Rivista di formazione e aggiornamento di pediatri e medici operanti sul territorio e in ospedale. Fondata nel 1982, in collaborazione con l'Associazione Culturale Pediatri.
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Patologia Neonatale, ASST Papa Giovanni XXIII, Ospedale di Bergamo
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per corrispondenza: valentina_aba@yahoo.it
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È una malattia cardiaca su base genetica, caratterizzata da un rischio elevato di aritmie (irregolarità del battito), potenzialmente fatali. Si manifesta soprattutto in età pediatrica e rappresenta la prima causa di morte improvvisa sotto i 20 anni. Se ne conoscono più di 14 sottotipi, ma i più diffusi sono il tipo 1, il tipo 2 e il tipo 3. Le schede sono redatte in collaborazione con Silvia Priori, professore ordinario di cardiologia all’Università di Pavia e direttore scientifico degli Istituti Scientifici Maugeri IRCCS.
Svenimenti e palpitazioni La sindrome del QT lungo colpisce un neonato ogni 2.500, ha origine genetica e se ne conoscono più di 14 tipi, legati ad altrettante mutazioni. Può causare pericolose aritmie, talvolta fatali, come la morte improvvisa nei giovani atleti. Svenimenti e palpitazioni, perlopiù durante l’attività fisica o in seguito a emozioni, sono i sintomi più tipici; spesso si manifestano verso gli 11-12 anni ma, nei casi più gravi, le aritmie compaiono già dai primi giorni di vita o nella prima infanzia. Alcuni pazienti con la sindrome del QT lungo diventano adulti, senza avere mai aritmie o svenimenti. Spesso vengono identificati per la presenza di un intervallo QT prolungato, quando un ECG viene effettuato per un controllo o per la visita medico sportiva. Il ciclo elettrico nei ventricoli La sindrome del QT lungo è chiamata così in quanto è caratterizzata dal prolungamento di un parametro specifico dell’elettrocardiogramma, l’intervallo QT, che rappresenta il tempo necessario a compiere un intero ciclo elettrico nei ventricoli. Più è lungo l’intervallo QT, maggiore è il rischio di pericolose aritmie. L’elettrocardiogramma (ECG) è la riproduzione grafica dell’attività elettrica del cuore. Il tracciato presenta quattro sezioni caratteristiche, identificate con le lettere Q, R, S e T. I fattori scatenanti Le aritmie possono essere favorite da diversi fattori, come stress emotivo e attività fisica. Esiste una stretta relazione tra i fattori che scatenano le aritmie e il tipo di sindrome del QT lungo (tipo 1, 2, 3 ecc.) e quindi di mutazione chiamata in causa. «Svenimenti improvvisi durante l’attività fisica o associati a emozioni, non attribuibili ad altre cause (per esempio, pressione bassa, ipoglicemia), devono far nascere il sospetto, in particolare se si verificano in modo ripetuto in bambini o adolescenti - spiega Silvia Priori -. Lo stesso vale se ci sono episodi di palpitazioni e tachicardie, soprattutto in concomitanza in momenti di stress emotivo o addirittura quando si sente suonare una sveglia o un telefonino. In questi casi, occorre sottoporsi a un elettrocardiogramma, di cui il cardiologo misurerà l’intervallo QT. Se i sospetti vengono confermati, i pazienti vengono in genere indirizzati verso centri dove possano essere svolte indagini più approfondite quali test da sforzo, Holter (controllo elettrocardiografico su 24 ore, ndr) ed esami genetici necessari per individuare il difetto del DNA che causa la malattia». Come si fa la diagnosi La sindrome del QT lungo può essere evidenziata con un semplice elettrocardiogramma, ma è importante anche sottoporsi all’analisi genetica. L’identificazione del gene che provoca la malattia permette di personalizzare la terapia e di fare uno screening per identificare i familiari portatori della mutazione. Le possibili cure A seconda del difetto genetico e della durata dell’intervallo QT, si stima il rischio della singola persona di sviluppare eventi aritmici e si personalizza la terapia. In alcuni casi è sufficiente ricorrere a farmaci beta-bloccanti (propranololo o nadololo). «Questi farmaci riducono l’effetto pro-aritmico dello stress e dell’attività fisica - spiega Silvia Priori -. Grazie a questo trattamento, il rischio di decesso, che negli individui con sintomi non trattati con beta-bloccanti era di circa il 60% dopo 10 anni dal primo episodio aritmico, è ora sceso sotto il 2% l’anno». In chi soffre della sindrome del QT lungo di tipo 3, è possibile ricorrere a un farmaco, la mexiletina, in grado di accorciare l’intervallo QT in modo specifico in chi ha il difetto genetico sul gene SCN5A. In casi più gravi può rendersi necessario l’inserimento di un defibrillatore impiantabile, capace di captare sul nascere le aritmie e produrre risposte in grado di ripristinare la normale frequenza cardiaca. Esistono due tipi di defibrillatori impiantabili: sottocutaneo e transvenoso. Il primo è più adatto in caso di bambini o adolescenti perché ha meno complicazioni, non richiedendo l’inserzione di elettrodi all’interno del cuore. La scelta del tipo di defibrillatore dipende da come si presenta la sindrome e viene suggerita dal cardiologo. Un farmaco orfano La mexiletina, come detto, è un medicinale molto utile per la sindrome del QT lungo di tipo 3 ma in quasi tutto il mondo vi è un serio problema di approvvigionamento: le aziende farmaceutiche, per vari motivi, hanno smesso di produrla. «Per fortuna, in Italia è nato a sostegno di questo farmaco un movimento di opinione, appoggiato da medici e ricercatori, che chiedevano che la molecola continuasse a essere prodotta - spiega Priori -. A questo appello ha risposto lo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze, che produce anche altri farmaci orfani, ovvero molecole che, pur essendo ancora utili per trattare alcune patologie, non vengono più prodotte dalle farmaceutiche. Ciò ci ha permesso di proseguire la nostra ricerca, che è andata avanti per tre anni (abbiamo pubblicato i risultati lo scorso anno), e così permettere ai pazienti italiani con LQT3 di disporre di un farmaco altamente specifico, che in molti Paesi non è più disponibile». L’alimentazione complementare valorizza la dieta di tutta la famiglia
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Niente pappe e frullatore, sì a mangiare a tavola con gli adulti e ad alimenti sminuzzati introdotti senza regole rigide: sono i pilastri dell’alimentazione complementare a richiesta, un modo diverso di far avvicinare il lattante al cibo rispetto allo svezzamento tradizionalmente inteso. A fare il punto è l’Associazione Culturale Pediatri che ha elaborato un documento rivolto a un pubblico fatto di esperti ma, soprattutto, di madri e padri. Redatto da un gruppo di lavoro interdisciplinare, attraverso una raccolta critica di informazioni, il documento mira a far arrivare il messaggio che “parlare di alimentazione complementare significa valorizzare la dieta di tutta la famiglia”. La prima domanda che un genitore si pone in merito è a che età iniziare a introdurre cibi solidi nella dieta del piccolo. La risposta è semplice: “quando mostra interesse per il cibo, ovvero lo richiede attivamente, e mostra segni di adeguato sviluppo neuromotorio”. Di solito questo succede verso i 6 mesi, ma “il conto alla rovescia si fa solo a capodanno, mentre nel caso dei bambini bisogna semplicemente osservarli”. Quanto al cosa, il documento precisa che il latte (preferibilmente materno) “rimarrà l’alimento principale fino a verso i 12 mesi.
Il passaggio a una dieta da adulto sarà un processo lento e rispettoso dei tempi di ciascun bambino”, senza “atti di forza”. Il cardine dell’autosvezzamento infatti è che il bambino mangia “quello che vuole nelle quantità che vuole e se ne vuole”, e lo fa perché, messo a tavola insieme al resto della famiglia, ha modo di farne richiesta mostrando interesse. Quindi è essenziale che i genitori seguano una dieta sana e varia. In tal caso “non c’è motivo di immaginare una distinzione tra cibo per grandi e per piccoli”. Per lo stesso motivo il documento sconsiglia l’uso della parola “pappa” intesa come brodino, cereali in povere e omogeneizzati. Non ci sono alimenti da evitare, basta il buon senso e ricordarsi di farli in pezzetti. Da evitare, invece, concludono i pediatri dell’ACP c’è solo la parola svezzamento: “significa togliere il vezzo del latte materno, ma sappiamo che l’allattamento non è un vizio”. ![]()
Controllare il bambino se ci sono casi di ipertensione in famiglia, misurare la pressione a partire dal terzo anno d’età, limitare il sale e gli zuccheri, assumere alimentazione e stili di vita corretti, far praticare lo sport anche al bambino iperteso, eseguire il controllo pressorio a ogni visita medica nei bambini a rischio. Sono solo alcuni dei punti del Decalogo SIP.
Pressione alta, un problema già presente in età pediatrica e troppo spesso sottovalutato per la scarsa abitudine di misurare la pressione ai bambini. “L’ipertensione arteriosa vera e propria riguarda circa il 3,5% dei bambini e degli adolescenti, ma se consideriamo anche i bambini con valori pressori persistentemente alti (cosiddetta pre-ipertensione) le percentuali aumentano attestandosi tra il 5,7% e il 7%”. Ancora più elevata è la prevalenza nei bambini in sovrappeso o obesi tra i quali le percentuali arrivano al 24%”. L’ipertensione arteriosa è uno dei principali fattori di rischio per le patologie cardiovascolari, che rappresentano la principale causa di mortalità dell’adulto. “Individuare un bambino con valori elevati della pressione arteriosa e modificare alcuni stili di vita può evitare che diventi un adulto iperteso. Tendenzialmente infatti valori pressori elevati nell’infanzia si mantengono tali anche in gioventù fino all’età adulta”, spiega Silvio Maringhini, Segretario nel Gruppo di Studio Ipertensione Arteriosa della Società Italiana di Pediatria. È importante che la prevenzione cominci nell’infanzia seguendo poche ma importanti regole. IL DECALOGO 1. Il rischio cardiovascolare inizia in età pediatrica: occhio alla familiarità! Quando l’ipertensione arteriosa è presente in più membri della famiglia, in particolare padre e/o madre, è molto più probabile che i figli abbiano valori pressori elevati, anche in età pediatrica. La misurazione della pressione arteriosa deve sempre far parte della valutazione dello stato di salute del bambino. 2. Far misurare la pressione al bambino a partire dai 3 anni Le Linee Guida Internazionali raccomandano la misurazione della pressione annualmente presso il proprio pediatra di riferimento nei bambini sopra i 3 anni di età. 3. Non tutti gli apparecchi per la misurazione sono uguali La misurazione della pressione dovrebbe essere fatta dal pediatra. Nel caso in cui avvenga a casa occorre usare apparecchi approvati e collaudati per l’età pediatrica. Se i valori risultano sempre elevati vanno riferiti al medico che deve confermarli con la metodica classica, quella “ascoltatoria”. 4. Se l’ipertensione persiste per oltre un anno è consigliato fare l’Holter pressorio Si tratta precisamente del monitoraggio ambulatoriale della pressione arteriosa 24 ore (ABPM degli anglosassoni), genericamente indicato come Holter pressorio che consente di tracciare un profilo pressorio durante le attività della giornata, lontano dall’ambiente medico (escludere ipertensione da camice bianco) e durante il periodo di sonno. È consigliato inoltre eseguire un Holter pressorio nei bambini con ipertensione arteriosa secondaria ad altre malattie croniche, obesi, nati prematuri o già in terapia farmacologica per valutarne l’efficacia. 5. Limitare il sale Studi dell’Istituto Nazionale Americano per la Sorveglianza della Salute e della Nutrizione (NHANES) hanno evidenziato come una dieta ad alto contenuto di sodio aumenti di due volte il rischio di sviluppare ipertensione arteriosa, di tre volte se è associata anche l’obesità. 6. ... e anche gli zuccheri Anche gli zuccheri, sia complessi come i carboidrati sia semplici come il fruttosio, comportano un aumento dei valori di pressione arteriosa con meccanismi sia diretti sia indiretti (attraverso l’aumento del peso corporeo per il contenuto di calorie totali fornite). 7. Sì ad alimentazione e stili di vita corretti Lo stile di vita influenza significativamente i valori di pressione arteriosa. L’eccesso di peso corporeo fino all’obesità e la mancanza di attività fisica sono i principali determinanti di valori pressori costantemente più elevati. 8. Lo sport non è controindicato nel bambino iperteso La presenza di ipertensione arteriosa non controindica la pratica di attività sportiva, anzi la raccomanda! Fanno eccezione rari casi, come i soggetti affetti da ipertensione arteriosa complicata, che possono avere necessità di modificare le terapie o che praticano sport agonistici di potenza per cui andranno valutati singolarmente dallo specialista. 9. Nei bambini a rischio eseguire il controllo pressorio a ogni visita medica Si raccomanda il controllo della pressione arteriosa a ogni visita medica nei soggetti affetti da obesità, malattie renali, diabete, coartazione aortica operata o anche che fanno uso di farmaci che aumentano la pressione arteriosa (cortisonici, immunosoppressori, terapie ormonali). 10. Controllare il colesterolo nei bambini ipertesi Tutti i pazienti affetti da ipertensione arteriosa devono aver controllato anche i valori di colesterolo nel sangue. L’Ipercolesterolemia, che può spesso avere radici familiari, è un altro dei principali fattori determinanti il rischio cardiovascolare. ![]()
La documentazione sarà necessaria sono nei casi segnalati dal pediatra di famiglia. Il presidente Paolo Biasci: “Viene riconosciuto il nostro ruolo fondamentale e unico come tutore della salute del bambino”.
La Federazione Italiana Medici Pediatri (FIMP) accoglie con soddisfazione la decisione del Ministero della Salute e del Ministero dello Sport di eliminare l’obbligo del certificato medico per la pratica dell’attività sportiva in età prescolare. D’ora in poi i bambini da 0 a 6 anni potranno liberamente praticare un’attività fisica organizzata senza bisogno di documentazione medica, salvo in casi specifici segnalati dal pediatra di famiglia. “Le istituzioni competenti hanno accolto una nostra proposta avanzata nell’estate del 2015 - afferma Paolo Biasci, Presidente Nazionale della FIMP -. Questa decisione potrà favorire l’attività fisica dei bambini fin dai primissimi anni di vita e aiutare a contrastare così la pericolosa tendenza alla sedentarietà. Si tratta, infatti, di uno stile di vita scorretto ancora troppo diffuso tra gli italiani di ogni fascia di età. Attualmente il 53% dei giovani d’età compresa tra i 3 e i 5 anni e il 22% di quelli tra i 6 e i 10 anni non praticano alcuna forma di attività fisica. Il nostro auspicio è che, anche grazie al recente provvedimento, si possano ulteriormente promuovere stili di vita sani tra tutta la popolazione residente nel nostro Paese”. “La norma, oltre che ridurre le spese delle famiglie, ha anche il pregio di sburocratizzare l’accesso alle attività sportive e di evitare così sprechi all’intero Sistema Sanitario Nazionale per accertamenti medici superflui - prosegue Biasci -. Il Governo ha inoltre riconosciuto il ruolo fondamentale e unico del Pediatra di famiglia come tutore della salute e del benessere del bambino. Ringraziamo quindi i ministri Beatrice Lorenzin e Luca Lotti per questo ennesimo attestato di stima e di fiducia nei confronti della nostra categoria”. ![]()
Leggere insieme ai figli produce una serie di vantaggi sia per i genitori, sia per i figli. Negli adulti questa pratica diminuisce stress e ansia, nei piccoli migliora il comportamento e la sfera emotiva.
Leggere insieme ai propri figli, oltre all’alfabetizzazione dei piccoli, produce altri vantaggi. Un recente studio, pubblicato da Pediatrics, ha infatti evidenziato che la lettura collettiva migliora il comportamento e la salute emotiva dei bambini. La ricerca è stata guidata da Qian-Wen Xie, dell’Università di Hong Kong. Lo studio Lo studio ha analizzato i dati di 18 ricerche precedentemente pubblicate, che includevano 3264 famiglie di diversa provenienza. I risultati hanno evidenziato che i bambini che avevano preso parte a programmi di lettura con i genitori, presentavano migliori abilità sociali ed emotive, oltre che migliori comportamenti e alfabetizzazione, rispetto ai bambini che non lo facevano. E il vantaggio è anche per i genitori. Coloro che aderivano ai programmi di lettura, infatti, hanno mostrato meno stress e ansia e più fiducia nelle loro capacità genitoriali, rispetto ai genitori che non aderivano a questi programmi. I programmi di lettura Negli studi analizzati, alcune famiglie venivano invitate a partecipare a programmi di lettura, mentre altre prendevano parte a gruppi che non ricevevano questo supporto. Alcuni programmi includevano libri gratuiti ed erano rivolti a bambini e bambine in età prescolare, mentre altri erano per bambini delle scuole elementari. Spesso, poi, i programmi si rivolgevano bambini a rischio di problemi comportamentali o ritardi linguistici o bambini provenienti da famiglie a basso reddito, con genitori che non avevano studiato. La maggior parte dei programmi, infine, forniva ai genitori una formazione strutturata su come leggere ai bambini. “Leggere al bambini non serve solo a renderlo più intelligente, ma anche ad avere un figlio felice e a strutturare buona relazione genitore-figlio - dice Xie - a lettura condivisa supporta lo sviluppo cognitivo del bambino, aiuta i bambini a sviluppare capacità di prestare attenzione e cooperazione e serve come opportunità di legame per genitori e figli”. Una media di tre episodi di violenza al giorno. Lo rivelano i dati INAIL 2018: nel 70% dei casi sono donne, soprattutto guardie mediche
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Ogni anno in Italia si contano 1200 atti di aggressione ai danni dei lavoratori della sanità, che è come dire che il 30% dei 4mila casi totali di violenza registrati nei luoghi di lavoro riguarda medici infermieri ostetriche, farmacisti… insomma coloro che curano o si prendono cura dei cittadini. E nel 70% dei casi le vittime delle aggressioni sono donne, soprattutto guardie mediche.
I luoghi delle aggressioni Parliamo di una media di tre episodi di violenza al giorno (dati INAIL 2018), che vanno dalle percosse fino ai tentativi di stupro: l’ultimo quello una dottoressa in un paese del Salento che agli inizi di marzo ha subito un’aggressione a sfondo sessuale durante il turno di notte. Secondo Consulcesi, che ha lanciato un appello all’attenzione sul fenomeno delle aggressioni del personale sanitario, i camici bianchi più a rischio operano nei pronto soccorso, nelle strutture psichiatriche ospedaliere e territoriali, nei luoghi di attesa e nei servizi di geriatria e continuità assistenziale. I contesti La violenza emerge in contesti particolari. Ci sarebbe, per esempio, una relazione tra le aggressioni ai medici e l’aumento dei pazienti con disturbi psichiatrici dimessi da strutture ospedaliere o residenziali, tra violenza e diffusione dell’abuso di alcol e droga. La mancanza di limiti all’accesso di visitatori negli ospedali e negli ambulatori rappresenterebbe un’altra situazione di rischio per lavoratori. Così come la lunghezza dei tempi di attesa nei pronto soccorso. O nelle situazioni di carenza del personale. La violenza si manifesterebbe di più nei presidi territoriali di emergenza o assistenza isolati, o dove è scarsa l’illuminazione (parcheggi di ospedali, classicamente), e infine se e dove il personale medico-sanitario non è adeguatamente formato a riconoscere e arginare l’aggressività. Una carneficina silenziosa Una recente nota della FNOMCEO, la Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri, ha definito le aggressioni ai danni del personale sanitario una carneficina silenziosa, perché “spesso rimane nascosta per vergogna, per pudore di un denuncia che scoperchierebbe situazioni di inadeguatezza o perché quasi messa in conto come componente del rischio professionale”. Un fenomeno in crescita Il fenomeno della violenza contro i camici bianchi sarebbe anche in crescita: secondo un’indagine realizzata su un campione di oltre 4mila infermieri da NurSind - il sindacato delle professioni infermieristiche - rispetto al 2013, nel 2017 erano aumentate sia le aggressioni verbali, passando dal 41% al 66%, sia quelle fisiche, che rappresentano un terzo di tutti i casi. A far scattare gli aggressori, stando alle informazioni raccolte da NurSind, sarebbe soprattutto l’insoddisfazione per i servizi e l’organizzazione (sempre di più negli anni: 71,8% nel 2013, 77% nel 2016). Le aggressioni 16 volte su 100 provocherebbero danni fisici. ![]()
L’arte fa bene alla salute. Secondo i dati riportati da Stefano Canitano, medico radiologo dell’Ordine dei Medici di Roma e relatore alla conferenza “Cultura Salute Benessere” organizzata dall’Associazione per l’Economia della Cultura e svoltasi a Roma martedì 13 febbraio 2018, “le malattie aumentano nelle popolazioni con minore tendenza o esposizione alla cultura”. La visita al museo spinge il soggetto, malato e non, a sviluppare un rapporto simpatico con l’opera e a riallacciare legami con l’altro che sono fondamentali per la ricerca del benessere. Alla luce di queste verità gli Stati, specie quelli con una percentuale significativa di opere d’arte dislocate sul territorio, come l’Italia, dovrebbero adottare tecnologie sanitarie comprensive di percorsi terapeutico-culturali.
Il numero 2/2017 della rivista Economia della Cultura edita dal Mulino, Bologna è un numero sperimentale dedicato al tema della salute, cultura e benessere. Medicina, psicologia e cultura sono materie alla cui applicazione diretta occorre uno sforzo congiunto finalizzato al raggiungimento del benessere. Il secondo numero di Economia della Cultura considera la realtà internazionale, regionale e nazionale di quei paesi in cui gli investimenti pubblici e privati nell’ambito sanitario sono rilevanti ed eterogenei fino a comprendere investimenti in attività incentrate su emozioni e riflessioni connesse alle più diverse esperienze artistiche e culturali. Il tema è caldo e sembra attrarre investimenti per la ricerca, il segnale è quello di un “cauto ottimismo” riferisce Pier Luigi Sacco, professore ordinario di Economia della Cultura all’Università IULM di Milano. A livello statale, gli interventi in materia, diversamente dagli altri ambiti legati all’economia culturale non si misurano in termini di pareggio di bilancio, ma in termini di benessere e salute nazionale, che si raggiunge soltanto quando la cultura riesce a permeare i luoghi in cui c’è sofferenza. Le ricerche della rivista Economia della Cultura sono partite, riferisce la dottoressa Carla Bodo dell’Associazione per l’Economia della Cultura, osservando le attività in programma presso il National Endowment for the Arts, ma si sono arrestate quando Trump paventò l’abolizione di quest’agenzia federale, tentativo sventato dal diniego del Congresso. In realtà, non occorre spostarsi oltreoceano per avere esempi di best practice, l’Unione Europea stessa sembra essere molto interessata alla cultura del benessere nelle sue varie declinazioni. In sede di Commissione EU cominciano a crearsi le premesse per stimolare riforme sussidiarie anche nel contesto della programmazione Horizon 2020 e del nascente Anno Europeo della Cultura. I maggiori studi e le iniziative più interessanti nel settore, in Italia come all’estero, cominciano dal basso, ossia da Associazioni pubbliche e private che operano a livello locale. Lodevoli iniziative nazionali come il progetto la Memoria del Bello organizzato dalla Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma, su modello del MOMA di New York, per i malati di Alzheimer, le iniziative di musicoterapia promosse dall’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e il MediCinema, una sala cinematografica all’interno dell’ospedale “Gemelli” di Roma, voluta dal docente dell’Università Cattolica, Celestino Pio Lombardi, strutturato del Policlinico “Gemelli”, risentono della mancanza di una politica pubblica coesiva e azioni coordinate. Esempi di best practice stranieri nel campo della cultura del benessere sono rappresentati da Regno Unito e Francia. Nel Regno Unito si comincia a parlare di art therapy dagli anni ’80 del Novecento, ma è solo sotto il governo laburista, a partire dal 2001, che i Ministeri della Salute e della Cultura si sono impegnati in una politica organica di impegno concreto e rapporti di monitoraggio. Sotto la grande insegna del welfare State, si è dato nuovo impulso alla ricerca, si cita, a titolo di esempio, il recente report del gruppo parlamentare misto su Arts, Health and Wellbeing edito nel luglio 2017 e disponibile online. Tra i vari traguardi prospettati si parla della realizzazione di un centro di salute e benessere e della mise en place di strategie che sfruttino il potenziale terapeutico dell’arte. Al secondo posto si trova la Francia, con una procedura istituzionale molto sofisticata: da dieci anni il Ministère de la Culture et de la Communication e il Ministère de la Santé et des Sports condividono una politica comune di accesso alla cultura per tutto il pubblico degli ospedali convenzionati. Il sistema originale prevede gemellaggi tra associazioni culturali di tutti i tipi e strutture ospedaliere in una cornice decentrata, infatti le convenzioni sono gestite da agenzie regionali, sanitarie e culturali, che lasciano ai ministeri le sole funzioni di monitoraggio e, all’occasione, intervento. Sono 19 su 22 le regioni francesi che partecipano con i loro ospedali al gemellaggio, ha cominciato Parigi con il Louvre, il Centre Pompidou, il Museo di Montmartre, il museo Picasso e tutti gli altri a ruota. Nel 2010 gli effetti della convenzione sono stati rafforzati mediante l’ampliamento delle infrastrutture, il potenziamento della formazione del personale terapeutico e culturale e anche il miglioramento della qualità architettonica delle strutture ospedaliere in cui sono stati creati apposite aree culturali. I costi della gestione sono sopportati dalle Agenzie regionali decentrare e dalle strutture partner della convenzione. La dottoressa Carla Bodo dell’Associazione per l’Economia della Cultura auspica che l’Italia, dove esistono tante realtà indipendenti incapaci di fare massa per far sentire il loro peso, riesca ad appropriarsi di alcuni spunti interessanti desunti dagli esempi stranieri appena citati. Importante, secondo la Bodo, è l’approccio intergovernativo orizzontale fra i Ministeri della Cultura e della Salute per la messa in opera di politiche adeguate ai tempi con monitoraggio dei risultati. Ugualmente interessante, per un Paese in marcia verso il decentramento amministrativo, è lo stimolo di azioni sussidiarie a livello locale. La palla passa quindi al Governo che verrà. |
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