Rivista di formazione e aggiornamento di pediatri e medici operanti sul territorio e in ospedale. Fondata nel 1982, in collaborazione con l'Associazione Culturale Pediatri.
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UOC di Pediatria, Ospedale di Treviglio (Bergamo)
Indirizzo per corrispondenza: valentina_aba@yahoo.it

Sommario
Antibioticoterapia sul podio dei trattamenti in Terapia Intensiva Neonatale: l’infettivologo non esulta!
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Gli antibiotici rimangono tra i farmaci più prescritti all’interno delle Terapie Intensive Neonatali (TIN) di tutto il mondo. Permettendo di trattare infezioni potenzialmente fatali in una popolazione a rischio come i neonati prematuri, è facile ricorrere al loro utilizzo più spesso delle reali necessità. E questo non sempre è un vantaggio. Il loro eccessivo e inappropriato utilizzo infatti è dimostrato ripercuotersi negativamente sia sugli outcome clinici dei piccoli pazienti che sulla salute pubblica, in termini di pressione evolutiva e selezione di organismi multiresistenti (MDRO), con conseguente aumento dei costi della spesa sanitaria.
È ormai noto a tutti che per far fronte all’enorme problema dell’abuso di antibiotici è fondamentale mettere in atto efficaci programmi di antimicrobial stewardship (ASP) che guidino i medici nel corretto utilizzo dell’antibioticoterapia.
L’efficacia di tali programmi è ormai provata e Prusakov e coll., recentemente ne ribadiscono l’importanza nello studio NO-More-AntibioticS and Resistance che dimostra un più basso utilizzo di antibiotici nelle TIN con ASP avviati. Gli autori hanno analizzato l’utilizzo della terapia antibiotica in una unica sola giornata in 84 TIN di 29 diversi Paesi di tutto il mondo, verificandone le indicazioni e quantificandone le prescrizioni. Dai risultati emerge che il 26% dei neonati ha ricevuto nello stesso giorno almeno un antibiotico, con amikacina, vancomicina e meropenem sul podio degli antibiotici più prescritti.
Questo ci fa riflettere: tutti questi antibiotici sono necessari? Il 6% di essi per esempio è stato utilizzato come profilassi di infezione. Era possibile utilizzare in prima battuta antibiotici a spettro più ristretto, come le classiche ampicillina e gentamicina? L’utilizzo più appropriato degli antibiotici infatti permetterebbe non solo di limitare la selezione di MDRO, ma anche di ridurre i costi di ospedalizzazione. La provata efficacia dei ASP, sia sul piano clinico che economico, deve incoraggiarci nel loro utilizzo, a maggior ragione in Paesi con scarse risorse economiche.
Nuovo vaccino antimalarico protegge bimbi nel 77% dei casi
Messo a punto a Oxford, molto più efficace di quello ora in uso
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Un nuovo vaccino adiuvato contro la malaria, sviluppato dall’Università di Oxford, ha mostrato un’efficacia del 77% nel prevenire nei bambini questa malattia parassitaria causata dalla zanzara. A mostrarlo sono i risultati di un trial eseguito su 450 bambini in Burkina Faso, pubblicati in preprint su Lancet.
La malaria ancora uccide ogni anno circa 400mila bambini, soprattutto in Africa.
I ricercatori dello Jenner Institute dell’Università britannica, insieme ai colleghi del Serum Institute of India, hanno messo a punto un nuovo vaccino sperimentale R21 che utilizza anche l’adiuvante Matrix-M di Novavax, ovvero una sostanza che potenzia la risposta immunitaria alla vaccinazione.
Lo studio ha incluso 450 partecipanti tra 5 e 17 mesi di vita in Burkina Faso: un gruppo ha ricevuto il vaccino con 25 mg di adiuvante, un secondo gruppo il vaccino con 50 mg di adiuvante e un terzo gruppo di controllo ha ricevuto un vaccino antirabbico. Le somministrazioni sono state fatte con tre dosi prima della stagione della malaria e una quarta a distanza di un anno. L’efficacia di R21 nel prevenire la malattia è stata del 77% nel gruppo con la dose più alta di adiuvante e del 71% nel gruppo con la dose più bassa: in entrambi i casi è di gran lunga maggiore all’efficacia raggiunta con il vaccino antimalarico finora utilizzato in Kenya, Ghana e Malawi. “Questi risultati significativi supportano le nostre aspettative, che includevano il raggiungimento dell’obiettivo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità di avere vaccino anti malaria con almeno il 75% di efficacia”, commenta Adrian Hill, coautore dello studio e noto per aver messo a punto il vaccino anti-Covid AstraZeneca. Una più ampia sperimentazione di fase III sta arruolando 4800 bambini mentre l’Istituto Jenner si è detto pronto a chiedere agli Enti regolatori del farmaco un parere scientifico e l’approvazione urgente per l’uso in Africa, dove, conclude Hill, “la malaria uccide molte più persone rispetto al Covid”.
Covid: il lockdown cambia la vita dei bimbi con emicrania
L’11% ne soffre e colpisce un adolescente su quattro
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L’emicrania non colpisce solo gli adulti, ma può toccare fino all’11% dei bambini in età scolare e interessa, più o meno frequentemente, un adolescente su quattro.
La pandemia e il lockdown hanno aumentato proprio nei giovani i sintomi, le disabilità e le problematiche della vita di tutti i giorni. A sottolinearlo è Antonia Versace, responsabile del Centro Cefalee dell’età evolutiva dell’Azienda Sanitaria Ospedaliera Città della Salute e della Scienza di Torino, “il Covid ha segnato doppiamente i nostri pazienti perché ha cambiato profondamente la loro vita.
L’emicrania è una patologia spesso legata all’emotività, soprattutto nei giovanissimi.
Durante la prima ondata alla malattia è stato messo il ‘silenziatore’. Molti malati non si sono più rivolti ai Centri cefalee per paura di un possibile contagio”.
Per Versace, “chiudersi in casa e smettere con le attività quotidiane ha portato a un significativo calo anche dello stress”. “Nella seconda e terza ondata la situazione è cambiata. Il carico del lavoro scolastico è aumentato e ha costretto a stare molte ore davanti al computer. La prolungata limitazione delle attività sociali ordinarie ha determinato ansia e quindi anche un peggioramento di chi soffre di frequenti attacchi di mal di testa”.
Una recente ricerca condotta al Campus Bio-Medico di Roma, e pubblicata sulla rivista International Journal of Neurology and Brain Disorders, ha notato alcuni effetti positivi grazie all’uso di un integratore a base di partenio, griffonia e magnesio. Il lavoro ha coinvolto bambini dell’età media di 10 anni che soffrivano di mal di testa. “Sono stati ottenuti ottimi risultati dopo soli tre mesi di trattamento con la doppia assunzione quotidiana del nutraceutico - spiega Giorgio Dalla Volta, presidente della sezione regionale della Lombardia SISC (la Società Italiana Studio Cefalea) e direttore del Centro cefalee dell’Istituto clinico città di Brescia-Gruppo San Donato - Si sono riscontrati una riduzione dei giorni di cefalea e una significativa diminuzione dell’intensità del dolore. Ben il 75% dei giovani pazienti, inoltre, ha segnalato un miglioramento della disabilità legata al mal di testa”.
Vaccini. L’allarme dei pediatri: “Ritardo nel Calendario delle immunizzazioni non Covid. Fateci vaccinare i bambini”
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Il Presidente FIMP Paolo Biasci: “Dopo la firma del Protocollo di Intesa con il Ministero della Salute che ci consente di occuparci di tutto il Calendario vaccinale dei nostri assistiti, manca l’input alle Regioni perché si mettano in moto accordi attuativi. Il futuro è adesso”.
Ambulatori di Igiene Pubblica impegnati con il Covid-19 e famiglie disorientate o preoccupate del contagio. Una combinazione micidiale che ha portato a una diminuzione delle coperture vaccinali per malattie prevenibili come polmoniti, meningiti, morbillo e varicella.
Nella settimana che l’Organizzazione Mondiale della Sanità dedica alle vaccinazioni, la Federazione Italiana Medici Pediatri lancia l’allarme sugli effetti indiretti della pandemia e fa appello alle Istituzioni: “Fateci vaccinare i bambini - dichiara il Presidente Paolo Biasci -. Abbiamo siglato in tal senso un Protocollo di Intesa con il Ministero della Salute, che ci permette di occuparci interamente del Piano Nazionale di Prevenzione Vaccinale oltre che della vaccinazione Covid quando sarà disponibile un vaccino per l’età pediatrica, ma occorre un deciso input alle Regioni, affinché mettano in moto accordi attuativi a livello locale. Facciamo in modo che questa Settimana di sensibilizzazione non sia di rituali denunce e buone intenzioni, ma occasione di interventi fattivi attesi dai noi pediatri di famiglia, ma soprattutto dalle famiglie che assistiamo”.
“È indubbio che la vaccinazione anti Covid-19 sia una priorità ma è fondamentale non lasciare indietro l’immunizzazione di routine che, se ulteriormente trascurata, potrebbe avere gravi e durature ripercussioni sulla salute dei nostri bambini. La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità aveva indicato la strada maestra per evitare questo scenario, raccomandando di far coincidere le somministrazioni vaccinali con i bilanci di salute. Un’indicazione importante che nel quadro assistenziale italiano si traduce nell’affidare questa attività alla Pediatria del territorio, presente in modo capillare e professionalmente preparata a svolgere tale incarico. In quelle Regioni e Province dove ci siamo già fatti carico delle vaccinazioni, ci sono esperienze radicate e diffuse di buone pratiche e ottima Sanità. Cerchiamo di recuperare il gap denunciato anche dal presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, Silvio Brusaferro, continuando a coniugare il nostro impegno con l’evidente necessità di lasciare all’Igiene Pubblica risorse adeguate da dedicare al contenimento della pandemia”.
“Siamo pronti a vaccinare contro il Covid-19 genitori e caregiver dei bambini fragili - conclude Giorgio Conforti dell’Area Vaccini FIMP - sollevando dal compito i Servizi di Prevenzione su tutto il territorio nazionale. Nei nostri oltre 7000 studi continuiamo a contribuire alla tenuta del Sistema Sanitario e quando sarà disponibile, organizzeremo le somministrazioni per gli under-16, accedendo e aggiornando l’anagrafe vaccinale in tempo reale e così rafforzando l’efficacia delle campagne di profilassi. «Vaccines bring us closer», “I vaccini ci avvicinano” è slogan della Settimana mondiale promossa dall’OMS. Proteggere i bambini da malattie che è possibile non contrarre semplicemente grazie a un vaccino, ci risparmia costi umani, sociali ed economici. Evitiamo la sofferenza e le complicanze dei più piccoli, il contagio degli adulti, le giornate di lavoro perse da parte dei genitori. Cerchiamo di avere una visione lungimirante sul futuro dei bambini e del Paese”.
Covid. Quanto dura l’immunità del vaccino? Dalle evidenze di questi mesi arrivano buone notizie
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Lettera al direttore di Quotidiano Sanità, pubblicata il 9 aprile 2021.
Gentile Direttore,
vaccinarsi è un obbligo, non solo sanitario ma morale e soprattutto sociale! Vaccinare chi non è già immune è imperativo. Ben vengano le sanzioni per chi vi si sottrae. I vaccini scarseggiano e bisogna assolutamente evitare di vaccinare i diversi milioni di connazionali già immuni per aver superato l’infezione. Sono circa 4 milioni identificati e sicuramente altrettanti, se non di più, non sottopostisi al tampone perché asintomatici, che sono oltre il 50%, così come calcola l’epicentro dell’ISS nell’Aggiornamento nazionale marzo-febbraio 2021.
Vaccinarli, oltre che inutile è dannoso, non solo per i paventati e infrequenti rischi della vaccinazione, ma perché si tolgono risorse a chi ne ha urgente bisogno. In questo modo si renderanno immediatamente liberi di tornare alla vita normale, mantenendo solo i dispositivi di protezione individuale, oltre ai vaccinati che risulteranno già ben protetti dalla prima dose, almeno 15.000.000 di italiani. È pertanto conveniente che coloro che si apprestino al vaccino, se non già controllati, eseguano almeno un semplice e rapido test sierologico qualitativo che, se positivo, li esoneri inviandoli, nel dubbio, al medico curante per la più opportuna decisione.
Segue l’abstract (tradotto in italiano) di una accuratissima review (curata, oltre che dal sottoscritto, da Katia Margiotti, Marco Fabiani e Alvaro Mesoraca) relativa a una metanalisi sottoposta alla rivista internazionale Virus disease. Si è deciso di presentarla pubblicamente in anteprima per l’urgenza di segnalarla alle competenti autorità sanitarie affinché ne traggano le indicazioni più ragionevoli.
Questo al buon fine di non incorrere in prescrizioni o limitazioni che, talvolta, anche da parte degli ottimi e validissimi consulenti scientifici, sembrano doversi ricondurre più a una “Medicina difensiva” che a scelte che discendano dalla osservazione sperimentale. Unico criterio, quest’ultimo, che procede da una conoscenza della realtà oggettiva, epidemiologica e statistica, verificata mediante l’analisi che consegue allo studio rigoroso dei dati riportati dai ricercatori.
Prof. Claudio Giorlandino
Direttore scientifico Istituto clinico-diagnostico di ricerca Altamedica Roma-Milano
Abstract
Il nuovo coronavirus (SARS-CoV-2) e la malattia associata denominata Covid-19 continua a diffondersi in tutto il mondo, avendo sicuramente contagiato, a oggi ben oltre i 140 milioni di soggetti verificati. La scelta di contenere l’infezione mediante la vaccinazione riduce l’immunità di gregge che alcuni Autori, come recentemente pubblicato da Jennie S. Lavine sul numero di gennaio di Science Research, ritengono di maggiore durata ed efficacia, ma che porterebbe a un numero molto alto di vittime come fu per la Spagnola o l’Asiatica.
Ci sono però importanti domande alle quali è necessario rispondere urgentemente: le persone che sono guarite da Covid-19 sono protette dalla futura infezione da SARS-CoV-2? La durata della risposta immunitaria? La vaccinazione è ancora necessaria o può essere pericolosa per individui precedentemente infettati? Sulla base delle attuali evidenze scientifiche acquisite rivisitando tutta la letteratura, appare evidente quanto segue.
È noto che, per alcuni virus, la prima infezione può fornire un’immunità permanente. Molti virus a RNA, come il morbillo e i poliovirus, mostrano stabilità antigenica e sierotipi immutabili per periodi di molti anni. Di conseguenza, i vaccini contro il morbillo e la poliomielite rimangono altamente efficaci anche 70 anni dopo la loro inoculazione.
A oggi, se paragonati all’enorme numero di contagiati, sono stati segnalati in tutto il mondo così pochi casi di reinfezione da Covid-19 da potersi ritenere che tali segnalazioni siano “aneddotiche” e specialmente concentrate negli operatori sanitari che sono riesposti al virus molto intensamente1-4.
Un recente studio di coorte5 ha dimostrato che l’acquisizione dell’immunità naturale protegge la maggior parte delle persone dalla reinfezione per tutto il tempo dello studio. È opinione di alcuni esperti che, nei suddetti casi, la protezione non possa essere raggiunta per la presenza di rari deficit immunologici non ancora scoperti6.
Esperimenti su scimmie e macachi rhesus con applicazione tracheale di SARS-CoV-2 hanno dimostrato che l’esposizione primaria al virus protegge completamente dalla reinfezione7,8. Questo avviene per la comparsa, nei polmoni, di abbondanti cellule linfocitiche “di memoria” T CD4 +, cellule T CD8 +, cellule B e con titoli anticorpali IgG anti-spike sierici aumentati fino a 5000 BAU/ml.
Tale meccanismo può essere lo stesso per gli umani. La protezione dalla reinfezione da SARS-CoV-2 nell’uomo è stata definita per la prima volta dallo studio condotto da Addetia e coll. in un recente articolo in cui hanno mostrato che tutti gli individui che avevano anticorpi neutralizzanti contro il SARS-CoV-2 erano protetti dalla reinfezione9. In questo studio sono stati inclusi un totale di 1265 operatori sanitari risultati sieropositivi agli anticorpi diretti verso la proteina spike del virus SARS-CoV-2.
In tale gruppo non si sono osservate reinfezioni a eccezione di solo due operatori sanitari asintomatici. La durata della protezione per la maggior parte delle persone era di almeno 6 mesi. Tale limite temporale dipendeva dal fatto che lo stesso studio non andava oltre tale periodo10. Sempre per quanto riguarda la durata della risposta anticorpale Wajnberg ha rilevato titoli anticorpali anti-spike in 30.082 individui sieropositivi, costatando che tali valori rimanevano stabili, per almeno tutto il periodo di osservazione (> 5 mesi)11.
Quindi, quanto realmente duri l’immunità al virus SARS-CoV-2, sia quella scatenata dall’incontro con il virus stesso sia quella indotta da un vaccino, in realtà, non è ancora possibile saperlo. Ma a tal proposito vi sono alcuni punti fermi che iniziano a emergere. In particolare quello che sappiamo dai precedenti studi relativi ai comuni coronavirus umani è che gli anticorpi possono durare per anni e fornire quindi una protezione dalla reinfezione o, in caso di reinfezione, impedire la malattia conclamata12. Inoltre, è stato scoperto che il trasferimento del siero da animali convalescenti o di anticorpi monoclonali neutralizzanti ad animali naïve può essere protettivo e ridurre significativamente la replicazione del virus SARS-CoV-2 anche dopo lungo tempo13.
Analoghe risposte sull’uomo sono allo studio. D’altra parte non si può ignorare che moltissimi lavori scientifici abbiano dimostrato come la risposta immunitaria diretta contro il virus SARS-CoV-2 sia di lunga durata14-17. A causa della brevità della recente pandemia (12 mesi) quello che sappiamo sull’immunità SARS-CoV-2 è basato in gran parte su analogia con il virus SARS-CoV, e integrato con studi più recenti su pazienti infetti e guariti dall’infezione da SARS-CoV-218. Analogamente all’infezione da SARS-CoV, i principali bersagli anticorpali sono le proteine spike e il nucleocapside (NCP)19-23. Di fondamentale importanza è comprendere che mentre la maggioranza dei vaccini è diretta solo contro la proteina spike che è soggetta a “varianti”, i soggetti infettati presentano spiccata attività panimmunoglobulinica orientata anche contro il capside, che rimane più stabile nel virus.
Gli anticorpi contro il nucleocapside, fortemente antigenico, sono infatti rilevabili molto presto, già dopo circa 6 giorni dalla conferma dell’avvenuta infezione24,25. Inoltre, sono stati caratterizzati i linfociti T di memoria specifici per SARS-CoV-2, e i linfociti B di memoria (B mem) identificati durante la fase di convalescenza di pazienti che avevano contratto il Covid-1922-24. Queste cellule di memoria sono programmate per rispondere rapidamente al successivo incontro con il virus presentato alle “librerie” dalle cellule preposte (APC).
È esperienza nel nostro Istituto che sanitari precedentemente contagiati e guariti vedano, talvolta, una improvvisa risalita delle IgG senza mostrare positività al tampone molecolare come per nuovo contatto in ambiente ospedaliero che funge da “richiamo” (dati in pubblicazione). È ragionevole ipotizzare pertanto che le cellule di memoria forniscano un’immunità durevole nel tempo, non potendosi escludere che in molti soggetti sia presente per tutta la vita4-25. Da segnalare infatti che gli studi sulla memoria immunitaria le cellule di memoria T sono state rilevate anche 17 anni dopo l’avvenuta infezione da SARS-CoV29. Alcuni studi riscontrano cellule B della memoria fino a 6 anni30, e altri rilevano anticorpi fino a 17 anni dopo aver contratto il virus31. I soggetti che hanno contratto la MERS (Middle East Respiratory Syndrome) causata dal coronavirus MERS-CoV, benché siano stati studiati meno in dettaglio rispetto alla SARS-COV presentavano anticorpi IgG anche 2 anni dopo l’infezione, mentre le cellule di memoria T persistevano anche oltre i 2 anni32.
È pertanto ipotizzabile che anche il SARS-CoV-2 induce una valida memoria immunitaria, simile a quella indotta dagli altri coronavirus. Sono attualmente disponibili studi limitati nel tempo ma certamente è dimostrato che la presenza dei linfociti T e B di memoria vada ben oltre i 6 mesi dall’infezione35,36.
È comunque possibile, ma non certo, che il decadimento dei linfociti T di memoria rallenti nel tempo, ma non scompaia del tutto, il che sarebbe coerente con l’osservazione dei linfociti T di memoria riscontrati anche dopo 17 anni dall’infezione con il virus SARS-CoV29. Nei prossimi mesi sono attesi molti più dati sulla memoria immunitaria scatenata dal virus, ma i dati finora indicano che è probabile che la memoria delle cellule T, la memoria delle cellule B e gli anticorpi “riattivati” da un successivo contatto, persisteranno per anni nella maggior parte delle persone infette da SARS-CoV-211,35-37.
Le varianti genetiche del virus SARS-CoV-2 sono un argomento di intenso interesse. Non è ancora completamente chiaro se le diverse varianti del SARS-CoV-2 saranno in grado di sfuggire alle risposte immunitarie umorali acquisite dopo la vaccinazione o dopo l’infezione con il virus appartenente a una classe diversa. Sebbene la fattispecie non sia chiara, è altamente improbabile che le mutazioni del virus SARS-CoV-2 sfuggano all’immunità dei linfociti T nei soggetti infettati, perché esiste una gamma molto ampia di epitopi (più di 10) distribuiti per tutto il genoma capsidico virale che è riconosciuta dalle cellule T CD4 + e dalle cellule T CD8 +38. Ciò rende difficile ipotizzare che gli anticorpi contro il nucleocapside posseduti solo dai soggetti precedentemente infettati, non ne riconoscano almeno taluni anche nelle più diverse varianti.
Pertanto, sebbene sia importante monitorare l’evoluzione del SARS-CoV-2 e le sue varianti, è improbabile che il virus sia in grado di evolvere in varianti che sfuggano ed evitino la maggior parte della memoria immunitaria umorale e cellulare acquisita nei soggetti che abbiano contratto e superato l’infezione da SARS-CoV-2.
Per quanto riguarda i vaccinati, nonostante vi siano alcune prove che dimostrino che le varianti di SARS-CoV-2 possano eludere le risposte immunitarie innescate da vaccini, questi studi hanno esaminato solo un piccolo numero di soggetti che hanno contratto il Covid-19 dopo aver ricevuto un vaccino, e comunque tali studi41 presentano il bias di aver esaminato solo gli anticorpi, e non gli altri componenti della loro risposta immunitaria per cui, a oggi, non sono realmente informativi sul reale effetto di queste varianti sui vaccinati.
Infine, per quanto riguarda la vaccinazione di persone che hanno contratto già in precedenza la malattia da Covid-19 un recente articolo confronta le risposte anticorpali in 109 individui con e senza pregressa infezione da SARS-CoV-2 (41 sieropositivi vs 68 sieronegativi) dopo aver ricevuto la prima dose di vaccino (BNT162b2/Pfizer; mRNA-1273/Moderna) nel 2020. Campionamenti ripetuti dopo la prima dose indicano che la maggior parte dei 68 individui sieronegativi presentano delle risposte relativamente basse entro 9-12 giorni dalla vaccinazione. Al contrario, i 41 sieropositivi per pregressa infezione sviluppano rapidamente titoli anticorpali alti e uniformi entro 5-8 giorni dalla vaccinazione.
Gli Autori, benché tali valori fossero molto elevati, con titoli anticorpali 10-20 volte superiore ai 68 sieronegativi, non hanno rilevato comparsa di sintomi da malattia da immunocomplessi come infiammazione, trombosi e danno tissutale42. Va però osservato che il numero dei soggetti trattati e il tempo intercorso è troppo breve per escludere completamente tale possibilità che può presentarsi in risposte anticorpali così eccessive che implicano una forte interazione con il sistema del complemento e con le cellule che esprimono il recettore cristallizzabile Fc degli anticorpi43.
In conclusione comprendere la durata della memoria immunitaria e dell’immunità protettiva da SARS-CoV-2 dopo Covid-19 e in risposta al vaccino sono una priorità assoluta della comunità scientifica nei mesi/anni a venire.
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Covid. Stress da pandemia nei bambini: i campanelli di allarme. I consigli degli esperti
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Episodi di “terrore notturno”, periodi di regressione o balbuzie intermittenti, disturbi dell’alimentazione, deficit di attenzione, atti di autolesionismo e somatizzazioni. Sono tanti i segnali di stress nei piccoli. Nel nuovo numero di “A scuola di salute” gli esperti del Bambino Gesù forniscono consigli e indicano i campanelli di allarme a cui i genitori dovrebbero prestare attenzione.
Disturbi del sonno, del linguaggio e dell’alimentazione, deficit di attenzione, atti di autolesionismo e somatizzazioni. La salute non è solo quella fisica, ma anche quella mentale.
Come ci ha confermato l’ultimo anno di emergenza sanitaria che ha visto il preoccupante aumento dei disturbi legati alla sfera psicologica. Nel nuovo numero di A scuola di salute, il magazine digitale a cura dell’Istituto per la Salute, diretto da Alberto G. Ugazio, gli esperti del Bambino Gesù spiegano nel dettaglio le tappe dello sviluppo psicologico e cognitivo analizzando i campanelli di allarme a cui i genitori dovrebbero prestare attenzione.
“Il nostro obiettivo, condiviso con i pediatri, è quello di sostenere e tutelare la salute nell’infanzia e nell’adolescenza, accompagnando e aiutando i genitori nello sviluppo e nella crescita dei propri figli e in quei momenti critici tipici, che l’emergenza sanitaria in corso ha amplificato” ha spiegato Teresa Grimaldi Capitello, responsabile della psicologia clinica dell’ospedale.
Il sonno è una parte importante della vita quotidiana, soprattutto per quanto riguarda bambini e ragazzi. Ha infatti un ruolo determinante nel creare una condizione di benessere globale della persona. Tra i campanelli di allarme a cui prestare attenzione ci sono le difficoltà del sonno tali da ostacolare la vita del bambino e gli episodi di “terrore notturno” che si ripetono molto spesso nel tempo.
Anche il linguaggio può essere il segnale di problematiche emotive, che si esprimono, ad esempio, con periodi di regressione o balbuzie intermittenti. È utile contattare il pediatra ed eventualmente fissare una visita specialistica quando il bambino a 18 mesi non indica, non batte le mani, non fa ciao; quando il bambino tra 3 e 6 anni ha periodi lunghi di balbuzie, che non si risolvono da soli e che sono associati ad altri segnali di stress, come i disturbi del sonno. Oppure quando, sempre tra i 3 e i 6 anni, non parla a scuola.
Il comportamento alimentare, cioè la quantità di cibo, il tipo di cibo e le sensazioni associate al mangiare sono aspetti molto importanti della crescita di ogni bambino. Dallo svezzamento all’adolescenza possono verificarsi diversi problemi dell’alimentazione, non ultimo l’aumento di peso causato dalla maggiore sedentarietà e dalla riduzione drastica dell’attività fisica durante la pandemia. Quando i bambini o i ragazzi decidono per lungo tempo di non mangiare alcuni tipi di cibo ci si trova davanti a un campanello di allarme da non sottovalutare. Anche quando, in adolescenza, si assiste a una modifica molto radicale delle abitudini alimentari i genitori dovrebbero parlarne con il pediatra.
La scuola non è solo un luogo di istruzione, ma è anche luogo di relazioni, emozioni, curiosità, sfide, frustrazioni e soddisfazioni. Le dinamiche generate dalla didattica a distanza nell’ultimo anno hanno contribuito a un aumento dei problemi connessi all’attenzione e all’apprendimento scolastico. Si è assistito a una maggiore perdita di interesse per lo studio e a un’emotività che, soprattutto in adolescenza, è risultata più instabile e fonte di disagio psicologico.
In molti bambini il disagio psicologico ed emotivo si traduce in un malessere del corpo con dolori addominali o emicranie. Altri bambini e ragazzi hanno un comportamento problematico con irritazione, rabbia, esplosioni di aggressività. In questi casi si può parlare di “somatizzazione”. Porre l’attenzione esclusivamente alle possibili cause “organiche” (cioè sui problemi del corpo) può essere fuorviante e portare a molti controlli medici. Controlli che possono a loro volta generare frustrazione e aumentare la preoccupazione dei genitori e dei ragazzi.
L’autolesionismo è la tendenza ad attaccare il proprio corpo procurandosi intenzionalmente dolore fisico e lesioni. Questo può avvenire attraverso graffi, tagli o bruciature sulla pelle, oppure esponendosi deliberatamente a situazioni di pericolo. Cambiamenti repentini dell’umore e una particolare riservatezza nel mostrare determinate parti del corpo, anche d’estate, possono essere dei campanelli di allarmi rilevatori.
SMA: per massimi benefici dalla terapia genica fondamentale lo screening neonatale
Grazie alla terapia genica è possibile trattare l’atrofia muscolare spinale affrontando la causa genetica della patologia: è però fondamentale effettuare una diagnosi precoce con tempestività
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Affrontare la causa genetica dell’atrofia muscolare spinale (SMA) intervenendo direttamente sulla funzione del gene mancante o non funzionante: questa l’innovazione terapeutica che oggi - con la prima e unica terapia genica per la SMA - consente di mettere a disposizione di medici e pazienti una soluzione in grado di fornire un significativo beneficio clinico e di guardare al futuro con maggiore speranza.
Se fino a qualche anno fa infatti il trattamento della SMA era esclusivamente sintomatico, basato su approcci multidisciplinari e finalizzato a migliorare la qualità di vita dei pazienti, oggi ancor di più con l’arrivo della prima terapia genica, che interviene sulla causa genetica della patologia, diventa fondamentale che l’innovazione terapeutica sia accompagnata da una diagnosi e un trattamento precoce: è dunque necessario riconoscere tempestivamente la SMA, poiché la degenerazione dei motoneuroni inizia prima della nascita, si intensifica rapidamente e si tratta di un processo che non può essere invertito.
“L’atrofia muscolare è una malattia di tipo degenerativo che nei casi più gravi impedisce al bambino di reggere autonomamente la testa, di deglutire o di compiere i normali progressi fisici e motori e può interferire anche con le funzioni respiratorie - ha dichiarato il Prof. Eugenio Mercuri, Direttore Unità Operativa Complessa Neuropsichiatria Infantile, Policlinico Gemelli, Roma Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS - la terapia genica per la SMA rappresenta una grandissima innovazione, ma è necessario che venga accompagnata da diffusi programmi di screening neonatale in modo che la patologia possa essere diagnosticata precocemente e che il trattamento possa essere avviato il più presto possibile. È infatti fondamentale intervenire con tempestività anticipando la perdita dei motoneuroni nei pazienti, poiché si tratta di un processo irreversibile”.
Nuovi dati clinici presentati nel corso della conferenza clinica e scientifica virtuale 2021 della Muscular Dystrophy Association (MDA Virtual Clinical and Scientific Conference) hanno evidenziato l’importanza di identificare e trattare la SMA il prima possibile. In contrasto con la storia naturale di questa malattia devastante (che porta alla perdita progressiva e irreversibile della funzione motoria), i bambini trattati pre-sintomaticamente con onasemnogene abeparvovec nel corso dello studio di fase III SPR1NT hanno raggiunto traguardi motori appropriati all’età rientranti nei parametri di normale sviluppo definiti dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) - ivi inclusa la capacità di state seduti o in piedi, e quella di camminare - erano in grado di alimentarsi esclusivamente per bocca e non hanno avuto bisogno di alcun supporto ventilatorio. Non sono stati inoltre segnalati eventi avversi gravi legati al trattamento nel corso dello studio SPR1NT.
Il momento della diagnosi però è sempre estremamente delicato e in questo gioca un ruolo fondamentale il coinvolgimento che l’intero nucleo familiare avrà nella gestione della patologia a partire proprio dal momento della scoperta della patologia: “Per questo motivo oggi più che mai hanno assunto un ruolo centrale le comunità dei pazienti, le associazioni, un vero e proprio punto di riferimento per le famiglie e accompagnarle in questo percorso. Nell’ottica di intervenire tempestivamente gioca un ruolo fondamentale proprio una corretta e precoce diagnosi e sarà importante nei mesi a seguire trovare il modo di implementare su tutto il territorio nazionale in maniera omogenea programmi di screening neonatale”, ha dichiarato Anita Pallara, presidente Famiglie SMA.
Lo screening neonatale è uno dei più importanti programmi di medicina preventiva pubblica, attivo in Italia dal 1992: ad oggi solo poche regioni hanno incluso la SMA tra le patologie che è possibile diagnosticare in fase pre-sintomatica mediante la ricerca del difetto genetico. Nei prossimi inoltre mesi verranno avviati studi pilota in Piemonte e Liguria.
Considerata la principale causa genetica di morte infantile, la SMA è una rara malattia genetica neuromuscolare causata dalla mancanza di un gene SMN1 funzionante, con una conseguente perdita rapida e irreversibile di motoneuroni, che compromette le funzionalità muscolari. In questo senso, onasemnogene abeparvovec potrà fornire, su un orizzonte temporale di lunga durata, un importante beneficio clinico per i pazienti affetti da SMA in termini di miglioramento delle funzioni muscolari, comprese quelle coinvolte nella respirazione, nella deglutizione e nei movimenti motori di base.
Dopo l’approvazione della rimborsabilità da parte dell’Agenzia Italiana del Farmaco avvenuta lo scorso marzo, onasemnogene abeparvovec ha ricevuto il via libera alla commercializzazione ed è adesso disponibile: la prima terapia genica per l’atrofia muscolare potrà quindi essere utilizzata per il trattamento di pazienti SMA di tipo 1 diagnosticati clinicamente e fino a 13,5 Kg e pazienti pre-sintomatici (e fino a 2 copie del gene SMN2). La terapia agisce infatti sostituendo direttamente la funzione del gene mancante o non funzionante SMN1 e si somministra una sola volta nella vita del paziente per via endovenosa.
Novartis ha annunciato inoltre l’intenzione di avviare SMART, uno studio clinico globale di fase IIIb condotto per valutare la sicurezza e l’efficacia di onasemnogene abeparvovec nei bambini con atrofia muscolare spinale (SMA) di peso compreso tra ≥ 8,5 kg e ≤ 21 kg, in seguito a una singola somministrazione di un’infusione endovenosa (ev). I nuovi dati clinici integreranno le evidenze emergenti dalla pratica clinica ed espanderanno l’utilizzo di questa terapia innovativa nell’Unione Europea e in Canada, dove l’approvazione regolatoria include indicazioni sul dosaggio per neonati e bambini fino ai 21 kg di peso.
“La disponibilità di onasemnogene abeparvovecnel nostro Paese rappresenta una straordinaria novità che consentirà ai medici di avere una soluzione terapeutica in grado di intervenire sulla causa genetica della patologia attraverso una terapia che si somministra una sola volta nella vita - ha dichiarato Filippo Giordano, general manager di Novartis Gene Therapies - Con oltre 1000 pazienti trattati finora in tutto il mondo, è stato possibile constatare l’impatto rivoluzionario della terapia: lo studio globale SMART, che sarà avviato proprio al fine di valutare la sicurezza e l’efficacia della terapia anche per pazienti con peso fino ai 21 kg, amplierà le evidenze cliniche e potrà fornire alla comunità SMA dati preziosi sul suo utilizzo anche per questa fascia di pazienti. Si tratta di un’ulteriore tappa significativa che sottolinea il costante e progressivo impegno di Novartis per essere al fianco dei pazienti e delle loro famiglie”.
Focus sulla patologia
In Italia è stimata un’incidenza di un caso su 10.000 nati vivi, pertanto si stima che ogni anno nascano circa 40/50 bambini con la SMA, principale causa genetica di morte infantile. Se non trattata, la SMA di tipo 1 determina la morte o la necessità di ventilazione permanente entro i due anni di età in oltre il 90% dei casi. In Europa ogni anno nascono circa 550-600 bambini con la SMA. La SMA è una rara malattia genetica neuromuscolare causata dalla mancanza di un gene SMN1 funzionante, con una conseguente perdita rapida e irreversibile di motoneuroni, che compromette le funzionalità muscolari, ivi incluse respirazione, deglutizione e il movimento di base.
È indispensabile diagnosticare la SMA e iniziare il trattamento - compresa una terapia proattiva di supporto - il più presto possibile, per arrestare la perdita irreversibile di motoneuroni e la progressione della malattia. Questo è particolarmente critico nella SMA di tipo 1, nel corso della quale la degenerazione dei motoneuroni inizia prima della nascita e si intensifica rapidamente. La perdita di motoneuroni non può essere invertita, quindi i pazienti con SMA sintomatici al momento del trattamento avranno probabilmente bisogno di assistenza respiratoria, nutrizionale e/o muscoloscheletrica di supporto per massimizzare le capacità funzionali. Oltre il 30% dei pazienti con SMA di tipo 2 muore entro i 25 anni.
L’abuso dei cellulari scatena liti con i figli per un terzo dei genitori
Ricerca australiana, ma al 33% dei minorenni è consentito portarli a letto
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Quattro minorenni su cinque in Australia, alcuni anche di quattro anni, possiedono almeno un congegno digitale, e quasi a un terzo è permesso di portarli a letto ogni notte. E i genitori trovano più difficile governare le abitudini dei figli, una volta che questi posseggono un congegno: un terzo dei genitori studiati riferisce che il suo uso porta a conflitti.
Sono alcuni risultati di una ricerca del Gonski Institute for Education dell’University of New South Wales, cui hanno partecipato 2500 genitori e nonni e che fa parte dello studio internazionale detto Growing Up Digital (crescere digitali), iniziato dall’Harvard Medical School in USA.
Tre quarti dei genitori sono preoccupati dell’impatto sull’attività fisica dei figli, due terzi della scarsa attenzione e interesse a giocare, mentre metà si preoccupa dell’effetto sulla mancanza e qualità del sonno. È anche emerso che i giovani di minore livello socioeconomico hanno più probabilità di portare a letto i congegni digitali e meno probabilità di avere nei genitori modelli di ruolo efficaci.
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