuto la diagnosi alla prima visita in Pronto Soccorso. Tra i bambini con una diagnosi ritardata, 109 casi (23,1%) erano “probabilmente prevenibili” e 247 (52,4%) erano “possibilmente prevenibili”.
I pazienti con diagnosi ritardata avevano meno probabilità di manifestare alcuni sintomi tipici dell’appendicite come dolore alla deambulazione (odds ratio aggiustato -aOR- 0,16), dolore massimo nel quadrante inferiore destro (aOR 0,12) e protezione addominale (aOR, 0,33). I pazienti con una diagnosi ritardata di appendicite presentavano anche maggiori probabilità di quelli diagnosticati alla prima visita in Pronto Soccorso di avere una patologia cronica complessa (aOR, 2,34).
Microplastiche, nei bimbi quantità 10 volte maggiori rispetto agli adulti
Analisi rivelano la presenza di PET e policarbonato
Vai alla fonte
Ritrovate microplastiche, ossia frammenti di plastica delle dimensioni inferiori a 5 millimetri, nelle feci dei neonati, per alcuni tipi in quantità anche maggiori rispetto a quanto si ritrova negli adulti. Lo indica lo studio pilota pubblicato sulla rivista ACS’ Environmental Science & Technology Letters e condotto da Kurunthachalam Kannan della New York University School of Medicine.
Resta da capire se e in che modo queste microplastiche possano ledere la salute dei bimbi.
Gli esperti hanno esaminato le feci di bimbi piccoli, anche le prime feci (meconio) del neonato e poi di individui adulti alla ricerca di microplastiche di PET (il materiale usato per le bottiglie) e di policarbonato (molto usato in ottica, edilizia, elettronica).
È emerso che queste microplastiche sono presenti anche nei campioni di feci dei bimbi, addirittura per quel che riguarda il PET a concentrazioni in media 10 volte superiori a quelle dell’adulto. Resta da estendere questo studio a un campione più ingente di individui e capire quali siano i possibili effetti avversi sulla salute, concludono gli Autori.
Sindrome di Tourette e disturbi alla colonna cervicale
Vai alla fonte
Un nuovo studio condotto in Svezia ha rilevato una correlazione tra sindrome di Tourette, che si manifesta con gravi tic motori che interessano il collo, e maggior rischio di disturbi alla colonna cervicale. Lo studio ha seguito oltre 67 mila soggetti per una mediana di 17 anni.
Un nuovo studio svedese ha fatto emergere come i soggetti con sindrome di Tourette o disturbo cronico da tic presentino maggiori probabilità di sviluppare disturbi alla colonna cervicale rispetto alla popolazione generale.
I ricercatori - guidati da Josef Isung del Centre for Psychiatry Research presso il Karolinska Institute di Stoccolma - hanno esaminato i dati relativi a 6791 adulti in Svezia affetti da sindrome di Tourette o disturbo cronico da tic appaiati per età, sesso e luogo di nascita a 67.910 soggetti senza tali patologie nella popolazione generale. Tutti i partecipanti erano nati tra il 1973 e il 2013 e sono stati seguiti per una mediana di 17 anni.
Nel complesso, 237 persone (3,5%) con sindrome di Tourette o disturbo cronico da tic hanno ricevuto almeno una diagnosi di disturbo alla colonna cervicale durante il periodo di studio, rispetto ai 1483 (2,2%) tra i controlli appaiati.
Dopo l’aggiustamento per disturbi reumatici, incidenti stradali, infortuni legati a cadute e sport, la sindrome di Tourette o il disturbo cronico da tic si associavano a un rischio significativamente più elevato di disturbo alla colonna cervicale (aHR, 1,39). La sindrome di Tourette o il disturbo cronico da tic si correlavano anche a un rischio significativamente aumentato di disturbi cervicali vascolari (aHR 1,57) e non vascolari (aHR 1,38).
“La regione del collo è vulnerabile a lesioni e in alcuni casi i tic motori potrebbero causare l’usura meccanica degli elementi spinali che nei casi più gravi potrebbe condurre a fratture, spazio compromesso per i nervi spinali che provoca radicolopatia/mielopatia e dissezione dei vasi cervicali adiacenti alla colonna cervicale”, osserva l’Autore principale dello studio Josef Isung.
L’età media alla diagnosi di sindrome di Tourette o disturbo cronico da tic era 15,6 anni. I disturbi alla colonna cervicale esaminati nello studio sulla base dei codici dell’ICD-10 includevano aneurisma e dissezione dell’arteria carotidea, infarto cerebrale, spondilosi, disturbi del disco cervicale, fratture e distorsioni della colonna cervicale e cervicalgia.
In un’analisi di sottogruppo, i ricercatori hanno esaminato i dati relativi a 3.289 individui con sindrome di Tourette o disturbo cronico da tic e 32.890 controlli appaiati nella popolazione generale seguiti per tre anni. All’interno di questo gruppo, l’associazione tra sindrome di Tourette o disturbo cronico da tic e disturbi alla colonna cervicale era ancora più marcata (aHR 1,54).
I limiti dello studio includono il potenziale di errata diagnosi della sindrome di Tourette o disturbo cronico da tic, in particolare nella distinzione tra tic funzionali e idiopatici, osservano gli autori su JAMA Neurology. Inoltre, i ricercatori non disponevano di dati sulla gravità dei tic.
“I pazienti con sindrome di Tourette possono avere gravi tic motori che interessano la regione del collo e possono sviluppare dissezione arteriosa che conduce a ictus ischemico o lesione al midollo spinale cervicale, causando mielopatia e a sua volta disabilità a lungo termine”, dichiara Ashutosh Kumar, professore di Pediatria e Neurologia presso il Penn State Health Milton S Hershey Medical Center di Hershey, Pennsylvania, non coinvolto nello studio, “I medici dovrebbero essere attenti e consapevoli di queste potenziali complicanze per prevenire disabilità a lungo termine ed esiti infausti”.
Giornata mondiale della sindrome feto-alcolica. Ministero: “Parola d’ordine: zero alcol in gravidanza”
Vai alla fonte
Si celebra oggi la Giornata per aumentare la consapevolezza sui rischi legati all’alcol in gravidanza. Si stima che circa il 10% delle donne a livello mondiale assuma alcol in gravidanza e che in media circa 15 bambini su 10.000 nati in tutto il mondo siano affetti da sindrome feto-alcolica e da disordini fetoalcolici.
Il 9 settembre si celebra, dal 1999, la Giornata mondiale della sindrome feto-alcolica e disturbi correlati, per aumentare la consapevolezza sui rischi legati all’alcol in gravidanza.
“La sindrome feto-alcolica (Fetal Alcohol Syndrome - FAS) è la più grave disabilità permanente che si manifesta nel feto, esposto durante la vita intrauterina all’alcol consumato dalla madre durante la gravidanza”, scrive il Ministero della Salute sul proprio sito.
“Oltre alla FAS - sottolinea il Ministero - , che è la manifestazione più grave del danno causato dall’alcol al feto, si possono verificare una varietà di anomalie strutturali (anomalie cranio facciali, rallentamento della crescita, ecc.) e disturbi dello sviluppo neurologico, che comportano disabilità comportamentali e neuro-cognitive, queste alterazioni si possono presentare con modalità diverse tali da comportare un ampio spettro di disordini che vengono ricompresi nel termine FASD (Fetal Alcohol Spectrum Disorder)”.
Il Ministero evidenzia però come “la FAS si può prevenire al 100%, ma per farlo è indispensabile che i medici forniscano alle donne in gravidanza e in età fertile, tutte le informazioni utili per capire quali possano essere le conseguenze del consumo di alcol. Molte future mamme sono, infatti, erroneamente convinte che il consumo di vino, birra, liquori, aperitivi alcolici o superalcolici, in maniera saltuaria e moderata, non comporti problemi per il feto. In realtà, non esiste una dose sicura da assumere durante la gravidanza e l’astinenza è l’unica indicazione da dare e seguire. L’Alleanza europea per la sindrome feto-alcolica raccomanda ZERO alcol in gravidanza, nei momenti appena precedenti a essa quando si desidera avere un figlio e anche se si è ad alto rischio di gravidanza non pianificata”.
Come agisce l’alcol
L’alcol è una sostanza tossica in grado di attraversare la placenta e raggiungere il feto alle stesse concentrazioni di quelle della madre. Tuttavia il feto ha poca o nessuna capacità di metabolizzare l’alcol, che interferisce con la divisione cellulare e ne inibisce la crescita, provocando danni a molti organi, soprattutto al cervello, tanto che la FAS rappresenta la prima causa conosciuta di ritardo mentale nel bambino e poi nell’adulto.
Nel mondo
Si stima che circa il 10% delle donne a livello mondiale assuma alcol in gravidanza e che in media circa 15 bambini su 10.000 nati in tutto il mondo siano affetti da sindrome feto-alcolica e da disordini fetoalcolici.
Secondo il rapporto dell’OMS del 2018:
- il 65,6% delle donne in età fertile nella regione europea consuma alcol
- in media, il 25% delle donne incinte in Europa consuma alcol, con il 2,7% che si dedica al binge drinking
- Irlanda, Bielorussia, Danimarca, Regno Unito e Russia hanno i tassi più alti al mondo di consumo di alcol in gravidanza (Lancet Global Health, 2017).
Lo studio stima che il 2% della popolazione europea sia affetta da una FASD, con tassi molto alti tra gli adottati dell’Europa orientale, negli orfanotrofi e negli istituti psichiatrici. E i numeri sono probabilmente destinati a salire in questo periodo di pandemia.
FAS in Italia
“Non esistono dati italiani sull’incidenza di FAS e FASD - rimarca il Ministero -. Per valutare nel nostro Paese il reale consumo di alcol nelle donne in gravidanza o che desiderano avere un figlio e per prevenire le conseguenze di tale consumo, il Ministero della salute ha affidato al Centro Nazionale Dipendenze e Doping dell’Istituto Superiore di Sanità un progetto pilota (fondi CCM) - Prevenzione, Diagnosi precoce e trattamento mirato di FASD e FAS. Iniziato nel 2019, sarà concluso a fine anno 2021 con un evento, che presenterà i risultati conseguiti. Gli obiettivi del progetto prevedono il monitoraggio del consumo di alcol in gravidanza e la conseguente esposizione fetale, nonché informare sui rischi dell’alcol in gravidanza attraverso la diffusione di opuscoli e altri strumenti operativi su tutto il territorio nazionale, non ultimo l’importante funzione di formare operatori sanitari e assistenti sociali sulla prevenzione, la diagnosi e il trattamento di FAS e FASD”.
Malattie infiammatorie croniche intestinali e farmaci biologici: arriva la somministrazione sottocutanea
Vai alla fonte
Iniezione sottocutanea e non più infusione endovenosa
È questa la novità che sta rivoluzionando la vita di molte persone affette da malattie infiammatorie croniche intestinali, come la malattia di Crohn e la colite ulcerosa. Si tratta di una diversa somministrazione, più semplice e rapida, di quegli stessi farmaci biologici che, già da diversi anni, hanno migliorato la qualità di vita di tanti pazienti, riuscendo, molto spesso, a tenere sotto controllo anche i casi più gravi.
Perché scegliere la somministrazione sottocutanea
«Somministrare il farmaco per via sottocutanea offre numerosi vantaggi - spiega Maurizio Vecchi, professore ordinario di Gastroenterologia e direttore della scuola di specializzazione in Malattie dell’Apparato Digerente dell’Università degli Studi di Milano -. Per gli ammalati si riduce al minimo la necessità di andare in ospedale, poiché il farmaco può essere somministrato anche a domicilio. Per i medici cala il numero di pazienti da gestire all’interno delle strutture ospedaliere, un dato non trascurabile soprattutto in questo periodo in cui il SSN è già messo a dura prova dall’emergenza Covid». Ma non è tutto. «Dai dati ricavati dallo studio dei livelli di farmaco nel sangue dei pazienti trattati si evince che tali livelli rimangono più stabili nel tempo», aggiunge Vecchi. Le ricerche hanno dimostrato che, al termine della fase acuta di induzione del farmaco per via endovenosa, è possibile mantenere la remissione raggiunta anche per via sottocutanea, con risultati identici al mantenimento endovenoso.
Malattia di Crohn e colite ulcerosa
I pazienti affetti da malattie infiammatorie croniche intestinali avranno, dunque, la possibilità di optare per l’una o l’altra tipologia di somministrazione. Una scelta che, in Italia, riguarda circa 250 mila persone. La malattia di Crohn e la colite ulcerosa colpiscono spesso i giovani, se non addirittura pazienti in età pediatrica. L’andamento cronico e recidivante della patologia impatta significativamente sulla vita scolastica, universitaria e lavorativa. Un impatto negativo che, fortunatamente, si è notevolmente ridotto grazie all’utilizzo dei farmaci biologici.
L’avvento dei farmaci biologici
«Fino a due decenni fa il cortisone era il farmaco più utilizzato per il trattamento delle malattie infiammatorie croniche intestinali. Riuscire a limitare i sintomi, restituendo una migliore quotidianità ai nostri pazienti - racconta lo specialista - era per noi già il più atteso dei risultati. Oggi, grazie all’utilizzo dei farmaci biologici, non solo siamo in grado di tenere ugualmente sotto controllo i sintomi, ma anche il progredire della malattia, limitando le conseguenze che questa avrebbe sull’apparto gastrointestinale nel corso degli anni se non venisse somministrato alcun trattamento. In altre parole, i farmaci biologici sono in grado di cambiare la storia naturale della malattia, arrestandone la progressione e diminuendo anche l’eventuale ricorso alla sala operatoria».
Farmacoresistenza e chirurgia
Ovviamente, oggi come un tempo, esistono pazienti farmacoresistenti. «Ma questa percentuale è nettamente calata - assicura il gastroenterologo -. In ogni caso, il ricorso all’intervento chirurgico non deve essere visto come una sconfitta, un insuccesso della terapia medica. Attualmente abbiamo a disposizione tecniche molto avanzate, più efficaci e meno invasive. Anche la loro evoluzione - conclude - ha, infatti, contribuito a migliorare la qualità di vita dei pazienti, al pari dei farmaci biologici».
Pronto Soccorso. “Carenza di personale: si rischia la chiusura o l’interruzione del servizio”. L’allarme della SIMEU
Vai alla fonte
Il ricambio di medici non è più assicurato e i giovani medici sono sempre meno incentivati nel scegliere la specialità dell’Emergenza-Urgenza perché il lavoro dei PS è “gravoso, poco riconosciuto e non premiante”: tant’è che 456 borse di studio in Medicina di Emergenza-Urgenza quest’anno non sono state assegnate.
“Sono molti, troppi i segnali in tutto il territorio nazionale che manifestano la progressione di una crisi grave che potrebbe ripercuotersi negativamente sulle consolidate abitudini delle persone. Il servizio di Pronto Soccorso, da tutti noi dato per scontato, è a rischio. Se non si interviene subito, con decisioni coraggiose, capaci di portare cambiamenti strutturali importanti, potremmo assistere alla progressiva chiusura o a radicali cambiamenti, in negativo, di questa funzione”.
Così la SIMEU, la Società Italiana Medicina di Emergenza-Urgenza che da anni sollecita la Politica e le Istituzioni affinché “siano assicurati standard di prestazione equi per il personale sanitario che rappresenta, al fine di garantire il diritto alla cura per tutti, una corretta risposta qualitativa ai bisogni dei pazienti e soprattutto perché si sviluppi una visione per il futuro che condiziona anche la tenuta dell’intero sistema sanitario”.
Eppure, ricorda la SIMEU in una nota, appelli e allarmi paiono cadere inascoltati, la situazione si fa sempre più critica e ci si avvicina sempre di più al punto di rottura “Il ricambio di medici non è più assicurato - spiega Salvatore Manca, presidente nazionale SIMEU - abbiamo lottato per avere un numero maggiore di borse di studio nella nostra specialità di medicina per poter colmare le debolezze di organico, che da anni denunciamo, con professionisti adeguatamente formati, ma i giovani medici sono sempre meno incentivati nel scegliere la specialità dell’Emergenza-Urgenza perché quello che vedono oggi nei nostri Pronto Soccorso è un lavoro gravoso, poco riconosciuto e non premiante. Turni massacranti, il peso del decidere per la vita di un paziente, le ripercussioni legali, l’impossibilità di svolgere la libera professione, come invece altri specialisti fanno. A questo si aggiungono i casi di aggressioni verbali e fisiche di cui diventano facili vittime”.
E conclude la SIMEU: “C’è un dato estremamente preoccupante: 456 borse di studio in Medicina di Emergenza-Urgenza quest’anno non sono state assegnate.”
Retinopatia dei prematuri: si diagnostica con un algoritmo, si cura con un farmaco “salva-vista”
Vai alla fonte
Ogni anno, in Italia, 900 bambini rischiano la cecità, quasi 3 nati ogni 24 ore. A causarla è la retinopatia dei prematuri (ROP), una malattia vaso-proliferativa della retina strettamente connessa alla prematurità che determina, se non trattata, un distacco di retina totale e la conseguente completa perdita della vista.
Chi colpisce
«La retinopatia dei prematuri - spiega il professor Domenico Lepore della UOC di Oculistica della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS, diretta dal professor Stanislao Rizzo e professore aggregato di Oftalmologia presso l’Università Cattolica, campus di Roma - nei Paesi industrializzati, come il nostro, colpisce i prematuri gravi, nati entro le 28 settimane di gestazione con un peso corporeo inferiore al chilo. Nei Paesi in via di sviluppo, invece, sono a rischio i neonati prematuri, nati prima delle 32 settimane di gestazione». La disomogeneità è causata non solo da differenti opportunità di accesso alle cure, ma anche dalla mancanza di una diagnosi adeguata e precoce.
Le cure
«Una volta effettuata la diagnosi abbiamo appena 48 ore di tempo per effettuare il trattamento. Fino a poco tempo fa l’unico a disposizione consisteva nella distruzione della retina non vascolarizzata. Oggi, invece, disponiamo di farmaci in grado di bloccare lo sviluppo della patologia, con un successo che supera l’80% dei casi. Studi recenti - continua il professor - hanno dimostrato l’efficacia dell’iniezione intra-vitreale (cioè all’interno dell’occhio) di un farmaco anti-VEGF che blocca la crescita patologica dei vasi, e che è lo stesso usato anche per la retinopatia diabetica. Nella maggior parte dei casi basta una singola iniezione, nel 20-30% dei pazienti è necessario effettuare una seconda somministrazione, a distanza di 4-6 settimane dalla prima».
Questo farmaco “salva-retina” è stato approvato dall’EMA circa un anno e mezzo fa, oltre che dall’FDA e dall’Autorità regolatoria giapponese, ma non è stato ancora autorizzato dall’AIFA. In Italia, per il momento, può essere utilizzato solo all’interno di un trial clinico oppure off-label.
Perché la retina del prematuro non si sviluppa
«La retina è la struttura dell’occhio che percepisce la luce. Quando un bambino nasce prima del termine, le arterie e le vene della retina non sono completamente sviluppate, visto che di norma il completamento della vascolarizzazione della retina si ha oltre la 52esima settimana di età post-concezionale. Lo sviluppo dei vasi retinici, dunque, nel bambino prematuro avviene nell’incubatrice, ma in quelli estremamente prematuri o con gravi patologie associate, questo processo a un certo punto si arresta, per ragioni ancora non del tutto note e si determina un’alterazione della direzione di crescita di vasi (che non crescono più sulla superficie, ma si dirigono verso l’interno dell’occhio), che può portare al distacco della retina».
Nuova classificazione della ROP
La ROP è stata recentemente riclassificata, attraverso un aggiornamento pubblicato su Opthalmology. Il professor Lepore è l’unico italiano dei 23 autori e uno dei 5 europei. «La classificazione internazionale - spiega il professor Lepore - è un linguaggio comune che permette agli esperti di retina pediatrica di comunicare tra loro, per condividere esperienze cliniche. Negli ultimi anni, sia per l’introduzione dei sistemi di intelligenza artificiale, che per il cambiamento dell’outcome della patologia, legato all’introduzione di nuovi farmaci, il vecchio linguaggio non era più adatto a descrivere quello che succedeva. La novità principale è rappresentata dall’introduzione di standard fotografici per la diagnosi delle forme più gravi. Questo offre al clinico un riferimento standardizzato, che permette di superare il problema della variabilità nella classificazione della malattia (sia tra i vari esperti, che a livello della stessa persona, in momenti diversi)».
L’intelligenza artificiale
Gli esperti del policlinico Gemelli di Roma hanno messo a punto un algoritmo di intelligenza artificiale per diagnosticare in maniera molto più accurata e precoce la retinopatia del prematuro. «L’intelligenza artificiale aiuta a ridurre la variabilità dell’osservazione: i sistemi di convolutional neural network, vengono fatti “allenare”‘ su banche dati di immagini di patologie retiniche, delle quali sono noti anche gli esiti di patologia. Auspichiamo che questo algoritmo possa essere offerto gratuitamente a tutti coloro che vorranno un supporto per la diagnosi della retinopatia del prematuro così da offrire un accesso alle cure sempre più omogeneo, dal Nord al Sud della penisola».
Piastrinopenia autoimmune: cause, sintomi e possibili terapie
Vai alla fonte
È una malattia rara della coagulazione: si manifesta con petecchie ed ecchimosi a livello cutaneo, insieme a sanguinamenti dal naso o dalle gengive. Si cura con corticosteroidi.
La piastrinopenia (o trombocitopenia) autoimmune (ITP) è una malattia rara della coagulazione. Ha un’incidenza stimata di 10-20 casi per 100.000 persone. È caratterizzata da una drastica riduzione di piastrine nel sangue (a causa della loro distruzione da parte della milza), senza altre patologie associate. L’entità dei sintomi varia da paziente a paziente: si può passare da sanguinamenti muco-cutanei a gravi emorragie gastrointestinali o cerebrali, più rare ma potenzialmente fatali. In un terzo dei casi la malattia si sviluppa in maniera asintomatica.
Forme primarie e secondarie
La piastrinopenia autoimmune viene distinta in due forme: primaria (circa 80% del totale) e secondaria (20%). In entrambe si rileva la presenza di autoanticorpi anti-piastrine, ma non sono note le cause che scatenano questo processo. Nelle forme secondarie la malattia insorge come conseguenza di altre patologie (per esempio lupus erimatoso) o a causa dell’assunzione di particolari farmaci. La mortalità in generale è bassa, circa 1-2%, ma la malattia può influire pesantemente sulla qualità di vita dei pazienti.
Riconoscere i sintomi
Tra i sintomi maggiormente riconoscibili — si legge sul sito dell’Osservatorio malattie rare — c’è la comparsa di petecchie e di ecchimosi a livello cutaneo (soprattutto negli arti inferiori), insieme a sanguinamenti dal naso (epistassi) o dalle gengive. Sono frequenti anche bolle emorragiche in corrispondenza delle mucose, sanguinamenti dell’apparato gastrointestinale e genito-urinario (presenza di sangue nelle urine) e, nelle donne, emorragie più abbondanti nel corso delle mestruazioni. In alcuni casi può esserci anemia sideropenica secondaria, accompagnata da debolezza o astenia.
Come si fa la diagnosi
Per quanto riguarda la diagnosi, l’esame di laboratorio di riferimento è l’emocromo: oltre a fornire il numero delle piastrine, indica anche il volume piastrinico medio, che in molti casi può risultare aumentato. La diagnosi è sostanzialmente clinica e, insieme all’emocromo, prevede l’esame del paziente, la raccolta delle informazioni anamnestiche e la valutazione di uno striscio di sangue periferico, per escludere altre possibili cause di trombocitopenia, specie quelle di tipo infettivo o da esposizione a farmaci o sostanze tossiche.
Le cure, fino alla splenectomia
Il principale obiettivo delle cure è ridurre il rischio emorragico, mantenendo il numero di piastrine a livelli non pericolosi per la salute. La terapia di prima linea si basa essenzialmente sulla somministrazione di corticosteroidi (idrocortisone o prednisone). Ai pazienti pediatrici con emorragie gravi, o a quelli con conteggio piastrinico inferiore a 10-20mila unità per microlitro, insieme ai corticosteroidi è possibile somministrare immunoglobuline per via endovenosa. Negli ultimi anni, come terapia di seconda linea vengono utilizzati gli agonisti del recettore della trombopoietina (Tpo-mimetici) e rituximab, un anticorpo monoclonale che svolge un’azione immunosoppressiva. In ultima istanza, ad almeno 12 mesi dalla diagnosi e solo nei casi gravi, si può ricorrere alla splenectomia (rimozione della milza), che offre una solida possibilità di guarigione in due terzi dei casi.
Vuoi citare questo contributo?